Diversity management: tutela e indicatori di ‘differenza’

A cura di Fabio Corbisiero, Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Nel mare magnum dei cosiddetti hate bias, ovvero di quei comportamenti dettati esclusivamente da pregiudizio cognitivo, lo stigma verso alcune categorie sociali, come le persone omosessuali e transessuali, è ancora molto avvertito. Negli ambienti di lavoro, per esempio, le ricerche sul tema ci mostrano che questo atteggiamento pregiudizievole non è ancora risolto (Levine e Leonard, 1984; Rinaldi, 2013). Studi statunitensi evidenziano che solo il 40% delle lavoratrici e dei lavoratori LGBT denuncia esperienze di trattamento discriminatorio sul posto di lavoro, mentre il 22% delle persone eterosessuali ha ammesso che si sentirebbe a disagio lavorando con colleghi/e omosessuali (Badgett et. al., 2007). A livello europeo, poi, lo stato delle cose non è diverso e l’indagine “EU LGBT survey” mostra alcuni punti critici relativi alla discriminazione delle persone LGBT. Nei diversi Paesi dell’UE una persona intervistata su due si sente discriminata o molestata a causa del proprio orientamento sessuale; una su tre ha subito discriminazioni nell’accesso a beni o servizi; una su quattro è stata aggredita fisicamente; una su cinque è stata discriminata in materia di occupazione o impiego. Altre autrici (Cimaglia M., “Orientamento sessuale e identità di genere nel diritto del lavoro”, in Corbisiero, 2013) avrebbero accertato che lavoratrici e lavoratori omosessuali e transessuali possono subire persino mobbing e licenziamento, nonostante la legge italiana con il decreto legislativo 216 del 2003 lo vieti. In Italia il 40,3% delle persone omosessuali ha dichiarato di essere stata discriminata nella ricerca di un lavoro (29,5%) o sul posto di lavoro (22,1%), a fronte di percentuali più ridotte relative agli eterosessuali, rispettivamente pari a 14,2% e 12,7% (Istat 2011). Alcuni studi e indagini empiriche mostrano che la disidentificazione nella ricerca di lavoro o sul luogo stesso di lavoro ha evidenti effetti negativi anche sulla socializzazione professionale, che vanno da una debole partecipazione della lavoratrice e del lavoratore alla vita aziendale (anche informale) alla piena condivisione degli obiettivi aziendali (Corbisiero, 2013; Gusmano, 2008; Sartori, 2011; Woods, 2011).

Data la rilevanza di tali processi, l’invisibilità dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT non solo costituisce un ostacolo alla loro piena affermazione professionale, ma è anche causa dell’assenza di persone omosessuali in diversi segmenti del mercato del lavoro o di una limitata mobilità aziendale. La scarsa partecipazione a reticoli relazionali informali o formali con colleghi/e o gruppi aziendali è infatti uno dei fattori di minore avanzamento di carriera o peggiore performance retributiva; si arriva ad una sorta di auto-discriminazione quando l’aspettativa di essere discriminati/e induce comportamenti non ottimali, come ad esempio non fare domanda di lavoro in certi settori o aziende. In Italia la situazione non è priva di criticità e, al contrario, la tutela di lavoratrici e lavoratori LGBT pare ancora parecchio debole. Poco più di dieci anni fa Barbagli e Colombo (2001) scrivevano:

È sul lavoro che le donne e gli uomini intervistati percepiscono i maggiori rischi di una reazione negativa. Essi possono infatti subire ostacoli ad avanzamenti di carriera, essere emarginati dai colleghi, ricevere aggressioni fisiche o verbali, essere oggetto di ricatti, a volte subire delle molestie, e in qualche caso estremo rischiare la sicurezza del posto di lavoro (p.85).

