Omosessualità & Disabilità: doppia discriminazione o doppia risorsa?

A cura di Priscilla Berardi, medico e psicoterapeuta sistemico-relazionale, sessuologa.

A partire dagli anni ’70 si è assistito ad un radicale cambiamento nel modo di concepire la disabilità, che è passata dall’essere malattia, spesso ostracizzata dalla società, all’essere una condizione frutto dell’incontro-scontro tra fattori biologici, psicologici e sociali, elementi intrinseci ed estrinseci alla persona.
La disabilità, in base a questo modello, può riguardare qualunque individuo, che diviene disabile qualora non gli vengano forniti gli strumenti personali e ambientali utili al manifestarsi delle proprie potenzialità e risorse.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha siglato il cambio di prospettiva nel 2001 con la “Classificazione Internazionale del Funzionamento e della Salute”. In Italia, parimenti, la chiusura dei manicomi, la nascita di Leggi che garantissero la tutela sul lavoro e l’integrazione scolastica e sociale, l’introduzione dell’insegnante di sostegno per gli/le alunni/e con disabilità, ha portato ad un graduale mutamento nella percezione della disabilità da parte della società, nella direzione di una maggiore accoglienza e inserimento della persona disabile in seno alla comunità di appartenenza.
Gli ultimi cinquant’anni non cancellano però secoli di storia in cui la persona con disabilità è vissuta ai margini, denigrata, sottovalutata, inascoltata, quando non eliminata. Ancora oggi abbiamo difficoltà a riconoscere alla persona disabile tutte le caratteristiche dell’essere Umani, prima fra tutte la sessualità. La cultura moderna occidentale amplifica poi questa difficoltà pretendendo un’omologazione che appiattisce tutti gli individui in schemi rigidi e indiscutibili, che non ammettono differenze e in cui la diversità è vissuta come una colpa: quella dell’uscire dalle regole, del non sottomettersi ai criteri di giudizio e ai canoni estetici e di comportamento imperanti. Gli outsider delle gerarchie, insomma.
Eppure l’identità sessuale segue per tutti/e, disabili e non, gli stessi percorsi di sviluppo, risultando in una sessualità unica, universale, fatta per tutti/e delle stesse componenti, una sessualità che per i/le disabili non è speciale nei contenuti o nella forma, ma nel suo riconoscimento e nella possibilità di essere vissuta. Così, poiché lo sviluppo psichico – cognitivo ed emotivo – passa attraverso l’esperienza corporea, avere avuto la possibilità di sperimentare, fin dall’infanzia, la propria fisicità attraverso esperienze corporee piacevoli, attraverso un buon contatto con l’altro, avere imparato che cosa il proprio corpo può dare e ricevere, i suoi limiti e le sue risorse, al di là delle manipolazioni terapeutiche e degli esami diagnostici e strumentali, in rapporti fatti di accoglienza e rispetto reciproco, permette di maturare una buona percezione di sé, una buona immagine da proporre con sicurezza agli altri, un’integrazione tra la mente e il corpo.
Purtroppo, spesso, quel contatto piacevole viene negato alla persona disabile, che finisce per conoscere meglio i propri deficit che le proprie potenzialità e si identifica più con le proprie inadeguatezze che con le proprie capacità. Spesso l’autonomia viene limitata più di quanto non lo sia già, vengono bloccate quelle sperimentazioni e quelle prove che consentirebbero il rispetto delle varie fasi di crescita del soggetto fino ad un’entrata consapevole nel mondo adulto, che non è fatto solo di lavoro, barriere architettoniche, assistenza, cibo e bisogni fisiologici, ma anche di contatti interumani e costruzione di relazioni. Come quello di chiunque altro/a. In questa rimozione della dimensione amorosa e sessuale, si assiste ad una sorta di angelizzazione e infantilizzazione della persona disabile, che viene ‘tenuta piccola’, priva di iniziativa e così socialmente innocua. La privacy e l’intimità non vengono rispettate, non solo per esigenze pratiche di accudimento ma anche e soprattutto per una miopia dei bisogni di un proprio spazio e di raccoglimento, stupendosi poi se si verificano sfacciati episodi di esibizionismo o corteggiamenti pressanti. Di fronte all’espressione del desiderio, la risposta più frequente è il controllo, la regolamentazione, la repressione degli impulsi. Spesso, le uniche alternative che si pensa di poter percorrere sono la masturbazione e la prostituzione per i maschi e la sublimazione di ogni pulsione per le femmine. Che la disabilità sia fisica o sensoriale o psichica, vengono guardate con imbarazzo e sospetto tutte quelle affermazioni e quelle fantasie che proiettano il/la disabile nel futuro e in un legame con un’altra persona, ancor più se si tratta di genitorialità e procreazione. Ancor prima del/della disabile, ad essere impreparati a riconoscere il percorso maturativo sessuale della persona con disabilità sono le famiglie e gli operatori / le operatrici, già in difficoltà con i propri insoluti e con i propri vissuti sessuali, inconsapevoli prigionieri dei loro stessi stereotipi culturali e pregiudizi, inabili a gestire quelle emozioni che il rispecchiamento nelle frustrazioni dell’altro/a sollecita. Il risultato è che la sessualità alle persone disabili sembra essere concessa, calata dall’alto, come un diritto legislativo e non come un’essenziale e naturale componente già insita nella persona.

