Identità di Genere: quale genere di identità?

A cura di Lia Viola, Ph.D. in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione, Università degli Studi di Torino.

La prima domanda dinanzi alla notizia di una nuova nascita è quasi sempre relativa al sesso: maschio o femmina? Il desiderio che sta dietro a tale quesito è quello di potersi immaginare il futuro del nascituro: avrà una vita da uomo o da donna? Culla rosa o nastrino azzurro? Queste semplici domande – che diamo spesso per scontate e a cui non prestiamo attenzione – possono essere ritenute uno dei segnali che ci indica quanto la nostra società tenda a dividere rigidamente gli esseri umani in due sole categorie: maschi e femmine nonché a ritenere che una persona nata con un sesso maschile crescerà automaticamente e irreversibilmente con un’identità di genere da uomo e viceversa.
Eppure non tutti la pensano così: esistono culture che hanno sviluppato rappresentazioni diverse del genere e del suo rapporto con il sesso. Uno sguardo a queste altre realtà può esserci di aiuto per capire i processi di costruzione sociale del genere e come esso si sviluppi in maniera differente a seconda del contesto culturale di riferimento.
Gli Inuit dell’Artico alla nascita di un bambino erano, diversamente da noi, soliti dare poca importanza al suo sesso biologico. Essi infatti ritenevano che bisognasse capire quale antenato viveva in questo nuovo corpo, poiché ogni nascita non era altro che la reincarnazione di un individuo vissuto in precedenza. Poteva dunque accadere che in un bambino con un sesso maschile vivesse un antenato donna. Se ciò succedeva, gli Inuit stabilivano che, a dispetto del sesso biologico, il genere del bambino sarebbe stato femminile. In alcuni casi, ma non tutti, durante l’adolescenza la persona transitava verso il genere corrispondente al sesso. Sembrerebbe dunque che per gli Inuit l’anatomia umana, seppur abbia un suo valore, non sia l’unica variabile che determina il genere di un individuo.
La società occidentale, invece, tende a cercare nella biologia molte delle risposte ai comportamenti umani, come se bastasse avere un’anatomia femminile per sentirsi donna. O, ancor di più, come se, chiunque abbia un’anatomia femminile, ‘debba’ assolutamente sentirsi donna. Se provassimo a guardare noi stessi con occhi esterni forse troveremmo bizzarro notare quanto il nostro sguardo sia focalizzato sui genitali di un bambino: come se nella loro forma si potesse davvero leggere il futuro del neonato e capire se tra dieci o vent’anni avrà voglia di indossare una gonna o camminare su dei tacchi alti.
Ampliare il nostro sguardo verso altre società ci può forse aiutare a mettere in discussione le nostre categorie di pensiero e analizzare come il genere non sia mero riflesso di processi biologici. Per esempio, i Dogon del Mali, presso cui fece ricerca Marcel Griaule negli anni Trenta del Novecento, sapevano che la visione di genere di ogni persona è una questione complessa in cui la cultura gioca un ruolo molto importante. Essi, infatti, ritenevano che il bambino nascesse androgino e che la società avesse il ‘dovere’ di modellare il suo genere. Quindi secondo i Dogon il sesso biologico non è sufficiente per definire l’identità di genere del bambino. Piuttosto questa, per formarsi, ha bisogno di un intervento culturale.
In sintesi, gli Inuit ci hanno ricordato come, invece di considerare unicamente il sesso biologico, si possa scegliere di chiedere agli antenati quale sia il futuro di genere di un individuo. I Dogon ci hanno inoltre insegnato come la visione di genere di una persona sia un delicato meccanismo in cui la cultura ha un peso determinante. In conclusione di queste prime riflessioni potremmo dunque dire che il genere che ognuno svilupperà nel corso della propria vita sarà il frutto dell’interazione di tante variabili e dunque che non è detto che il sesso biologico sia l’unica fonte a cui attingere per immaginare il futuro di un bambino o di una bambina.
Infatti, durante la crescita alcune persone possono sviluppare un’identità di genere diversa da quella che è stata loro attribuita alla nascita. In Occidente siamo soliti usare i termini transessualità o transgenderismo per definire tali persone. Ancora una volta, l’esperienza di transitare da una categoria di genere all’altra non è esclusiva solo della nostra società. Per esempio in Sud Africa alcuni sangoma (guaritori) presentano un’identità di genere diversa dal sesso biologico. I sangoma sono delle persone che hanno ricevuto il potere medico attraverso l’esperienza della possessione. Si ritiene, infatti, che vi siano degli antenati morti troppo presto, che non hanno finito di fare tutto ciò che dovevano e che dunque cerchino dei corpi per concludere il loro percorso di vita. Attraverso un periodo di iniziazione e apprendistato il sangoma impara ad accogliere e gestire la possessione e in cambio riceverà il potere medico: la capacità di guarire le malattie. È un percorso molto complicato, e faticoso, in cui il corpo fa da tramite tra esistenze terrene e spirituali.
Ciò che del percorso di un sangoma ci interessa qui analizzare è il suo rapporto con la visione di genere. Infatti gli spiriti sembrano non dare molta importanza, almeno non quanto noi, alla coincidenza tra sesso e genere, e scelgono i corpi da possedere in base a parametri non meramente biologici. Dunque ogni tanto succede che un corpo di donna sia posseduto da uno spirito maschile e viceversa. Così inevitabilmente i sangoma modelleranno il proprio genere in base a quello dello spirito.
Se compariamo queste esperienze di vita con la nostra società ci rendiamo subito conto delle profonde differenze che esistono. In Occidente le persone transessuali sono ritenute, dalla scienza biomedica, come affette da disforia di genere. Se un sangoma del Sud Africa arrivasse in Italia si troverebbe dunque a essere classificato all’interno di una categoria psichiatrica che traduce la sua esperienza di vita attraverso il linguaggio della malattia: proprio lui (o lei) che i malati di norma li cura. La scienza psichiatrica occidentale classifica le persone transessuali come affette da disforia di genere proprio in virtù della nostra convinzione che sesso e genere siano legati da un nesso indissolubile. La questione qui non è quella di stabilire se la possessione degli spiriti sia in sé più ‘vera’ della biologia ma piuttosto di rendersi conto come un fenomeno possa essere guardato da più punti di vista. È dunque importante riflettere sul fatto che la nostra società, così come le altre, nel tentativo di comprendere la vita umana ha creato un modello relativo: esso è solo uno dei tanti possibili. Da questo punto di vista il processo di guardare alla forma anatomica di un corpo per decidere quale genere dovrà avere non ha in sé maggior valore di verità che chiedere agli antenati quale sarà il futuro di un bambino. È una vista parziale che si sofferma su un solo dato scordando di considerare che tante variabili contribuiscono a creare il profilo di genere di una persona.
Nelle società occidentali le persone transessuali hanno portato avanti una riflessione sul rapporto tra sesso e genere e sulle sfumature che questo può assumere in ognuno di noi. Ciò ha spinto la scienza psichiatrica a interrogarsi sulle proprie categorie diagnostiche e a iniziare un percorso che si spera possa condurre alla completa depatologizzazione del transessualismo. I primi passi lungo questa strada hanno visto un riconoscimento del fatto che l’identificazione di genere di una persona possa essere diversa da quella assegnata alla nascita senza che questo sia, di per sé, un indicatore di patologia psichiatrica. Piuttosto la scienza biomedica oggi ritiene che la disforia di genere possa provocare una sofferenza psichica notevole e che dunque le persone transessuali abbiano il diritto di modellare il corpo attraverso la chirurgia estetica e le cure ormonali.
Ma se il genere non è legato per forza al sesso e se alcune persone possono avere in sé sia l’esperienza del maschile che quella del femminile, cosa ci fa credere che il genere sia una identità fissa e immutabile? Gli Inuit attribuivano un genere alla nascita e poi a volte, durante l’adolescenza, esso veniva cambiato. Dunque consideravano che il genere potesse variare lungo il corso della vita individuale. Similmente in Sud Africa vi sono dei sangoma che vivono l’esperienza di essere posseduti da due antenati di sesso opposto e che dunque modellano la propria visione di genere in relazione a quale spirito sia più forte dentro di loro. Il corpo diviene così un luogo abitato da più forze che indirizzano i (o le) sangoma verso una rappresentazione altalenante del genere: a volte maschile e a volte femminile.
Su questo punto è forse importante tornare un attimo tra i Dogon del Mali che ci insegnavano che i bambini nascono androgini, pervasi sia di mascolinità che di femminilità. Essi ritenevano che fosse compito degli adulti scolpire il genere sui corpi dei neonati rimuovendo ciò che di maschile vi era in un corpo femminile (il clitoride) e ciò che di femminile in uno maschile (il prepuzio). I Dogon si arrogavano dunque il diritto di scegliere per il bambino, di sottrarlo all’androginia originaria incidendo il genere sul suo corpo. Seppur noi tradizionalmente non siamo abituati a intervenire sui genitali di un neonato, in fondo seguiamo un processo molto simile: decidiamo che un bambino crescerà come maschio o come femmina, lo educhiamo a questa dicotomia e se ciò non succede lo categorizziamo come malato.
Se ascoltassimo a fondo i Dogon, e la loro esigenza di modellare i corpi, intuiremmo che c’è una questione importante che sta alla base del bisogno di definizione. I bambini, secondo i Dogon, possono contenere dentro di loro sia il maschile che il femminile ma crescendo vengono esposti alla volontà della società che ‘incide’ su di loro un genere costringendoli ad abbandonare l’androginia originaria. Però, come alcuni/e sangoma ci insegnano, vi sono corpi che non amano essere classificati, che vorrebbero poter esprimere liberamente le loro esistenze senza doversi per forza identificare nel maschile o nel femminile. Noi siamo soliti chiamarli, qui in Occidente, transgender: essi sfuggono alle categorie e ci insegnano che in ognuno di noi vi può essere una compresenza di caratteri di mascolinità e di femminilità.
L’esperienza di genere più che un’identità fissa è quindi un viaggio in cui nulla è dato per scontato.

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