Il tema del Diversity Management (DM) – strategia aziendale che nasce in ambito organizzativo come progetto per creare una maggiore inclusione di tutti gli individui nelle relazioni sociali informali e nei programmi aziendali formali – tocca solo recentemente le questioni legate al genere e all’orientamento sessuale (Basaglia, 2010). Grazie ad una sempre più diffusa e congrua presenza delle donne nel mercato del lavoro che ‘sostiene’, direttamente o indirettamente, la causa omosessuale e in virtù delle decennali rivendicazioni della comunità LGBT in tema di lavoro, sono diverse le aziende mondiali che hanno recepito l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi organizzativi ai fini dell’aumento della competitività dell’azienda. Sotto questa angolazione critica, la modalità prevalente di DM è quella che cerca di mettere tutte le persone, a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale, in condizioni di lavorare con le stesse regole.
È l’approccio fondato sulla creazione di pari opportunità che, con strumenti prevalentemente normativi e formativi delle minoranze portatrici di differenze, cerca di equiparare le differenze tra tutti i soggetti che partecipano al mercato del lavoro, investendoli di eguali diritti e di eguali opportunità. Un approccio che ha come obiettivo quello di sviluppare nei lavoratori e nelle lavoratrici delle ‘capacità simmetriche’, ovvero capacità di gestire gli stessi ruoli ma con competenze e abilità specifiche, legate al genere. Questo approccio risente, in verità, dei fondamenti della democrazia statunitense, basata sui diritti dell’individuo e su un concetto di società di eguali (discrimination and fairness paradigm).
Le motivazioni per cui una azienda decide di adottare e implementare una politica di DM sono numerose. La crescita delle multinazionali e la diffusione di accordi di collaborazione internazionali, per esempio, hanno avuto come conseguenza l’instaurarsi di un management interculturale che ha dovuto imparare a confrontarsi con culture organizzative differenti. In tal senso, sono aumentati i rapporti di scambio con aziende straniere e con culture sempre più distanti, quali quelle del mondo arabo o dell’est asiatico. Nel recepire l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi teorici, inoltre, le aziende che implementano il DM partono dalla consapevolezza che le diversità esistenti in ciascuna risorsa umana sono funzionali all’organizzazione nel conseguire il vantaggio competitivo.
Ciò consente, per esempio, di ridurre i costi derivanti dal mancato rispetto delle prescrizioni normative sulle pari opportunità lavorative, i costi della selezione e formazione del personale, con particolare riguardo al turn-over del personale con caratteristiche diverse (come nel caso di un lavoratore omosessuale), nonché i costi connessi con la salute e l’assenteismo delle risorse umane.
Per quanto concerne i riflessi sulle persone derivanti da un’efficace gestione delle differenze occorre tener presente che la relazione individuo/lavoro ha subìto un radicale e acuto cambiamento, in forza del quale le risorse umane sono sempre meno interessate ai meri aumenti retributivi, aspirando piuttosto a incarichi fortemente personalizzati, capaci di condurre all’autorealizzazione e al benessere personale. Crescono, in sostanza, le aspettative che le persone riversano nel contesto lavorativo. Attese a spinta individuale, che sono dettate da esigenze motivazionali e dal desiderio di reali prospettive di carriere, piuttosto che dalle sole condizioni economiche. Anche l’atteggiamento dei collaboratori e delle collaboratrici che vivono una condizione di diversità per orientamento sessuale cambia nel momento in cui percepiscono l’interesse che l’organizzazione ha nei loro confronti. Gli/le stessi/e saranno spontaneamente indotti/e a migliorare la performance individuale e di gruppo, con conseguente incremento del risultato economico dell’azienda. IBM USA, che è stata tra le prime aziende a introdurre nel 1984 l’orientamento sessuale nell’ambito delle proprie politiche contro le discriminazioni, ha esteso, fin dagli anni Novanta, la propria politica di DM non solo ai/alle partner dei/delle propri/e lavoratori e lavoratrici LGBT, ma anche ad altre dimensioni della comunità omosessuale, sponsorizzando eventi e manifestazioni come le “Gay Pride Parade” (in cui i/le dipendenti omosessuali di IBM espongono una bandiera a barre colorate dalla scritta “Think IBM”) o finanziando borse di studio per studenti e studentesse LGBT. Nel 2010 IBM ha ottenuto il punteggio massimo dell’indice americano “Corporate Equality Index” (Human Rights Campaign), è giunta al primo posto nello “Stonewall Workplace Equality Index” (Associazione Stonewall) e nell’ “International Business Equality Index” (ILGA Europe – employment), sviluppato da IGLCC (International Gay & Lesbian Chamber of Commerce). Risultati raggiunti attraverso la combinazione di una strategia top-down (ossia, pieno supporto dell’alta direzione) e bottom-up (ossia, attivismo delle lavoratrici e dei lavoratori).
In questo caso, come in molti altri, il bilanciamento tra vita privata e professionale viene considerato una condizione essenziale per il benessere dei lavoratori e delle lavoratrici, i/le quali sono incentivati/e a fare coming out e a vivere la propria biografia con ‘naturalezza’. Studi sul coming out in luoghi di lavoro hanno dimostrato un impegno organizzativo e una soddisfazione professionale superiore nei lavoratori e nelle lavoratrici omosessuali, così come una sensibile riduzione dell’ansia da lavoro, conflitti di ruolo o conflitti lavoro-casa (Day e Schoenrade, 1997; Griffith e Hebl, 2002). Per questi motivi sono sempre più numerose oggi le aziende che dichiarano di ricercare e attingere talenti dalla comunità omosessuale (come recentemente il famoso brand americano Starbucks), di servirsi di prodotti e servizi provenienti da fornitori gay e lesbiche, e di distribuire i propri articoli ad amministratori, dirigenti e consumatori di orientamento sessuale omosex.

