Sessualità plurali: breve viaggio storico del farsi sociale della sessualità

A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nelle vicende della civiltà occidentale cristiana, la sessualità degli individui è stata per lungo tempo una dimensione silenziosa autorizzata alla parola unicamente all’interno di un codice morale, a sua volta espressione di un consolidato orientamento dottrinale in cui l’unica relazione intima lecita di coppia era costituita da rapporti eterosessuali, vissuti rigorosamente entro i confini del matrimonio e finalizzati esclusivamente alla procreazione. Tutto ciò che si collocava al di fuori di questo rigido scenario – l’omosessualità, le relazioni al di fuori del vincolo coniugale, le pratiche erotiche non orientate alla riproduzione – rappresentava un pericoloso dis-ordine etico e sociale inconciliabile con quel modello tradizionale di società ritenuto il solo in grado di rispettare l’ordine divino e garantire la salvezza dell’anima.

Dalla seconda metà del 1800 al discorso religioso ha cominciato ad affiancarsi il discorso medico che sottrasse la sessualità dall’ambito della morale per consegnarla alla Scienza. I neo-nati studiosi di sessualità cominciarono a sviluppare un nuovo linguaggio scientifico per catalogare e valutare il comportamento sessuale e per trovare motivazioni ‘scientificamente fondate’ alle diverse forme con cui esso si esprime. Un testo che esprime in pieno lo spirito dell’epoca è “Psycopathia Sexualis”, pubblicato nel 1886 dallo psichiatra austro-tedesco Richard von Krafft-Ebing, dove l’autore – attraverso l’analisi delle biografie sessuali dei suoi pazienti – offre una catalogazione di diverse pratiche sessuali, dal feticismo fino ai rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso, identificandole come patologie.

Letto con gli occhi del XXI secolo, il sessismo, l’omofobia e l’ingenuità delle argomentazioni ‘scientificamente fondate’ con cui Krafft-Ebing analizza i comportamenti dei suoi pazienti possono finanche strappare un sorriso. Restano tuttavia emblematiche del passaggio from badness to sickness – come l’hanno definito nel 1980 Peter Conrad e Joseph Schneider nell’omonimo libro – ovvero di quel passaggio dalla concezione morale dei comportamenti sessuali ad una loro concettualizzazione come malattia.

Non si trattò, chiaramente, di un passaggio moralmente neutro, anzi, medici e psichiatri dell’epoca tradussero in termini scientifici la medesima concezione morale della sessualità di stampo religioso al cui apice della gerarchia era collocata l’eterosessualità generativa; in questo caso, non in quanto comportamento moralmente giusto, ma in quanto unico comportamento fisiologicamente sano.

Se possiamo trovare un aspetto positivo alla nascita del paradigma medico è quello di aver sottratto la sessualità dall’ambito esclusivo del privato e della religione e di aver aperto un varco per farne oggetto di discorso pubblico. Dovremo, tuttavia, aspettare il novecento perché le scienze sociali (e non mediche) comincino ad interessarsi di corpi e di sessualità e a definirli come il prodotto di una costruzione sociale le cui rappresentazioni e le cui pratiche variano al variare dell’organizzazione e del contesto sociale (Sassatelli, 2002).

Ad iniziare questo percorso furono i sociologi della Scuola di Chicago, ovvero gli studiosi che negli anni ’20 del novecento si ritrovarono al Dipartimento di Sociologia e Antropologia della Chicago University. Obiettivo scientifico complessivo della Scuola di Chicago era studiare la città metropolitana come emblema delle trasformazioni e degli assetti della società contemporanea attraverso un approccio ecologico che prendeva in considerazione le storie di vita dei singoli individui, la collocazione degli individui all’interno della propria comunità di riferimento e il ruolo che la comunità (ovvero la società nel suo complesso) giocava tanto nell’elaborazione dei comportamenti quanto nella visione che gli attori sociali avevano degli stessi, come normali o devianti, leciti o illeciti, positivi o negativi.

Entro questo più ampio progetto sociologico, gli studiosi di Chicago dedicarono attenzione anche allo studio della sessualità e delle identità sessuali nello scenario urbano. Robert Park (1925) nel suo famoso studio sulla città identificò delle ‘regioni morali’ ovvero degli spazi urbani dove gli individui si ritrovano attorno a medesimi desideri, pratiche o identità sessuali costruendo il proprio ‘mondo sociale’ o, come verrà chiamata in seguito, ‘subcultura sessuale’, senza che essa si identificasse o dovesse essere identificata come immorale o patologica. Nascono così i primi studi sui luoghi di incontro tra uomini dove il fuoco d’analisi non è il giudizio morale sui comportamenti, ma il comprendere le regole e le pratiche sociali che la comunità gay studiata si era data per identificarsi e costruirsi in quanto comunità. Seppur, dunque, spesso nelle parole dei sociologi di Chicago riecheggi il linguaggio ereditato dalla psicanalisi freudiana e dalla sessuologia clinica e la loro cornice di riferimento resti la nozione di devianza, è a loro che dobbiamo la consapevolezza che le pratiche e le identità sessuali sono il frutto delle interazioni sociali tra gli individui e che come tali – non come caratteristiche innate e intrinseche degli individui – devono essere analizzate.

