Lavoro: guida alla normativa e alla giurisprudenza

A cura di Tiziana Vettor, Dipartimento dei Sistemi Giuridici, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

In ambito lavorativo la tutela delle persone omosessuali è stata introdotta nell’ordinamento italiano dal d.lgs. n. 216 del 2003 con cui il legislatore ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, intesa come «assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale» (art. 1 d.lgs. 216/2003). Per effetto della trasposizione della direttiva europea, modificata dalla l. n. 101 del 2008 di conversione del d.l. n. 59 del 2008, a seguito una procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea contro l’Italia (n. 2006/2441), lo Statuto dei Lavoratori è stato integrato (art. 2 d.lgs. n. 216/2003) con un espresso divieto di discriminazione di cui all’art. 15 della l. n. 300 del 1970 alle ipotesi di atti o patti diretti a fini di discriminazione basata sull’orientamento sessuale e la “Disciplina dei licenziamenti individuali” di cui alla l. n. 108 del 1990, con la previsione della nullità del licenziamento discriminatorio anche in ragione dell’orientamento sessuale (art. 3 d.lgs. n. 216/2003).

Il decreto legislativo ha determinato l’introduzione nel nostro ordinamento delle nozioni di discriminazione, ‘diretta’, «quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga» (art. 2, 1° co. lett.a, d.lgs. n. 216 del 2003) e ‘indiretta’, «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (art. 2, 1° co. lett.b, d.lgs. n. 216 del 2003).

Tra i comportamenti discriminatori rientrano, per espressa previsione, sia le molestie, intese come quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 del 2003), sia le eventuali istruzioni discriminatorie (ordini) impartite dal datore di lavoro (art. 2, 4° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

L’ambito di applicazione comprende sia il settore privato che il pubblico impiego, e riguarda tutte le fasi in cui si articola il rapporto di lavoro, dall’accesso all’impiego, alle condizioni di lavoro, alla retribuzione, al licenziamento (art. 3 d.lgs. n. 216 del 2003). La tutela giurisdizionale è stata innovata dall’art. 34, 34° co., del d.lgs. n. 150 del 2011 che ha ricondotto tutte le controversie in materia di discriminazione (comprese quelle di cui all’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, all’art. 4 del d. lgs. n. 215 del 2003, all’articolo 3 della l. n. 67 del 2006 e all’articolo 55-quinquies del d.lgs. n. 198 del 2006) nell’ambito del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis, 702-ter, 702-quater c.p.c. (art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011). La disciplina, riguardante la semplificazione dei riti, è inoltre intervenuta a modificare il sistema probatorio previgente, introducendo una parziale inversione dell’onere probatorio, con la conseguenza che spetta ora al convenuto, e non alla presunta vittima, dimostrare l’insussistenza della discriminazione, anche in relazione alla utilizzabilità, ai fini della presunzione della discriminazione, di dati di carattere statistico (art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011). Quanto ai rimedi, sempre ai sensi del d. lgs. 150 del 2011 (art. 28), con l’ordinanza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Il giudice, con il provvedimento ed entro il termine ivi fissato, accertata la condotta discriminatoria può ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate che, nel caso di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente. Invero il d.lgs. n. 216 del 2003, in questo modificato dalla legge n. 101 del 2008, ha esteso il novero dei soggetti legittimati ad agire in giudizio consentendo la rappresentanza, oltre alle organizzazioni sindacali, anche alle associazioni e alle organizzazioni che a diverso titolo si occupano della tutela delle persone discriminate (art. 5, 1° co., d.lgs. n. 216 del 2003) e prevedendo la possibilità di intervenire anche nei casi in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, co. 2° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

Infine, la normativa impone al giudice di tener conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero una ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento.

Lo specifico strumento normativo previsto a tutela delle persone omosessuali ha avuto una scarsa applicazione in sede giudiziale, tanto che risulta reperibile un’unica pronuncia resa dal giudice del lavoro di Bergamo1, confermata in sede d’appello2, con la quale, previo accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese da un noto avvocato italiano, consistenti nell’avere affermato, nel corso di un programma radiofonico, di non voler assumere nel proprio studio avvocati, collaboratori o lavoratori omosessuali, è stata disposta la condanna del medesimo al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla ricorrente Associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford ed a pubblicare l’ordinanza a proprie spese su uno dei principali quotidiani del Paese. Il Tribunale di Bergamo ha ritenuto punibile a norma della direttiva, anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisca o renda maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, richiamando le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (causa “C-81/12 Associatia Accept”, nonché causa “C-54/07 Feryn NV”), chiarendo come sul piano concreto le dichiarazioni possano avere verosimilmente ostacolato o potranno verosimilmente ostacolare in futuro la stessa presentazione di curricula all’avvocato resistente da parte di aspiranti avvocati, collaboratori o dipendenti omosessuali.

La tutela antidiscriminatoria nei confronti dei lavoratori è completata dalla previsione di cui all’art. 21 della l. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato Lavoro) che ha apportato modifiche agli artt. 1, 7 e 57 del d.lgs. n. 165 del 2001. Con essa si prevede che le PP.AA. adottino al proprio interno un “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”, formato da un/a componente designato/a da ciascuna delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello di amministrazione e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione. La novità, costituita dalla previsione normativa di un organismo che assume – unificandole – tutte le funzioni che la legge, i contratti collettivi e altre disposizioni attribuiscono ai Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing da tempo operanti nella Pubblica Amministrazione risiede nell’ampliamento delle garanzie, oltre che alle discriminazioni legate al genere, anche ad ogni altra forma di discriminazione, diretta ed indiretta, che possa discendere da tutti quei fattori di rischio richiamati dalla legislazione comunitaria: età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e lingua, estendendola all’accesso, al trattamento e alle condizioni di lavoro, alla formazione, alle progressioni in carriera e alla sicurezza. Il Comitato ha tuttavia solamente compiti propositivi, consultivi e di verifica e si pone nell’ottica di una ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico. Le modalità di funzionamento dei Comitati unici di garanzia sono disciplinate da linee guida contenute nella Direttiva governativa del 4 marzo 2011 emanata di concerto dal Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Pubblicata, G.U. 11.6.2011, n. 134.

Infine, si potrà accedere a una tutela giuridica anche per colpire trattamenti penalizzanti in ambito lavorativo legati all’identità sessuale, e cioè quando sussista un conflitto tra identità di genere e sesso fisico. È questo quanto ha affermato la Corte di giustizia dell’Unione europea (“P contro S e Cornwall County Council”), la quale ha infatti ricondotto le discriminazioni nei confronti delle persone transessuali nell’ambito delle discriminazioni di sesso (Cfr. “Identità di genere”).

Note:
[1] Tribunale Bergamo, sez. lavoro, ord. 6/8/2014 n. 791
[2] Corte d’Appello Brescia, sez. lavoro, sent. 23/1/2015 n. 529

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