Tra patologizzazione e de-patologizzazione: il ruolo della psichiatria nella definizione delle varianze di genere

A cura di Paolo Valerio, Dipartimento di Neuroscienze e Scienze Riproduttive ed Odontostomatologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Prima ancora che la medicina e la psichiatria abbiano iniziato ad occuparsi di casi di ‘cambiamento di sesso’, numerosi miti narrano esperienze di persone che assumono ruolo di genere diversi da quelli prestabiliti secondo l’ordine binario che sancisce la divisione tra l’essere maschile e l’essere femminile. Pensiamo, ad esempio, al mito di Tiresia, piuttosto che all’Androgino descritto da Platone, in cui si assiste a divinità che si incarnano di volta in volta in personaggi maschili e femminili; altri esempi sono la storia di Attis e Cibele, Ermafrodito, nonché il mito di Venere Castina e non ultima la leggenda del re trasformato in donna presente nel Mahâbhârata (Vitelli et al., 2013). Presso numerose realtà urbane, ancora ai nostri giorni, vi sono ampie e riconosciute comunità di persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. In India, ad esempio, troviamo gli Hijira, una vera e propria casta; nel nord America, tra i popoli originari, sono riportate esperienze di persone con una ‘doppia anima’, i ‘Two Spirits’, fino ad arrivare ai Muxè del Messico ed ai Kathoey in Tailandia. A Napoli, invece, i ‘Femminielli’ costituiscono una presenza forte e caratteristica (Zito & Valerio, 2010; 2013).
Per descrivere queste esperienze umane significative, la comunità scientifica utilizza oggi la definizione di varianza di genere. Con tale espressione ci si riferisce in modo piuttosto ampio a tutti coloro che sperimentano un qualche disagio a vivere secondo le regole culturali del genere assegnato alla nascita. Il significato di varianza di genere, dunque, raccoglie un insieme di condizioni tra cui il transessualismo, il transgenderismo, e tutte le situazioni in cui una persona vive in modo non conforme rispetto al genere assegnato alla nascita. Come vedremo, il termine transessualismo è molto collegato alla storia della psichiatria, derivando dalla necessità di definire coloro che richiedono trattamenti ormonali e chirurgici per modificare i propri caratteri sessuali primari e secondari. Il transgenderismo, invece, termine più vago, si riferisce a coloro i quali sperimentano un’identità non inquadrabile né nel maschile né nel femminile e che non desiderano procedere ad interventi medici e chirurgici.
Scopo di questo contributo è di descrivere le principali tappe teoriche che hanno consentito di giungere, oggi, alla definizione del concetto di varianza di genere. Partiremo dalla fine dell’800 quando la psichiatria ha iniziato a produrre documenti, osservazioni e riflessioni su tali condizioni. Procederemo, poi, parlando del ‘900, secolo in cui sono documentate le prime operazioni chirurgiche per la modificazione del sesso. Concluderemo, infine, con delle considerazioni sulle attuali prospettive in ambito diagnostico.