Vent’anni dopo, non troppo lontano da Chicago, all’Università di Bloomington nell’Indiana, il biologo Alfred Kinsey diede il via alla ricerca destinata a destabilizzare una volta per tutte la nozione di sessualità sia come terreno della morale che come ambito della malattia per restituirla alla pluralità delle esperienze, delle pratiche e delle identità umane.

Kinsey non nasce come studioso di sessualità, ma come esperto nella tassonomia e analisi delle vespe delle galle su cui realizzò negli anni venti il suo dottorato di ricerca ad Harward. Arrivato come professore all’Università dell’Indiana, tuttavia, decise di allargare il suo campo di studi alla sessualità umana applicando il medesimo metodo empirico utilizzato in precedenza per gli insetti: raccogliere prove sul campo, verificare di prima persona, catalogare le diverse evidenze raccolte.

Iniziò così la sua ricerca sulla sessualità negli Stati Uniti dapprima facendo compilare questionari sui loro comportamenti sessuali agli studenti e alle studentesse che frequentavano il corso “Marriage and the Family” istituito nel 1938 e, successivamente, attraverso la realizzazione di 18.000 interviste in profondità con uomini e donne adulti residenti in ogni angolo degli Stati Uniti grazie ai contributi economici ottenuti tra il 1941 e il 1947 dal Committee for Research in the Problems in Sex finanziato dalla Fondazione Rockfeller.

Per l’America dell’epoca, che viveva in pieno maccartismo e conservatorismo sociale, la pubblicazione dei volumi “Sexual Behaviour in the Human Male” (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948) e “Sexual Behaviour in the Human Female” (Il comportamento sessuale della donna, 1953) furono un vero e proprio shock culturale. Il cosiddetto “Rapporto Kinsey” – come vengono informalmente chiamati i due volumi – restituiva uno scenario di comportamenti e pratiche sessuali ben diverso da quello considerato ‘naturale’ e, dunque, socialmente accettabile nel discorso pubblico: la masturbazione, i rapporti pre-matrimoniali, il sesso orale così come l’omosessualità risultarono diffusi in percentuali estremamente significative nelle esperienze di vita degli intervistati tanto da mettere in discussione l’esistenza stessa di una ‘normalità’ sessuale. Ed in questo caso – diversamente dagli studi condotti dalla scuola di Chicago – non si trattava di un’analisi su gruppi sociali categorizzabili come devianti, ma di un campione estremamente ampio di americani e americane appartenenti sia a diverse classi sociali che a diversi gruppi etnici.

Tra i molteplici risultati di ricerca prodotti dallo studioso ed i suoi collaboratori, particolare risalto ha avuto la cosiddetta ‘scala di Kinsey’ ovvero uno strumento di valutazione per identificare l’orientamento-sessuale degli individui. Analizzando le esperienze e le fantasie di uomini e donne, Kinsey si rese conto che le categorie di eterosessuale ed omosessuale – fino ad allora considerate come attributi dicotomici e oppositivi dell’identità (l’una naturale, l’altra patologica) non erano efficaci per descrivere l’estrema variabilità di posizionamenti che gli individui potevano assumere nel corso della loro vita, ma che l’orientamento sessuale si articola su un continuum che, sebbene abbia l’omosessualità e l’eterosessualità esclusiva ai suoi estremi, prevede moltissimi posizionamenti intermedi. Come afferma lo stesso Kinsey: «gli uomini non sono divisibili in due popolazioni discrete, l’eterosessuale e l’omosessuale. Il mondo non deve essere diviso in pecore e capre … Il mondo vivente è un continuum in ognuno di questi aspetti».

Sebbene Kinsey non avrebbe utilizzato queste parole, possiamo sostenere che da allora va consolidandosi una visione della sessualità come costruzione sociale che trovò espressione compiuta a partire dagli anni ’60, complice anche la nascita del femminismo e del movimento LGBT. Le pratiche e le identità sessuali che parevano essere un dato immutabile nel tempo vengono da allora interpretate come il prodotto di precise configurazioni storiche sottoponendo a critica le nozioni di normalità e devianza sessuale e cominciano ad essere oggetto di analisi subculture sessuali che si pongono al di fuori dalle norme sociali sulla sessualità. Si impone la visione secondo cui gli atti sessuali e i partner sessuali, così come tutti i s/oggetti con cui gli esseri umani entrano in relazione, sono oggetti sociali e che, dunque, essi assumono il significato che gli individui di precisi gruppi gli attribuiscono, piuttosto che avere un significato ‘naturale’ che precede e indirizza i comportamenti sessuali (Gagnon e Simon, 1973 ).

La nascita di questo nuovo paradigma interpretativo ha permesso di spostare lo sguardo sociologico dalle cosiddette ‘minoranze sessuali’ verso ‘la maggioranza’ e di analizzare le pratiche e le istituzioni che nel corso dei secoli hanno naturalizzato l’eterosessualità, rendendola la categoria sessuale e identitaria dominante portando così alla marginalizzazione di tutte le altre espressioni sessuali e affettive degli individui (Katz, 1995 ).

Bibliografia

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