Identità di genere: guida alla normativa e alla giurisprudenza

A cura di Anna Lorenzetti, Dipartimento Giurisprudenza, Università degli Studi di Bergamo.

La possibilità di modificare il sesso anatomico e anagrafico fu introdotta nel 1982 con la legge 164 “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, terza in Europa sulla materia. Questa normativa trovò la propria genesi nella necessità di regolarizzare la posizione di coloro che si erano sottoposti all’intervento di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali all’estero, ma che per l’assenza di una legge non potevano essere riconosciuti nella nuova identità in Italia.

Ovviamente, a distanza di trent’anni dall’approvazione della legge, si sono poste nuove istanze. Ad esempio, la disposizione che chiedeva l’intervento ‘quando’ e dunque ‘solo se’ necessario ha determinato alcuni quesiti, in particolare circa l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico e quindi circa la possibilità di modificare il proprio nome anche prescindendone. Inoltre, i giudici sono stati interpellati su quali siano i confini della ‘necessità’ e su quale tipo d’intervento chirurgico sia richiesto per concludere il percorso (deve riguardare i caratteri sessuali primari, con un impatto certamente più invasivo sulla salute della persona, o è sufficiente una modifica dei caratteri secondari, possibile anche con il solo trattamento ormonale?). Questi aspetti sono tutt’altro che marginali, in quanto l’interpretazione della legge 164 e le prassi in uso nelle strutture socio-sanitarie, di fatto, hanno considerato per lungo tempo come obbligatorio l’intervento chirurgico, anche qualora la persona interessata non lo desiderasse. Interrogata sul punto, la giurisprudenza di merito aveva richiesto – in larga maggioranza, e con poche eccezioni (Tribunale di Rovereto, 3 maggio 2013 et al.1) – l’effettuazione dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari, quale requisito indispensabile per concludere il percorso di cambiamento di sesso (Corte d’Appello di Bologna, 22 febbraio 2013 et al.2).

Si tratta di uno degli aspetti più controversi della legge, sul quale sono state chiamate ad esprimersi sia la Corte di Cassazione, sia la Corte costituzionale che hanno riconosciuto come è rimessa al giudice, con il supporto del sanitario, e da effettuare caso per caso, la valutazione circa la necessità o meno dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari ai fini della conclusione del ‘transito’3.
Recentemente, la legge 164/1982 è stata modificata, nell’ambito di una riforma volta alla semplificazione dei riti processuali (d.lgs. 150/2011), con un appesantimento nel percorso giudiziale di cambiamento del sesso, un allungamento dei tempi e un aggravio di costi. Secondo la nuova disciplina, le ‘controversie’ che riguardano la riassegnazione del sesso seguono il rito ordinario di cognizione, al giudizio partecipa il pubblico ministero e l’atto introduttivo del giudizio è divenuto un atto di citazione, che va notificato al coniuge e ai figli dell’attore (art. 31, D. Lgs. 150/2011).

Ponendo ora attenzione all’ambito lavorativo, si deve rilevare che nell’ordinamento italiano è assente una disciplina chiara e univoca che tuteli contro le discriminazioni in ragione dell’identità di genere, al pari di quanto accade, ad esempio, per l’orientamento sessuale con il decreto legislativo 216 del 2003. Questo appare significativo non soltanto in quanto all’accesso al lavoro o alla stabilità lavorativa è legata un’indipendenza economica che scongiura la marginalità sociale, ma anche perché si tratta di un ambito segnalato come particolarmente critico dalle persone transessuali che subiscono discriminazioni all’ingresso nel mondo del lavoro e nel mantenimento del posto di lavoro. Rispetto alla dimensione problematica della questione, i casi giunti nelle aule dei tribunali sono piuttosto ridotti numericamente e riguardano vicende di travestitismo, e principalmente licenziamenti a causa di un abbigliamento ritenuto non consono allo svolgimento delle mansioni assegnate.
Allargando il campo anche agli ordinamenti sovranazionali (internazionale ed euro-comunitario), una serie di significative pronunce – prima tra queste la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea “P contro S e Cornwall County Council”4ha contribuito ad estendere le tutele previste per le discriminazioni fondate sul sesso anche verso chi abbia cambiato sesso, senza però considerare la condizione di coloro che stanno ancora vivendo il ‘transito’ (ossia il passaggio da un sesso all’altro) o non intendano sottoporsi all’intervento.

L’ultima direttiva del Parlamento europeo in materia di contrasto alle discriminazioni uomo/donna in ambito lavorativo (n. 54 del 2006) ha ‘accolto’ i risultati delle pronunce della Corte di Lussemburgo, senza però imporre agli Stati membri l’obbligo di estendere le tutele per le discriminazioni di genere ai casi di transessualismo o transgenderismo. Questa posizione è stata interpretata come un significativo rafforzamento delle tutele, peraltro avallata da una serie di documenti normativi, di soft law, orientati nel senso di una maggiore garanzia in numerosi ambiti, tra i quali occupazione, sanità, istruzione (Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014; Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri). Da ultimo, si veda la Risoluzione 2048 (2015) che invita gli Stati membri ad attivarsi per conseguire il pieno riconoscimento di diritti e libertà per le persone transessuali e transgender.