Tra la metà e la fine del 1800 i fenomeni di varianza di genere non sono ancora riconosciuti nella loro particolarità ma risultano ancora confusi nell’universo dell’omosessualità. Per comprendere questa situazione basti pensare al lavoro di Karl Ulrichs, un avvocato di Hannover che tra il 1860 ed il 1879 scrive numerosi articoli in favore dei diritti delle persone omosessuali. In alcuni libri inizia a proporre la sua teoria di un’anima muliebris virili corpore inclusa, ovvero un’anima femminile intrappolata in un corpo maschile, espressione che viene utilizzata per descrivere sia persone omosessuali che persone con varianza di genere. Con i suoi lavori Ulrichs attira l’interesse della comunità scientifica su questi temi. Solo pochi anni dopo, Karl Westphal, uno psichiatra tedesco, descrive alcuni casi in cui «una donna è fisicamente una donna, ma psicologicamente un uomo, e, dall’altro lato, un uomo è fisicamente un uomo, ma psicologicamente una donna» e propone quale spiegazione l’esistenza di una sensibilità sessuale invertita (Westphal, 1869). Queste ricerche sovrappongono l’istinto sessuale, connesso all’orientamento sessuale, con l’identità di genere connessa, invece, alla percezione della propria personale identità. Di grande rilevanza è poi l’opera di Richard Krafft-Ebing che riceve numerose autobiografie da parte di persone che sognano di cambiare sesso e chiedono di sottoporsi ad interventi chirurgici nella speranza di modificare l’apparenza dei propri caratteri sessuali. Tra queste autobiografie ve ne sono alcune davvero molto toccanti. Krafft-Ebing però, proponendo la diagnosi di una metamorfosi sessuale paranoide (Krafft-Ebing, 1886) avvicina queste esperienze al campo della psicopatologia del delirio.
Dobbiamo attendere il lavoro di Magnus Hirschfeld dal titolo “Die Transvestiten” per osservare un parziale superamento del concetto di istinto sessuale invertito, diffuso in quel contesto scientifico. Hirschfeld sostiene che la nozione di istinto sia eccessivamente riduttiva ed afferma che il desiderio dei soggetti ‘transvestitisti’, come egli li definisce, non appartiene tanto alla sfera dell’istinto sessuale ma riguarda un intreccio di sentimenti ed emozioni che si traducono in preferenze per l’abbigliamento del genere desiderato (Hirschfeld, 1910). Hirschfeld riconosce che queste persone non desiderano solo utilizzare gli abiti del sesso opposto al loro quanto, piuttosto, diventare in tutto e per tutto come le persone del sesso a cui sentono di appartenere.
Il caso vuole che intorno agli anni ’20 del ‘900 alcuni ricercatori, tra cui Eugen Steinach, stiano effettivamente iniziando a sperimentare la chirurgia per il cambio di sesso sugli animali. Quindi, diversi elementi concorrono a preparare il terreno per quella che sarà una vera e propria rivoluzione nella storia umana: il cambiamento di sesso. L’opera di David Caldwell, “Psychopathia Transsexualis“, del 1949, introduce il termine transessualismo ed è di fatto il preludio a questo fondamentale cambiamento.
Una vera e propria rivoluzione ha luogo nel 1951. È in questo anno che in Danimarca viene realizzato il primo intervento documentato di riassegnazione chirurgica del sesso. L’operazione di cambiamento di sesso condotta su George Jorgensen è attestata dall’articolo di Christian Hamburger, Georg K. Stürup ed E. Dahl–Iversen del 1953. In realtà, non è tanto l’articolo scientifico a generare lo scalpore mediatico, quanto, piuttosto, la biografia di George, intanto divenuta Christine Jorgensen (1967), che diviene un best-seller mondiale. La notizia di questo cambiamento fa il giro del mondo portando tutti a conoscenza del fatto che finalmente esiste una soluzione per coloro che sperimentano questi vissuti.
Il fenomeno transessuale, così definito dal sessuologo ed endocrinologo statunitense, Harry Benjamin, allievo di Hirschfeld, inizia ad essere riconosciuto e differenziato dalla omosessualità. Sotto questo punto di vista è proprio Benjamin (1953) ad indicare un nuovo orizzonte di ricerca attraverso l’articolo “Transvestitism and Transsexualism” pubblicato sull’International Journal of Sexology sulla scia del sensazionale caso Jorgensen. Questo articolo prepara il terreno al più ampio volume dedicato a questo tema che viene pubblicato nel 1966 con il titolo “The Transsexual Phenomenon” tradotto in italiano con Il fenomeno transessuale. Secondo Benjamin la persona transessuale, sia maschio che femmina, è profondamente infelice di vivere secondo il suo sesso biologico. Se tale sofferenza può essere inizialmente alleviata indossando abiti del sesso opposto, il vero transessuale non si accontenta del travestimento poiché esso è solo un rimedio parziale e temporaneo. I ‘veri transessuali’, seguendo la terminologia utilizzata dallo stesso Benjamin, sentono una completa appartenenza al genere opposto al proprio, desiderano vivere ed operare come membri del sesso opposto al proprio e chiedono al chirurgo che li si aiuti a superare questo senso di disagio vissuto nei confronti del proprio stesso corpo.