Che accade, dunque, se la persona disabile è omosessuale o bisessuale o transessuale?
L’inimmaginabile e l’indicibile si moltiplicano. Negli interrogativi di alcuni curiosi, «Sei diventato/a gay o lesbica a seguito dell’incidente?», «Sei gay o lesbica a causa della tua malattia?», «Scommetto che è omosessuale perché nelle sue condizioni non poteva ambire a niente di meglio» [l’eterosessualità], sono già racchiusi ed esplicitati tutto il pregiudizio e tutta l’ignoranza sulla disabilità e sull’omosessualità. Nell’ultimo decennio si sono occupate dell’argomento, per la prima volta in Italia, due indagini psicosociali su scala nazionale e un film documentario.
Nel 2007 sono stati pubblicati online i risultati di “Abili di cuore”, una ricerca di Berardi, Lelleri, Chiari, condotta da Arcigay in collaborazione con CDH Bologna e Centro Bolognese di Terapia Familiare. L’indagine aveva raccolto le testimonianze dirette di 25 persone disabili gay e lesbiche in tutta Italia, tra i 24 e i 60 anni di età, ed esplorava i quattro contesti principali di vita significativi per gli/le intervistati/e: socio-sanitario; familiare e sociale, relativi allo svelamento dell’omosessualità e al proprio vissuto in merito alla disabilità; associativo e comunitario, in riferimento sia all’ambito LGBT, che a quello handicap; affettivo/sessuale e di coppia.
Dalle interviste raccolte, è emerso come disabilità e omosessualità siano due cornici identitarie molto forti il cui amalgama può risultare in una varietà di distinte combinazioni. La persona disabile omosessuale può sentirsi doppiamente discriminata e vivere un elevato livello di disagio psicologico in una sorta di sommatoria delle problematiche, ma può anche raggiungere una piena consapevolezza e sicurezza di sé come disabile e libertà nell’esprimere il proprio orientamento sessuale. A volte, avere accettato convintamente una delle due componenti identitarie permette, per estensione, l’accettazione dell’altra, come se l’immersione nell’esperienza di ‘sentirsi diversi’ per un motivo e l’acquisizione degli strumenti necessari a far fronte allo stress della situazione insegnassero ad accogliere se stessi/e in ogni forma del proprio essere. Talvolta, invece, una delle due cornici prevale sull’altra, perché percepita più problematica o perché fonte di maggiore orgoglio, e la persona può descriversi come più disabile o più omosessuale.
La percezione delle difficoltà legate alla disabilità non è comunque direttamente proporzionale alla gravità della patologia riportata: alcune persone con disabilità oggettivamente meno invalidanti riferiscono una sofferenza soggettiva ed una compromissione del funzionamento socio-relazionale maggiore di persone con disabilità più inabilitanti. Il coming out più difficile dell’omosessualità è quello intrafamiliare, per la preoccupazione di accrescere il dolore già arrecato con la disabilità o il timore di perdere le cure necessarie, mentre fuori dalla famiglia può rendersi faticoso il coming out di una disabilità non evidente.
Per la persona con disabilità fisica importante, l’assenza di autonomia riduce la possibilità di frequentare luoghi di ritrovo LGBT dal momento che sarebbe necessario dichiarare il proprio orientamento ad un/a eventuale accompagnatore o accompagnatrice. Questo impone un’eventuale rottura della privacy o riduce drasticamente le occasioni di incontro e frequentazione di eventuali partners affettivi e/o sessuali. Complicato risulta anche il rapporto con le associazioni per disabilità, accusate di non tenere in debita considerazione la sessualità dei/delle disabili e di stigmatizzare l’omosessualità, e con le associazioni LGBT, per le quali la disabilità sembra un pianeta lontano e non esiste lotta alle barriere architettoniche. I disabili gay e lesbiche finiscono dunque per interrogarsi sui propri punti di riferimento e sull’appartenenza a questi due mondi.
Elevata drammaticità assume spesso il rifiuto da parte di potenziali partner affettivi e sessuali. E se per non vedenti e non udenti le cose sembrano più semplici perché non si è sottoposti a limitazioni motorie e l’accesso ai locali è meno problematico, le difficoltà nell’approccio e nell’incontro non si esauriscono qui, ma iniziano nella comunicazione con persone abituate a udire, che non conoscono la lingua dei segni, nell’inquinamento acustico dei locali che riduce la possibilità dei/delle non vedenti di sentire e nella poca illuminazione che limita la lettura del labiale per i/le non udenti. Eppure, quando l’incontro è fortunato ed è fatto di maturità, complicità e sensibilità, una volta superati gli ostacoli pratici, organizzativi, comunicativi e soprattutto mentali, una volta che la persona disabile omosessuale raggiunge un’immagine di sé positiva, le coppie che riescono a formarsi escono da un’idea di performance e di standardizzazione del rapporto sessuale e ricercano e scoprono pratiche sessuali alternative ugualmente appaganti per la coppia. La disabilità è ritenuta irrilevante o arricchente nella relazione duratura e nella condivisione quotidiana di affetto ed esperienze. Sono specialmente le donne lesbiche a parlare di un maggior grado di accoglienza della propria disabilità da parte del mondo omosessuale femminile.

Parte di questi risultati è stata riconfermata dall’indagine “Identità ad ostacoli” di Berardi, Guarnieri, Lelleri col sostegno di Arcigay Cassero LGBT center di Bologna, presentata al Convegno “Per una disabilità sostenibile” (Napoli, 5-6 giugno 2013). La ricerca, condotta su un campione autoselezionato, su tutto il territorio nazionale, esplora il rapporto tra operatori/operatrici e pazienti/assistiti/e LGB con disabilità. Le opinioni raccolte sono quelle di 20 pazienti LGB e 43 operatori/operatrici del settore sanitario, educativo e assistenziale. Le richieste rivolte alle associazioni e le mancanze sottolineate in esse sono immutate rispetto al 2007. Il timore delle persone LGB con disabilità a dichiararsi omosessuali all’interno dei Servizi e con gli/le operatori/operatrici riguarda la possibilità di ricevere un trattamento di serie B o un cambio di atteggiamento in negativo dell’operatore o dell’operatrice. Chi si è reso/a visibile come omo-bisessuale con almeno uno/a dei propri operatori/delle proprie operatrici ha però sperimentato accoglienza ed empatia. La professionalità è conservata. Anche gli operatori e le operatrici dichiarano di sentire un atteggiamento positivo verso i/le pazienti disabili LGB, potenziali o realmente conosciuti/e. La scarsa conoscenza sulle tematiche LGBT e sul binomio sessualità-disabilità è ammessa con umiltà, accanto al desiderio di ricevere formazione su di esse e all’idea che, comunque, le proprie conoscenze e caratteristiche personali siano più importanti delle abilità e competenze professionali nell’approccio a un/a paziente disabile LGBT. Un elemento preoccupante è nuovamente quello della violazione della privacy, ‘a fin di bene’, che mostra come la persona disabile sia immaginata come destinata a condividere tutto di sé con i propri familiari, nell’ottica di una tutela e di una desessualizzazione e infantilizzazione dell’individuo.

In questo panorama, appaiono totalmente dimenticate le persone transgender/transessuali con disabilità. In Italia, al momento, non esistono conoscenze né sono stati intrapresi studi che facciano luce su come queste persone vivano la loro identità sessuale e di disabile e che approfondiscano lo stretto rapporto col proprio corpo e con la propria immagine di sé.

L’ultima fotografia che ci rimane di questo tema è quella scattata dal documentario del 2013 “Sesso, Amore & Disabilità” di Silanus, Berardi, Lelleri, Alpi, Mastellari. Del folto gruppo di persone etero ed omosessuali intervistate, colpisce l’assenza di donne lesbiche disabili disponibili a raccontarsi pubblicamente – le cui motivazioni sarebbe interessante approfondire – mentre gli uomini gay disabili forniscono un racconto stimolante, aperto, equilibrato e rassicurante della loro storia relazionale. Chi ha più probabilità di avere successo nelle relazioni sembrano essere le persone che si mettono più in gioco, quelle disposte a rischiare e a ricevere rifiuti che le faranno soffrire ma pronte a rialzarsi e ricominciare. Sono le persone che hanno raggiunto una buona consapevolezza di sé e sono riuscite ad integrare tra loro tutte le parti della propria identità e ad affermare con convinzione i propri bisogni impegnandosi con chi era in grado di comprenderli, ascoltarli e condividerli. E’ cosa comune a chiunque nel mondo, ma nella disabilità questo dato viene evidenziato e accentuato.
Senz’altro ancora molta strada va comunque fatta perché le persone disabili LGBT possano sentirsi riconosciute come persone complete e non debbano più lottare per dimostrare l’ovvio.

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