Anche la Corte europea dei diritti umani si è occupata a più riprese della condizione giuridica delle persone transessuali, a partire dal leading case“Christine Goodwin contro Regno Unito”, decisione dell’11 luglio 2001 – in cui è stato riconosciuto il diritto della persona che ha cambiato sesso di coniugarsi con una persona di sesso opposto a quello acquisito.
Rispetto all’ambito familiare, in Italia la condizione transessuale non è ostativa al matrimonio con una persona del sesso opposto a quello acquisito con la riassegnazione anagrafica, né all’adozione di un minore o al mantenimento di rapporti affettivi con la prole avuta prima del cambiamento di sesso. Recentemente, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 170 del 2014, ha deciso circa il caso di sopravvivenza del matrimonio regolarmente contratto prima di sottoporsi all’intervento chirurgico e divenuto same-sex dopo l’intervento chirurgico di uno dei coniugi. Alla luce della necessità di tutelare un legame validamente sorto, ma considerando altresì che in Italia il matrimonio presuppone l’unione di un uomo e una donna, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della norma che impone lo scioglimento automatico del vincolo in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi. Tuttavia, ha rimesso al legislatore la definizione di un modello di regolamentazione, comunque diverso dal matrimonio, in grado di fornire una tutela alla coppia. Di recente, la questione è stata decisa dalla Corte di Cassazione che, sulla base di quanto affermato dalla Consulta, ha affermato la necessità di mantenere valido il matrimonio divenuto fra due persone dello stesso sesso, fino a quando il legislatore non consenta alla coppia di dare vita ad altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti e obblighi (Corte di Cassazione, 21 aprile 2015, n. 8097). La recente approvazione del testo di legge sulle unioni civili, cd. Legge Cirinnà ha previsto che “La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” (art. 1, co. 26, L. 76/2016) e che “Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile” (art. 1, co. 27, L. 76/2016).

La vicenda dei migranti merita una segnalazione peculiare, posto che l’Italia considera la condizione transessuale come possibile motivo di richiesta e riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 8, co. 1, lett. d, D. Lgs. 251/2007, come modificato dal D. Lgs. 18/2014), mentre non è prevista una normativa di contrasto alla transfobia.

Occorre infine ricordare che l’espressione ‘identità di genere’ ha fatto la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione regionale. Con la legge n. 63 del 2004, la Regione Toscana, seguita qualche anno dopo da Liguria e Marche ha, infatti, menzionato espressamente l’identità di genere tra i fattori di discriminazione vietati. Recentemente, la Regione Piemonte ha approvato la legge regionale 5 del 2016 (“Norme di attuazione del divieto di ogni forma di discriminazione e della parità di trattamento nelle materie di competenza regionale”), in cui è esplicitamente vietata ogni forma di discriminazione anche in ragione dell’identità di genere. Di identità di genere si trova inoltre menzione in alcune leggi regionali di settore che riguardano il contrasto alla violenza5 e l’ambito socio-sanitario6.

Note:
[1] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono Tribunale di Messina, 4 novembre 2014; Tribunale di Genova, 5 marzo 2015.
[2] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono: Tribunale di Roma, 18 luglio 2014, n. 34.525; Tribunale Vercelli, 12 dicembre 2014, n. 159; Tribunale di Catanzaro, 30 aprile 2014; Tribunale di Potenza, 20 febbraio 2015.
[3] Corte di Cassazione 15138/2015; Corte costituzionale 221/2015; Anche la Corte europea dei diritti umani, nel caso Y.Y. c. Turchia (appl. 14793/08, sentenza 10 marzo 2015), è intervenuta sul tema, dichiarando l’irragionevolezza della normativa interna che richiedeva la preventiva sterilizzazione della persona che intendeva sottoporsi all’intervento chirurgico. Peraltro, l’attualità del tema è attestata dalla recente approvazione della legge maltese (“Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act”) che afferma il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, allo sviluppo della persona in accordo all’identità di genere, ma soprattutto all’autodeterminazione sulla scelte che riguardano il proprio corpo, di cui è garantita l’integrità. In particolare, viene sancito che il riconoscimento dell’identità di genere e della possibilità di modifica anagrafica non può essere subordinato all’intervento chirurgico, né alla terapia ormonale o psichiatrica (art. 3, par. 4).

[4] Tra le altre pronunce si ricorda il caso C-117/01, “K.B. – National Health Service Pensions Agency, Secretary of State for Health”, deciso il 7 gennaio 2004.

[5] Così, ad es. art. 4, L.R. Piemonte 16/2009 del Piemonte sui Centri antiviolenza.

[6] Ad esempio, la L.R. Puglia 23/2008, che ha approvato il Piano regionale salute 2008-2010.

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