Sebbene a cominciare dagli anni ’60, negli Stati Uniti, vengano aperte numerose cliniche per la riassegnazione chirurgica del sesso, bisogna aspettare ancora qualche anno prima che l’American Psychiatric Association (l’Associazione degli Psichiatri Statunitensi – APA) intervenga sull’argomento. Il transessualismo, infatti, viene introdotto solo nella terza edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, meglio noto come DSM, del 1980 e successivamente, con la revisione del 1987, il transessualismo viene differenziato dal ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’Adolescenza e dell’Età Adulta’, tipo non transessuale (‘GIDAANT’). Questa opposizione richiama la dicotomia proposta da Benjamin poiché la preoccupazione maggiore degli psichiatri è quella di definire, in modo più rigoroso possibile, i criteri diagnostici al fine di selezionare i soggetti idonei a sostenere l’intervento chirurgico. In questi anni, quindi, iniziano ad essere somministrati numerosi test di personalità dai quali emergono risultati contraddittori. Secondo alcuni autori questi test avrebbero messo in evidenza la presenza di sottostanti problematiche di personalità; secondo altri le problematiche psicologiche, pure talvolta emerse dall’impiego di questi test, non sarebbero state in connessione con elementi psicopatologici, piuttosto sarebbero derivate, secondariamente, come reazione alle discriminazioni sociali subite da queste persone.
In seguito, con il DSM-IV, pubblicato nel 1994, la diagnosi di transessualismo viene riformulata in ‘Disturbo dell’Identità di Genere’ o ‘DIG’. È questo il momento apicale di una visione psichiatrica che vede nelle varianze di genere una patologia mentale.

Accanto alla psichiatria ufficiale è da sottolineare la comparsa di molteplici movimenti di attivisti del mondo del transessualismo e delle varianze di genere che affrontano in prima linea una questione così delicata. Il desiderio degli attivisti è non solo quello di superare il pregiudizio che vede nella varianza di genere una patologia mentale, una visione che sta ‘bollando’ tutti coloro che non si conformano alle norme sociali connesse al genere assegnato alla nascita, ma quello di sostenere il riconoscimento della peculiare identità sviluppata dalle persone con una varianza di genere. Secondo tale prospettiva, la persona con varianza di genere costruisce una vera e propria nuova identità, maggiormente in linea con quelli che sono i propri gusti e le proprie preferenze, mettendo anche in discussione l’utilità, ed obbligo, di subire una operazione chirurgica ‘mutilante’ per vedere riconosciuta la propria identità. Per riferirsi a questi casi viene coniato da Virginia Prince, nel 1979, il termine transgender in opposizione al termine transessuale. Tale definizione consente di porre in luce i bisogni specifici della popolazione transgender, la quale rivendica la libertà di scivolare tra i generi sessuali senza dover ricorrere ad interventi medici e chirurgici.

Durante le fasi di preparazione per la quinta edizione del DSM (pubblicata nel 2013 negli USA, nel 2014 in Italia) si è animato un intenso dibattito con l’obiettivo di rivedere i criteri diagnostici del manuale. A tale processo di discussione hanno partecipato non solo gli psichiatri ma molteplici associazioni internazionali tra cui il WPATH, ovvero la World Professional Association for Transgender Health. Le posizioni teoriche emerse, e che hanno alimentato tale importante confronto, sono state sostanzialmente due. Da un lato vi è stata la tesi di coloro i quali hanno richiesto con forza la completa eliminazione di qualsiasi diagnosi connessa alla identità di genere. A sostegno di questa tesi è stato affermato che, generalmente, la diagnosi di malattia mentale produce un marchio, ovvero uno stigma, sulla persona che la riceve. Il permanere di una diagnosi nel DSM avrebbe comportato, pertanto, il perpetuarsi di una visione secondo cui coloro che richiedono il cambio di sesso sono ‘intrinsecamente patologici’. La posizione appena espressa può essere definita come quella della de-patologizzazione delle richieste di cambiamento di sesso. La seconda tesi che ha animato questo dibattito si è pronunciata, al contrario della precedente, in sfavore di una completa rimozione della categoria diagnostica dal DSM. Le ragioni, alla base di tale posizione, sono da rintracciarsi nel fatto che senza una diagnosi sarebbe divenuto impossibile, per i sistemi sanitari nazionali e le organizzazioni assicurative, coprire economicamente le cure mediche e chirurgiche. Secondo tale posizione, dunque, la completa rimozione della diagnosi avrebbe impedito l’accesso alle cure sanitarie gratuite, mettendo gravemente a rischio tutte le persone prive di una assicurazione personale o impossibilitate a sopperire economicamente alle ingenti spese mediche (Valerio & Fazzari, 2012).
Nella versione definitiva del DSM-5 la scelta della diagnosi di ‘Disforia di genere’ ha decretato, pertanto, la vittoria di una posizione intermedia tra le due appena citate. In effetti, sono state riconosciute sia l’esigenza di mantenere una diagnosi al fine di garantire l’accesso alle cure e sia, al contempo, la necessità di impiegare termini più neutrali, evitando accezioni stigmatizzanti.
Attualmente, in modo simile con quanto avvenuto per il DSM, è in atto il processo di revisione in vista dell’undicesima versione dell’ “International Classification of Disease” (ICD), la cui pubblicazione è prevista per il 2017. Analogamente alla American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, autrice di questo manuale, sta ipotizzando criteri diagnostici capaci di ridurre lo stigma associato alla diagnosi ed allo stesso tempo garantire l’accesso alle cure mediche. Stando all’attuale materiale pubblicato da alcuni membri del gruppo internazionale, la diagnosi proposta è quella di ‘Incongruenza di genere’.

