Il movimento lesbico in Italia: una conversazione con Nerina Milletti

A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nerina Milletti, studiosa lesbica e femminista, ha attraversato il movimento lesbico italiano dal suo inizio ad oggi. Le abbiamo fatto alcune domande per comprendere meglio la storia e le specificità di questo movimento rispetto agli altri.

Quando è nato il movimento lesbico in Italia? Quali sono stati i passaggi significativi che ne hanno segnato la storia?

E’ difficile datare in modo preciso la nascita del movimento lesbico. Il motivo principale è che ha sempre avuto due anime: l’una più legata al femminismo, l’altra all’identità omosessuale. Ci sono stati cioè due percorsi inizialmente paralleli: quello in cui prima veniva l’essere donna, sia nel senso di appartenenza che come posizionamento politico; l’altro in cui invece l’omosessualità era prioritaria rispetto alla declinazione di genere.

Le due diverse prospettive, nel corso del tempo, talvolta si sono intrecciate e talvolta si sono scontrate. Per esempio le donne che facevano parte di gruppi omosessuali accusavano le lesbiche che stavano nel movimento delle donne di non rivendicare il loro lesbismo e di nascondersi dietro l’etichetta di femminista, mentre le lesbiche femministe rimproveravano alle altre il disinteresse per i diritti e le lotte delle donne e di non capire che alla base di qualsiasi oppressione, anche quella omosessuale, stanno il sessismo e il sistema patriarcale. Certo è che alle lesbiche, in entrambi i movimenti, fu richiesto uno sforzo maggiore in termini di riflessione e di analisi perché finché non si differenziarono – in un caso dalle donne eterosessuali, nell’altro, dai gay maschi – la loro specifica soggettività non poteva emergere.

La data che segna l’inizio del movimento omosessuale è, convenzionalmente, quella della contestazione del convegno che era stato indetto a Sanremo il 5-6 aprile 1972 dal cattolico Centro Italiano di Sessuologia con lo scopo di avallare una proposta di legge che avrebbe reso l’omosessualità un reato. A segnalarlo e a creare le condizioni per organizzare la manifestazione di protesta fu proprio una donna – Maria Silvia Spolato – che nel 1971 aveva già fondato il gruppo FLO (Fronte di Liberazione Omosessuale) e che poi militò nel Fuori!.

Alla fine degli anni Settanta nacquero i primi gruppi lesbici: le Brigate Saffo a Torino, il gruppo Realtà Lesbica a Firenze e molti altri. Ma di un vero e proprio movimento lesbico si può parlare solo dal 1981, anno denso di eventi significativi, tra questi il fatto avvenuto ad Agrigento: due ragazze viste baciarsi in un giardinetto furono arrestate e a Roma venne organizzata una manifestazione in loro difesa, l’unica finora fatta in Italia per istanze specificatamente lesbiche. Nello stesso anno, sempre a Roma, viene fondato il CLI (Collegamento Lesbiche Italiane) che cominciò a pubblicare un bollettino per diffondere le notizie sui vari appuntamenti, la cultura e la politica lesbica; ricordiamoci che le informazioni a quei tempi potevano circolare solo attraverso la carta stampata. Come ho detto, anche se il 1981 fu un anno di grande importanza per il lesbismo separatista, prima non c’era il vuoto: erano state aperte le librerie delle donne, fondate case editrici, occupati spazi per le sedi dei gruppi, gestiti luoghi di ritrovo, tradotti e messi in circolazione testi del lesbismo radicale, organizzati seminari e convegni per incontrarsi e discutere. Nel decennio che arriva fino ai primi anni ’90, il movimento lesbico separatista fu estremamente produttivo e vitale, in controtendenza rispetto al movimento delle donne (eterosessuali) che aveva iniziato la sua parabola discendente già da un bel po’ di anni.

Hai fatto riferimento al separatismo, quali sono state le pratiche specifiche del movimento lesbico?

Il separatismo, inteso come necessità di avere spazi autonomi, per i motivi che ho detto, fu una scelta obbligata ancor prima che politica, sia per coloro che si riconoscevano nel femminismo (il separatismo era una caratteristica dei collettivi femministi, anche di quelli etero), sia di quante crearono momenti o gruppi separati di donne all’interno del movimento gay. Va sottolineato, infatti, che il separatismo è appunto una pratica, una strategia, un metodo di lavoro, non un obiettivo o una condizione da raggiungere. Nei gruppi femministi lesbici, almeno in quelli che conosco io, non vi era la pratica dell’autocoscienza in senso stretto poiché le urgenze erano diverse e forse più immediate: il riconoscimento reciproco, l’accettazione di sé, la visibilità.
La visibilità era l’altro pilastro: una visibilità che era sia quella a livello personale (indispensabile punto di partenza per dare valore e riconoscimento alle nostre relazioni d’amore e quindi a noi stesse), sia la presa di parola pubblica di un soggetto politico; quindi non la partecipazione a eventi pubblici decisi da altre o da altri, ad esempio le sfilate del Pride, che per lungo tempo sono state percepite come estranee alla proprie esigenze e priorità, né tanto meno le apparizioni in tv.
Gli argomenti dei seminari, i criteri di scelta dei film proiettati ai festival del cinema, i temi dei convegni, tutto veniva lungamente discusso prima nelle riunioni dei gruppi a livello locale poi le riflessioni fatte venivano riportate negli incontri nazionali. Sul solco del femminismo, ciò avveniva fuori dal principio di delega o di rappresentanza: ognuna parte da sé, perciò nessuna può parlare a mio nome. Si sperimentava un metodo decisionale diverso, difficile da concepire per chi pensa la politica in termini di maggioranze, di voti e di numeri. Non c’erano presidenti, non c’erano tessere, non c’erano portavoce; anche solo costituirsi in associazione, al tempo, era percepito come un processo di istituzionalizzazione assolutamente da evitare. Dovevi metterti in gioco, essere fisicamente presente, partecipare a tutte le fasi; dato che le riunioni venivano indette in città diverse, le donne si spostavano molto. Lo scambio reciproco di ospitalità era di prassi e facendoci entrare nelle loro case e nelle vite stesse, era un ulteriore modo per vedere e capire la realtà delle altre lesbiche.

