Orgoglio e pregiudizio: le persone LGB al lavoro

A cura di Fabrizio Botti, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Perugia, e Carlo D’Ippoliti, Dipartimento di Scienze Statistiche, La Sapienza Università di Roma.

Il mito del ‘gay ricco’ e privilegiato (normalmente declinato solo al maschile) è antico quanto la consapevolezza dell’esistenza di orientamenti omo e bisessuali e può esser fatto risalire almeno al primo medioevo, durante la fase di ruralizzazione della civilizzazione romana, a partire dalla quale si attribuirono all’omosessualità molte delle debolezze delle classi dominanti (Boswell, 1980). Nonostante la sua traiettoria non lineare anche durante il XX secolo, lo stereotipo della presunta agiatezza continua oggi a essere applicato all’intera comunità LGB, equiparata senza distinzioni a un’élite privilegiata o a una potente lobby globale, spesso con l’obiettivo di soffocarne le istanze politiche.

A partire dagli Stati Uniti assistiamo però negli ultimi 20 anni a una crescita della ricerca scientifica in campo socio-economico, prevalentemente di natura empirica, sulla popolazione LGB. Sin dalla raccolta dei primi dati significativi, con il censimento della popolazione statunitense del 2000, appare tuttavia evidente come la distorsione ‘nel campione’ che può essere osservato dagli studiosi possa contribuire addirittura al rafforzamento del mito del gay ricco (Badgett, 2001). Ovvero, solo le persone relativamente più benestanti tra gli individui LGB decidono – o possono permettersi – di essere visibili in quanto tali, e di conseguenza la maggioranza delle persone, quantomeno a livello sociale, viene a conoscenza solo di persone LGB relativamente agiate. Indagini più approfondite hanno però evidenziato una forte vulnerabilità degli individui in coppie dello stesso sesso alla povertà e all’esclusione sociale, e che fattori come il genere, l’appartenenza a minoranze etniche e l’ubicazione dell’abitazione influenzino i tassi di povertà nella popolazione LGB (Albelda et al., 2009; Badgett et al., 2013). Negli Stati Uniti, che per la maggiore disponibilità di dati costituiscono il caso di studio più esplorato, i tassi di povertà di donne e afroamericani in coppie omosessuali sono rispettivamente superiori del 1.9% e del doppio rispetto alle loro controparti in coppie di sesso differente; un terzo delle coppie lesbiche e il 20.1% di quelle gay maschili con un’istruzione inferiore a quella secondaria sono povere contro il 18.8% della loro corrispondente popolazione eterosessuale; la probabilità di essere poveri quando si vive al di fuori delle grandi aree metropolitane è rispettivamente maggiore per le coppie lesbiche e gay del 9.6% e del 6.9% e questa evidenza si traduce in condizioni di particolare vulnerabilità per i/le figli/e delle coppie dello stesso sesso specialmente nella comunità afroamericana.

La discriminazione in ambito lavorativo rappresenta il campo di ricerca più consolidato in ambito economico, in particolare nello studio della gestione del personale e delle condizioni di lavoro nelle imprese, e delle remunerazioni dei lavoratori dipendenti (per una rassegna si rimanda a D’Ippoliti e Schuster, 2011). I lavoratori omosessuali risultano più vulnerabili rispetto a quelli eterosessuali nell’accesso alla formazione e nelle fasi di assunzione, avanzamento della carriera e licenziamento. Le discriminazioni durante il processo di assunzione possono avvenire nel momento del confronto dei curricula come durante i colloqui (Drydakis, 2009; Weischselbaumer, 2003), così come comportamenti auto-discriminatori spesso inducono a decisioni non ottimali (quali astenersi dal presentare candidature in settori o imprese di cui si teme una presunta maggiore ostilità). In Italia, un esperimento condotto da Patacchini et al. (2012) attraverso l’invio di CV fittizi ha mostrato una probabilità più bassa per i candidati omosessuali di essere richiamati per un colloquio di lavoro dopo aver risposto ad un annuncio (-30% per i CV che nello specifico indicavano la partecipazione ad associazioni LGB), ma non per le candidate lesbiche. Curtarelli et al. (2004) documentano un’alta percezione del rischio di ricevere reazioni negative al coming out in ambito lavorativo, mentre le ripercussioni sull’avanzamento di carriera assumono la forma di molestie, mobbing e arrivano addirittura al licenziamento. La mancanza di studi specifici sulle discriminazioni nella fase di licenziamento non deve ridimensionare, ad esempio, il potenziale discriminatorio indiretto e la problematicità delle procedure per la selezione dei lavoratori soggetti a mobilità o posti a carico della Cassa Integrazione Guadagni (CIG), in cui un criterio fondamentale per la selezione del personale posto in CIG è il concetto di ‘familiari a carico’, che nel nostro paese diviene potenzialmente discriminatorio nella misura in cui le famiglie delle persone LGB non sono giuridicamente riconosciute.