In conclusione si può ricordare la legge n. 164 promulgata in Italia nel 1982, legge che consente l’operazione chirurgica di riassegnazione anagrafica del sesso. Questa legge, sebbene per l’epoca fosse all’avanguardia nell’intero panorama europeo, mostra oggi tutta una serie di limiti. Essa, infatti, obbliga le persone che desiderano modificare la propria identità anagrafica ad intervenire sul proprio corpo per modificare i caratteri sessuali. Tali manovre chirurgiche, il cui risultato è irreversibile, implicano la completa sterilizzazione della persona dal momento che vengono completamente asportati gli organi genitali. È evidente che in tale situazione non siano rispettati i diritti basilari della persona. A sostegno della necessità di un radicale ripensamento di tale apparato legislativo possiamo sottolineare anche la perdita di diritti sperimentata dalle persone transessuali quando, al momento del cambiamento anagrafico, vedono sciogliersi l’eventuale matrimonio precedentemente contratto. Tale situazione legislativa, quindi, appare ancora piuttosto lontana da quanto proposto da Thomas Hammarberg, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, che, nel 2009, ha indicato al Consiglio stesso una serie di raccomandazioni. Tra queste vi è l’invito a implementare una politica di tutela dei diritti per le persone con varianza di genere, contribuire a ridurre le discriminazioni che costantemente subiscono le persone transessuali/transgender in termini di crimini di odio e di transfobia e, naturalmente, sollecitare il legislatore ad abolire l’obbligo di sottoporsi ad interventi chirurgici che provocano la completa sterilizzazione, oggi ancora necessari per vedersi riconosciuta l’identità anagrafica che si sente propria.
Resta ancora moltissimo da fare. Ci auspichiamo che la comunità scientifica possa continuare a creare occasioni di scambio per meglio comprendere i bisogni di questa particolare popolazione che presenta varianza di genere poiché è solo attraverso l’impegno di tutte le istituzioni che è possibile superare i pregiudizi e riconoscere la particolarità e la specialità di queste esperienze umane significative. Ed in questo senso, l’auspicio non può che essere che l’intera società possa diventare maggiormente inclusiva, capace di riconoscere e valorizzare l’infinito apporto che ci viene offerto da ciascuna forma di diversità.

Nota:
Parti di questo contributo sono tratte da Valerio et al. (2001) “Il transessualismo. Saggi psicoanalitici” (FrancoAngeli). Valerio P. Fazzari P. (2012) “Alcune note sul ‘fenomeno transessuale’ oggi: un disturbo da depatologizzare?” (Mimesis). Vitelli R., Fazzari P., Valerio P. (2013) “Le varianti di genere e la loro iscrizione nell’orizzonte del sapere medico-scientifico: la varianza di genere è un disturbo mentale? Ma cos’è, poi, un disturbo mentale?” (FrancoAngeli).

Bibliografia

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