Il riferimento al femminismo mi sembra molto significativo, qual è stato il rapporto tra questi due movimenti?

Bisogna fare una distinzione tra ‘femminismi’ (le diverse teorie che articolano un pensiero alla cui base sta la constatazione dell’ineguale trattamento di uomini e donne nella società) e il ‘movimento delle donne’, l’insieme che al suo interno contiene le tante, e spesso molto diverse, correnti. Quella che va sotto il nome di ‘pensiero della differenza sessuale’, per esempio, ha sempre marginalizzato l’esperienza lesbica, considerandola inessenziale a fronte dell’appartenenza di sesso, interpretandola come una riproposizione dell’ordine simbolico maschile o un puro comportamento sessuale, tanto che hanno sempre preferito connotare il legame tra due donne con la parola omosessualità. Per le lesbiche femministe come noi, la parola lesbica invece aveva (e ha) un valore politico che va oltre l’attrazione fisica per una persona del medesimo sesso e significa una donna che sceglie di dare prioritariamente le proprie energie emotive, sessuali, materiali ad altre donne. Con quella parte di femminismo c’è stata quindi una profonda distanza: c’era la sottovalutazione del valore esperienziale e cognitivo delle relazioni erotiche tra donne; dentro la categoria di Donna elaborata nel loro pensiero tutte le altre differenze sparivano, compresa quella di classe.
Rispetto ai rapporti con le altre femministe eterosessuali non si può generalizzare, c’erano molte differenze territoriali e probabilmente esistevano contesti e situazioni dove la reciproca attenzione e collaborazione non erano sempre possibili. Ma questa non è stata la mia esperienza personale: a Firenze ci riunivamo alla Libreria delle Donne che, sebbene fosse gestita principalmente da donne etero, ci riconosceva come soggetti politici e rispettava le nostre scelte, anche grazie alla presenza tra di loro di alcune donne lesbiche come Liana Borghi. Più in generale il femminismo (in particolare quello radicale) legittimò il lesbismo, rese possibile il suo impianto teorico e fornì occasioni che, come i grandi convegni di Pinarella o Paestum, furono importanti non solo per far emergere e discutere la specificità lesbica ma, per molte, anche per viverla.

E la relazione con il movimento gay e l’esperienza trans come si è articolata?

Come dicevo, alcune donne che facevano parte del movimento misto riconobbero la necessità di spazi separati a causa della misoginia e del sessismo che dimostravano taluni omosessuali maschi. Della sottovalutazione delle donne ne abbiamo prova guardando ad esempio le ricostruzioni storiche di quegli anni fatte da studiosi gay che hanno in un qualche modo rimosso o minimizzato il contributo femminile. Nella storia del Fuori!, ad esempio, Maria Silvia Sposato – che ho citato prima – fu una figura chiave di cui non si riconosce l’effettiva importanza; lo stesso vale per moltissime altre occasioni del movimento: se si guardano le foto, vediamo che le donne c’erano ma nessuno ne ricorda i nomi e nemmeno la presenza.
A parte alcune felici sinergie a livello locale, possiamo dire che in generale il movimento delle lesbiche, tra l’altro molto meno dotato di mezzi e risorse, ha avuto difficoltà a trovare un terreno comune con il movimento degli omosessuali per l’incomprensione che l’altra parte mostrava rispetto alle istanze e alle modalità politiche delle donne. La diffidenza nei confronti dei ‘fratelli’ gay non impedì però la collaborazione tra i due movimenti nel momento in cui l’epidemia di AIDS costringerà alla messa in campo di tutte le energie disponibili per fronteggiarne gli effetti; un’esperienza che porterà, se non sempre a modificare i rapporti di potere esistenti, a riformulare nuove alleanze tra lesbiche e gay e a mettere a punto obiettivi comuni per cui lottare insieme.

Anche per quanto riguarda le persone trans la relazione ebbe luci e ombre. Ci furono alcuni spiacevoli episodi legati alla pratica del separatismo quando alcune trans chiesero di entrare nella Casa delle donne a Roma o alla settimana lesbica a Bologna, così come di essere iscritte ad una mailing list lesbica, tutti luoghi dichiaratamente chiusi a chi non fosse di sesso femminile. Il rifiuto delle lesbiche, che rivendicavano il pieno diritto a decidere chi dovesse partecipare ad una loro iniziativa e pretendevano il rispetto per scelte che, giuste o sbagliate che fossero, erano loro, innescò una serie di polemiche e di reciproche incomprensioni che dalle singole persone coinvolte, che avevano agito a livello individuale senza prima cercare un confronto politico, si trasmise a più ampio raggio. A mio parere, incomprensioni dovute essenzialmente al fatto che trans e lesbiche fino ad allora si erano reciprocamente ignorate e non si erano mai dette il significato che rispettivamente attribuivano a concetti fondamentali quali sesso, genere, corpo, sessualità. Oggi le cose sono molto cambiate, dentro e fuori i movimenti LGBT; a maggior ragione l’esigenza di riflettere insieme sulle diverse esperienze identitarie, di incontrarci per sapere cosa oggi voglia dire essere lesbica, gay o trans e capire le possibili contraddizioni, limiti e possibilità che le tre diverse identità offrono, mi sembra sia ancora presente.

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