Numerose indagini statistiche si sono occupate di valutare il ruolo dell’orientamento sessuale nello spiegare i differenziali salariali tra persone LGB ed eterosessuali (una rassegna completa è fornita in Botti e D’Ippoliti, 2014). Un’evidenza consolidata a livello internazionale (che quindi stavolta riguarda anche Italia, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e Germania, tra gli altri) segnala l’esistenza di discriminazione nella remunerazione dei lavoratori gay, mentre risultati più contraddittori emergono riguardo le retribuzioni delle lavoratrici lesbiche. Seppure i redditi di queste ultime rimangano inferiori rispetto a quelli dei colleghi uomini, e il reddito familiare risulti quindi generalmente inferiore a quello di una coppia eterosessuale, in alcuni studi le lavoratrici lesbiche mostrano retribuzioni relativamente maggiori della media delle lavoratrici (soffrirebbero quindi meno del gender pay gap).
Questi risultati hanno dato luogo a interpretazioni contrastanti, che da un lato hanno enfatizzato l’associazione tra orientamenti sessuali e preferenze (e/o competenze) non osservabili (‘effetto selezione’), mentre dall’altro si sono concentrate sui meccanismi discriminatori prevalenti nei luoghi di lavoro (‘effetto discriminazione’). Secondo la prima interpretazione, coerente con la teoria economica cosiddetta neoclassica della specializzazione familiare, assumendo che le decisioni in tema di istruzione (e conseguentemente occupazionali) siano realizzate dopo aver preso coscienza del proprio orientamento sessuale, i differenziali di remunerazione deriverebbero da una specializzazione intra-familiare più bassa nelle coppie LGB rispetto alle famiglie ‘tradizionali’. Ovvero, i lavoratori gay non punterebbero tutto sulla carriera quanto gli altri uomini (finendo con maggiore probabilità in impieghi tradizionalmente ‘femminili’, a più bassa remunerazione), e le lavoratrici lesbiche non si dedicherebbero alle attività domestiche quanto le altre donne (scegliendo di investire in una istruzione più orientata al mercato del lavoro), con le conseguenze sugli stipendi di cui si è detto.
Altri studiosi legano piuttosto i differenziali salariali a comportamenti discriminatori nel mercato del lavoro, derivanti da omofobia ed eterosessismo (Badgett, 1995; Klawitter e Flatt, 1998; Arabsheibani et al., 2005).

In Italia, un nostro studio sui dati dell’ “Indagine sui bilanci delle famiglie italiane” della Banca d’Italia (2006, 2008, 2010) rappresenta forse il primo tentativo di quantificare l’inclusione sociale delle persone LGB, intesa come abilità e possibilità individuale di partecipare pienamente alla vita sociale, in vari ambiti: lavorativo, abitativo, sanitario, nell’istruzione e formazione, oltre che nelle politiche sociali (Botti e D’Ippoliti, 2014). Nonostante i diversi criteri di identificazione del campione LGB adottati nella letteratura, coerentemente con molti degli studi precedentemente citati, per l’assenza di dati migliori abbiamo dovuto limitarci all’osservazione di coppie di persone conviventi: possiamo dunque supporre che i conviventi in coppie dello stesso sesso siano una parte della popolazione omosessuale e bisessuale, ma non possiamo dir nulla sulle persone trans e sulle persone omosessuali che non vivono in coppia. Il vantaggio dei dati da noi utilizzati è che ci permette di distinguere le coppie non dichiarate esplicitamente ma identificate di fatto dai rilevatori dell’indagine da quelle che decidono spontaneamente di qualificarsi come tali (rimandiamo al lavoro completo per un quadro dei diversi criteri di identificazione del campione LGB e per maggiori dettagli riguardo alla metodologia usata).

Tabella1_Articolo

Fonte: Botti e D’Ippoliti, 2014

Come si vede dai dati riassunti nelle tabelle, dalla nostra analisi emerge che le persone in coppie dello stesso sesso lavorano in media meno (non sappiamo se per scelta o per impossibilità) di quelle in coppie di sesso diverso, e questo è vero soprattutto per le coppie non dichiarate che si trovano inoltre a lavorare maggiormente con contratti precari o di breve durata. Dal punto di vista reddituale, le persone in coppie dello stesso sesso dichiarate ottengono una retribuzione oraria approssimativamente simile a quella del resto della popolazione, seppure i loro redditi annui siano più bassi in considerazione del ridotto numero di ore settimanali passate al lavoro.

Tabella2

Fonte: Botti e D’Ippoliti, 2014

Le persone in coppie dello stesso sesso non dichiarate guadagnano invece significativamente meno, sia all’ora che all’anno. In generale, un’analisi più approfondita, che tiene conto di una serie di caratteristiche osservabili individuali e di contesto del campione italiano di riferimento, ha evidenziato livelli di esclusione sociale (quindi non solo lavorativa, ma anche relativa ai livelli di istruzione, alla povertà monetaria, alle condizioni abitative ed al benessere percepito soggettivamente) sistematicamente maggiori per i lavoratori e le lavoratrici omosessuali in confronto al resto della popolazione e particolarmente per chi non si è dichiarato.

Complessivamente, dunque, la nostra analisi mostra non solo quanto gli individui in coppie dello stesso sesso siano penalizzati nel mercato del lavoro (oltre che in altre dimensioni di inclusione sociale), ma come la popolazione LGB costituisca un gruppo sociale eterogeneo (al di là della consueta distinzione tra uomini e donne omosessuali) al cui interno sembrano essere coloro che non dichiarano esplicitamente il proprio orientamento sessuale a presentare le condizioni socio-economiche peggiori. Risultati che confermano anche per l’Italia quanto lontani siano gli stereotipi sulle persone LGB dalla loro realtà quotidiana, fatta più spesso di magri salari che di party lussuosi.

Bibliografia

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on Google+Pin on PinterestEmail this to someonePrint this page

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti. Se non accetti i cookies alcuni contenuti potrebbero non essere visibili. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi