Orientamento sessuale: guida alla normativa e alla giurisprudenza

A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

La tutela giuridica dell’orientamento sessuale è molto recente: difficile è trovare carte costituzionali, trattati, convenzioni o leggi adottate prima dell’ultima decade del Novecento che facciano esplicito riferimento all’orientamento sessuale quale fattore di discriminazione vietato. L’esigenza di introdurre normative apposite volte a colmare le lacune nell’attuazione del principio di eguaglianza che avevano consentito il perpetuarsi di situazioni di svantaggio a danno della popolazione omosessuale si è manifestata con particolare evidenza sul finire dello scorso secolo ed è stata avvertita anche nelle democrazie occidentali consolidate.
Alcune di queste hanno addirittura scelto la via della revisione costituzionale, inserendo nelle proprie leggi fondamentali un riferimento espresso al divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale: è questo, ad esempio, il caso del Portogallo, la cui Costituzione, dopo la modifica intervenuta nel 2004, sancisce all’art. 13, comma II, che «nessuno può essere privilegiato, beneficiato, giudicato, privato di qualsiasi diritto o esonerato da qualsiasi dovere in ragione del suo orientamento sessuale», così seguendo l’esempio di diverse carte costituzionali latino-americane, africane e asiatiche[1].

L’espressione ‘orientamento sessuale’ fa la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione non costituzionale, bensì ordinaria, con l’entrata in vigore del D. lgs. n. 216 del 2003 attuativo della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale Direttiva ha imposto a tutti gli Stati membri dell’Unione europea l’adozione delle disposizioni necessarie a prevenire e reprimere le discriminazioni motivate da ragioni di età, disabilità, religione e orientamento sessuale, sia dirette che indirette (nonché quei fenomeni ritenuti rientranti nell’ampia categoria delle condotte discriminatorie, quali le molestie e l’ordine di discriminare), nell’ambito dell’impiego pubblico e privato, nell’accesso alla formazione professionale e nell’affiliazione a organizzazioni di lavoratori o datori di lavoro (Cfr. “Lavoro”).

La possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare misure volte a combattere le discriminazioni fondate su tutta una serie di fattori comprendente l’orientamento sessuale era stata riconosciuta dall’art. 13 del Trattato CE (ora art. 19 TFUE ) come emendato dal Trattato di Amsterdam del 1997 (in vigore nel 1999), che ha rappresentato una tappa fondamentale per lo sviluppo del diritto antidiscriminatorio europeo e, conseguentemente, domestico. La tutela dell’orientamento sessuale può quindi ritenersi oggi rientrante nelle funzioni dell’Unione europea ed è prevista nel suo c.d. diritto primario, di cui fanno parte anche le previsioni antidiscriminatorie contemplate nella “Carta dei diritti fondamentali dell’UE” approvata nel 2000 e divenuta giuridicamente vincolante nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
E’ da segnalarsi che la protezione dell’individuo dalle discriminazioni legate all’orientamento sessuale offerta dalla normativa europea è quanto mai ampia con riferimento al settore lavorativo, mentre non si estende ad altri aspetti assai rilevanti nella vita quotidiana quali l’istruzione, la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria, l’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura: la citata Direttiva 2000/78/CE non include, infatti, tali ambiti tra quelli in cui opera il divieto di discriminazione, a differenza di quanto prevedono invece altre direttive per le discriminazioni di sesso ed etnico-razziali. Merita peraltro osservare che il 2 luglio 2008 la Commissione europea ha presentato una proposta di nuova direttiva sulla parità di trattamento che estenderebbe la tutela dalle discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale anche ai suddetti ambiti: sebbene con la Risoluzione del 2 aprile 2009 sia stato al riguardo espresso parere favorevole da parte del Parlamento, il procedimento di approvazione non si è ad oggi concluso. Assai significativa pare invece l’attenzione rivolta dall’Unione europea alla tutela dell’orientamento sessuale dei cittadini di paesi terzi o apolidi. Nella Direttiva di rifusione 95/2011 sul riconoscimento dello status di rifugiato si chiarisce che gli Stati membri, nel valutare i motivi di persecuzione, debbano tenere conto anche dell’appartenenza di un individuo a un particolare gruppo sociale, che ben può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale (Cfr. “Identità e culture”).
L’esplicito divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale in settori diversi dall’occupazione non è previsto nemmeno dalla normativa italiana, dal momento che il D. lgs. 216/2003 non va oltre a quanto prescritto agli Stati membri dell’UE dalla direttiva vigente. Nell’ultimo decennio sono però state approvate diverse leggi regionali che, oltre a ribadire il principio di parità di trattamento nel settore occupazionale e della formazione professionale, mirano a estendere la tutela dalle discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale ad ambiti ulteriori quali, ad esempio, l’istruzione e/o le prestazioni sociali e sanitarie(legge della Regione Piemonte n. 5 del 2016; legge della Regione Liguria n. 52 del 2009; legge della Regione Toscana, n. 63 del 2004), oppure che contemplano la creazione di  organi per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni e l’assistenza alle vittime, come, ad esempio, la “Rete regionale contro le discriminazioni” della Regione Piemonte (legge della Regione Piemonte n. 5 del 2016, artt. 12 e 13), nonché forme di tutela non giurisdizionale del diritto all’eguaglianza dinanzi all’Autorità di Garanzia per il rispetto dei diritti di adulti e bambini (è questo il caso della Legge della Regione Marche n. 8 del 2010, come emendata dalla Legge regionale n. 8 del 2013).

Per quanto concerne la  tutela dell’orientamento sessuale nell’ambito dei rapporti familiari, dopo anni in cui non sono mancati significativi interventi dei giudici ordinari, costituzionali ed europei volti a sollecitare l’adozione da parte del Parlamento di una normativa di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali[2], è di recente intervenuta la legge 20 maggio 2016 n. 76 che ha riconosciuto ai partners di una coppia dello stesso sesso il diritto di formalizzare la loro relazione mediante “unioni civili” da cui derivano diritti e doveri sostanzialmente analoghi a quelli spettanti alle coppie eterosessuali che contraggono matrimonio. Resta invece problematica  la trascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero: al riguardo, merita ricordare che la Corte di Cassazione, con la sentenza n.4184 del 2012 aveva stabilito l’impossibilità di trascrivere il matrimonio contratto all’estero tra individui dello stesso sesso, stante la sua inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano. L’affermazione nella medesima decisione della titolarità in capo ai componenti di una coppia omosessuale stabilmente convivente del «diritto a una vita familiare» e del «diritto di vivere liberamente una condizione di coppia» in quanto formazioni sociali ex art. 2 Cost. aveva però indotto il Tribunale di Grosseto, con ordinanza del 2014, ad accogliere il ricorso di una coppia omosessuale che aveva chiesto la trascrizione dell’atto del matrimonio contratto all’estero nei registri dello stato civile del comune di residenza: nonostante l’annullamento di tale pronuncia in sede di appello[3],e il successivo intervento del Consiglio di Stato che, con la pronuncia n. 4899 del 2015, ha riconosciuto la legittimità del potere dei prefetti di annullare le trascrizioni effettuate, la situazione di notevole incertezza presso gli uffici dello stato civile dei comuni italiani tuttora perdura e ha indotto diversi Consigli comunali a deliberare a sostegno dell’operato dei Sindaci favorevoli alla trascrizione[4].

Dal punto di vista dei rapporti tra genitori e figli è invece ormai pacifica l’illegittimità di ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nell’affidamento dei minori in caso di rottura della relazione di coppia dei genitori: è quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 601 del 2013 che ribadisce quanto stabilito negli anni precedenti sia dalla giurisprudenza di merito circa l’irrilevanza dell’omosessualità della madre o del padre del minore nella decisione relativa all’affidamento o all’individuazione della dimora della prole[5], sia dalla Corte europea dei diritti umani che con la decisione “E.B. c. Francia” la Corte ha accertato il carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’idoneità di un soggetto all’adozione di minori fondato su ragioni unicamente riconducibili all’orientamento sessuale. Diversa e più complessa è, invece, la questione dell’adozione coparentale di minori da parte da parte del genitore sociale all’interno delle famiglie omoparentali Anche tale questione è  stata affrontata dalla Corte europea dei diritti umani ma con una decisione  che pare priva di conseguenze immediate per l’ordinamento giuridico italiano. Con la pronuncia “X e altri c. Austria” del 2013 l’Austria è stata, infatti, condannata per l’esclusione delle coppie omosessuali dall’accesso all’adozione coparentale , ammessa invece per le coppie eterosessuali, anche se non sposate, rinvenendo in tale trattamento differenziato una violazione del principio di non discriminazione: violazione che non sussisterebbe in Italia dal momento che  normativa vigente consente questa peculiare forma di adozione solo alle coppie coniugate. La possibilità di adottare il figlio biologico della/del partner è stata però negli ultimi anni ripetutamente riconosciuta dai giudici di merito e, di recente, anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12962 del 2016 (Cfr. “Famiglie plurali”)

Il diritto a non subire discriminazioni in ragione del proprio orientamento sessuale ha, infine, ulteriori molteplici implicazioni elencate in maniera esaustiva, ad esempio, nei c.d. Principi di Yogyakarta adottati nel 2006 che hanno svolto un ruolo di persuasione non irrilevante nei confronti dei governi nazionali, insieme ad altri documenti sopranazionali rientranti nella categoria della c.d. soft law in ragione del loro carattere giuridicamente non vincolante, in cui si sottolinea come i diritti delle persone omosessuali debbano essere ricompresi nella più ampia categoria dei diritti umani (si pensi ad esempio, alla Risoluzione del Consiglio dei diritti umani dell’ONU del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” e alla successiva del 2014). Analoga valenza persuasiva e programmatica assumono le Raccomandazioni adottate in seno al Consiglio d’Europa, tra le quali merita almeno ricordare la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del 2010 che invita gli Stati ad approvare misure volte a rafforzare la tutela dalle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale in molteplici settori. Una delle aree di intervento indicate è quella della lotta all’omofobia, caldeggiata anche in diversi documenti dell’Unione europea, quali la Risoluzione del Parlamento Europeo sull’omofobia in Europa del 2007, preceduta e seguita da altre risoluzioni di analogo contenuto (Risoluzione del 2012 e Risoluzione del 2014). Tale lotta si è già avviata in diversi ordinamenti europei e non (tra i quali non vi è però ancora l’Italia) che hanno adottato apposite normative volte a combattere il fenomeno dell’omofobia sanzionando penalmente sia i crimini che i discorsi d’odio (Cfr. “Omofobia e transfobia”).

[1] La prima Costituzione al mondo ad aver introdotto l’espresso divieto di discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale è stata quella del Sudafrica entrata in vigore nel 1996, seguita pochi mesi dopo da quella delle isole Figi (1997) e da quella dell’Ecuador (1998).

[2] La Corte costituzionale, con la pronuncia n. 138 del 2010 (link alla banca dati), si era limitata a  rimettere alla discrezionalità del Parlamento il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali; in seguito, con la decisione n. 170 del 2014 (link alla banca dati), dichiarando l’incostituzionalità del c.d. “divorzio imposto” in caso di rettificazione di sesso di uno dei coniugi (cfr. “Identità di Genere”), aveva affidato al legislatore il compito di introdurre una forma di convivenza registrata per le coppie formate da persone dello stesso sesso. In ragione dell’assenza di una legislazione di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso, l’Italia era è stata poi condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la violazione della CEDU nel 2015, con la sentenza “Oliari e altri v. Italia” (reperibile al link https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?previsiousPage=mg_14_7&contentId=SDU1177280) e nel 2016 con la decisione “Taddeucci e McCall c. Italia” (reperibile in lingua francese al link http://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22languageisocode%22:[%22FRE%22],%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22itemid%22:[%22001-164201%22]}), in cui si è affermato che costituisce discriminazione diretta sulla base dell’orientamento sessuale nel godimento del diritto alla vita familiare la mancata concessione al partner dello stesso sesso non cittadino dell’Unione europea del permesso di soggiorno per motivi familiari.

[3] Sentenza della Corte di Appello di Firenze del 19 settembre 2014.

[4] Diversi sindaci, dopo la citata pronuncia del Tribunale di Grosseto, avevano infatti iniziato ad autorizzare le trascrizioni di matrimoni contratti all’estero, che però sono state ritenute illegittime dalla c.d. Circolare Alfano n. 10853 del 2014 con cui i prefetti sono stati invitati a ordinare ai sindaci la cancellazione delle trascrizioni già effettuate.

[5] Si vedano l’ordinanza del Tribunale di Nicosia del 2010 e quella del Tribunale di Firenze del 2009.

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