Sono diversi e oramai sempre più diffusi i metodi di misurazione dei comportamenti e delle azioni gay-friendly o di inclusione delle persone LGBT delle aziende che applicano norme e dispositivi di DM, come si è visto prima nel caso di IBM. Si tratta perlopiù di indici sintetici che misurano attività e performances di aziende, gruppi di lavoro, società multinazionali in relazione alle politiche di DM rispetto alle persone LGBT e che includono indicatori principali quali l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Uno degli esempi più significativi è l’ “International Business Equality Index” (IBEI). Si tratta di un indice, di tipo algebrico eventualmente ponderato sul tipo di azienda o sul numero di dipendenti, che rileva e valuta le strategie di policies legate alla dimensione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere dei/delle propri/e dipendenti, dei fornitori e degli stessi consumatori, attraverso la misurazione dell’impegno aziendale (commitment) nei confronti della comunità LGBT a livello globale. In questo modo è possibile avere un’idea del progresso avvenuto e dei traguardi raggiunti nell’area in esame dalle diverse organizzazioni su scala internazionale. L’aspetto innovativo dell’IBEI è quello di essere stato il primo indice ad analizzare i fattori di virtuosità e di criticità del DM aziendale a livello mondiale, andando oltre il contributo fornito da indicatori come il “Corporate Equality Index” (CEI) negli Stati Uniti e il “Workplace Equality Index” dell’Associazione Stonewall in Inghilterra, che operano solamente sul territorio nazionale. Il vantaggio che ne consegue è quello di poter comparare il grado di implementazione delle proprie politiche all’interno dei Paesi in cui l’azienda ha sede e di compararlo altresì a quello di altri competitor. Al di là di specificità legate alla metodologia, l’IBEI e perlopiù tutti gli altri indici che misurano il trattamento delle differenze nelle politiche di DM hanno il pregio di essere incentrati su indicatori che rilevano l’ampiezza dell’inclusività LGBT, dentro e fuori l’azienda.

Gli indicatori che servono a calcolare gli indici includono:

  • Politiche e regolamenti di non discriminazione basati sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e l’espressione di genere;
  • L’inclusione delle dimensioni dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e dell’espressione di genere nella formazione e nell’aggiornamento delle lavoratrici e dei lavoratori;
  • Parità nella distribuzione dei benefits aziendali, anche legati all’accesso al welfare;
  • Adeguata e rispettosa comunicazione nella pubblicità per la comunità LGBT;
  • Prestazioni di assicurazione sanitaria transgender – inclusive;
  • Rifiuto di ogni attività che comprometterebbe l’obiettivo della parità di diritti per le persone LGBT.

Ma quali potrebbero essere, anche nel nostro Paese, i benefici derivanti dalla diffusione delle politiche di DM? Attraverso l’adozione di queste pratiche le aziende possono trarre benefici diretti (sulle prestazioni e sul clima organizzativo) e benefici indiretti (contribuendo a migliorare gli ambienti di lavoro). In termini generali, gli impatti positivi delle politiche di DM si possono sviluppare su tre differenti livelli:

  • a livello macro, ossia a livello di società e di sistema economico, hanno un impatto positivo sulla creatività, sull’innovazione e sulla crescita economica. L’indice di creatività di Florida (2002) mostra come la presenza di un’ampia comunità LGBT in contesti territoriali abbia una ricaduta positiva anche a livello economico;
  • a livello meso, ossia a livello di singola azienda, hanno un impatto positivo sulle prestazioni aziendali (in termini di valore dell’indice azionario, di fatturato, di quota di mercato, di risultato economico) (Wang e Schwarz, 2010);
  • a livello micro, ossia a livello di gruppo di lavoro e/o di singolo lavoratore o singola lavoratrice, riducendo il minority stress (Lingiardi, 2007) si crea una relazione positiva tra livello di commitment e soddisfazione lavorativa del personale LGBT. Inoltre, tale relazione si rafforza nel caso in cui le politiche antidiscriminatorie siano supportate esplicitamente dal top management.

In linea con questo approccio la diversità legata al genere e all’orientamento sessuale nella gestione delle relazioni di lavoro rappresenta un processo ancora da implementare in Italia, soprattutto un universo ancora da governare efficacemente dal punto di vista delle politiche aziendali e delle relazioni industriali, ma anche da quello specificamente di carattere culturale: ci si riferisce alla necessità di far evolvere la cultura organizzativa, quella imprenditoriale e gestionale, ma anche quella più propriamente politica.
La ricerca scientifica e la sperimentazione di metodologie di misurazione delle politiche e delle strategie di DM mostrate dall’esperienza statunitense introducono un nuovo modo di fare lavoro. Un modello basato sul potenziamento relazionale, su quello individuale e finanche su quello familiare, tendente a ridurre gli ostacoli alla mobilità sociale ex ante piuttosto che riparare i danni ex post. Tutto questo è realizzabile con l’identificazione e la misurazione delle migliori politiche e prassi esistenti in Europa e di quelle, rarissime, avviate in Italia, come dimostra la ricerca condotta da Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford per conto di UNAR nel 2011-2012 (Gusmano e Lorenzetti, 2014).

Bibliografia

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