La visibilità dell’orientamento sessuale: coming out e outing

A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

L’espressione coming out (letteralmente ‘uscire allo scoperto’ o ‘uscir fuori’) definisce il processo che porta una persona a definire il proprio desiderio come omosessuale o lesbico, accettarlo in quanto tale e dichiararlo agli/alle altri/e. Il termine deriva dall’espressione inglese ‘to come out of the closet‘, traducibile in italiano con ‘uscire dall’armadio’, per indicare un momento di rottura rispetto a una condizione di segretezza, oppressione o invisibilità.
Il coming out viene dunque definito come ‘processo’ per due ragioni decisive:

  • è preceduto da varie fasi di riflessione e presa di consapevolezza degli individui a proposito del proprio orientamento sessuale;
  • non avviene una volta per tutte, ma è reiterato nel tempo, a seconda delle situazioni che si vivono, e nei diversi spazi sociali, a seconda dei contesti che si attraversano.

Come esseri sociali, viviamo all’interno di un continuo relazionarci con le altre persone, fatto di incontri, rapporti, conversazioni ed esperienze: ciò rende evidente come il coming out sia un processo continuo e mai concluso. Nella vita quotidiana, infatti, persone lesbiche e gay devono decidere ad ogni nuovo incontro se rendere noto o meno il proprio orientamento sessuale alla persona con cui si stanno relazionando. Una persona può, ad esempio, iniziare a definirsi omosessuale durante l’adolescenza, momento in cui prende forma la propria identità sessuale, ma le capiterà numerose volte nel corso della propria vita di doverlo comunicare e, in ogni nuova situazione, si troverà a chiedersi: «Faccio o meno coming out?».
Nella vita delle persone non eterosessuali, dunque, la decisione o meno di fare coming out ha una centralità preponderante: che esse lo affrontino o meno, in ogni caso si trovano a doverlo prendere in considerazione ogni volta che attraversano uno qualunque degli ambienti in cui si trovano a vivere, dato che in tutti gli ambiti si dà per scontato che l’orientamento delle persone sia eterosessuale: famiglia, scuola, sport, lavoro, amicizie, tempo libero, attivismo, ambito socio-sanitario, uffici pubblici. L’importanza di tale momento viene ricordata l’11 ottobre di ogni anno attraverso la celebrazione internazionale del giorno del coming out (“Coming Out Day”).

La complessa decisione di fare o meno coming out viene presa sulla base della relazione e del senso di fiducia che si sono instaurati con il contesto sociale, e degli indizi che si sono raccolti nell’ambiente a proposito delle possibili conseguenze di una simile rivelazione. E’ una decisione, però, che deve fare i conti con un forte stigma sociale. Lo stigma, concetto ben delineato negli anni ‘60 dal sociologo canadese Erving Goffman, è il dispositivo che discredita una persona sulla base dell’appartenenza a un determinato gruppo (ad esempio etnico) o del possesso di specifiche caratteristiche (ad esempio l’essere sovrappeso), considerate non desiderabili nella società di riferimento. Tali caratteristiche acquisiscono il primato sulle altre peculiarità della persona, che non viene più vista in virtù delle proprie doti individuali ma, semplicemente, come appartenente ad un gruppo screditato a causa degli stereotipi che circolano su quel particolare gruppo sociale. Come sappiamo, la nostra identità è un prisma, ed è composta da molte sfaccettature: quando viene fatta luce su un aspetto non dato per scontato quale può essere l’omosessualità, quell’aspetto rischia di non rendere visibile la persona nella sua interezza. Così, può accadere che una persona venga identificata solo in virtù della sua omosessualità e che, a partire da ciò, vengano formulate opinioni e giudizi sulle sue competenze, i suoi valori o il suo stile di vita: per esempio «Xy non può insegnare perché è omosessuale» (ma che cosa hanno a che vedere le competenze educative con l’orientamento sessuale?) oppure «Xy non è affidabile perché è omosessuale» (ma secondo quale logica l’affidabilità di una persona dipende dal suo orientamento sessuale?), e via dicendo.

Per evitare discriminazioni, soprattutto nelle situazioni quotidiane, molte persone decidono di mantenere segreto il proprio orientamento non eterosessuale. Tale condizione di segretezza è dovuta al fatto che la società in cui viviamo dà per scontato che tutte le persone siano eterosessuali. In altri termini, la nostra società fa fatica a superare, per condizionamenti storico-culturali, una visione eterosessista del mondo che tende a stigmatizzare o a disconoscere, anche se non sempre in maniera aperta e visibile, ogni relazione, rappresentazione, espressione non eterosessuale. Nel caso in cui una persona decida di non fare coming out, per esempio, decide anche di nascondere una parte di sé che non ha a che fare solo con l’attività sessuale, ma anche con la dimensione affettiva e relazionale. Basti pensare alle comuni domande (e alle ‘comuni’ risposte che la società si attende) che vengono fatte nelle situazioni sociali o familiari: «Hai il ragazzo?», «Sei sposato?», «Con chi hai passato il fine settimana?», «Chi ti ha portato all’ospedale?», «Con chi vivi?».

Allo stesso modo, questa società esprime e privilegia, a livello istituzionale e culturale, un’unica e specifica forma di eterosessualità, quella monogamica finalizzata al matrimonio e alla procreazione tra un uomo e una donna sposati; a causa di questo approccio eteronormativo, inoltre, non vengono garantiti sufficienti strumenti di tutela giuridica nei confronti dei cittadini e delle cittadine che non si conformano a tali norme o perché non lo desiderano benché sia loro concesso (persone eterosessuali), o perché non possono o non vogliono (persone omosessuali).

Quindi, non sono solo le relazioni omosessuali e lesbiche a essere stigmatizzate, ma rischiano la stessa sorte anche le relazioni eterosessuali tra uomini e donne che decidono di non avere figli/e, di non sposarsi, di non convivere e/o di vivere più di una relazione. Il pregiudizio è così radicato che è spesso difficile riuscire a identificarlo perché, la maggior parte delle volte, si manifesta in maniera indiretta e sovente inconsapevole, talvolta semplicemente attraverso il linguaggio.
A proposito del linguaggio, esso non è solo viziato dal pregiudizio ma anche dall’ignoranza. Per esempio, sovente, in particolare dai media e dalla stampa, il termine coming out viene erroneamente sostituito con il termine outing. In realtà non si tratta di due sinonimi, ma di due parole radicalmente diverse e legate a due processi molto differenti. Outing, infatti, è l’espressione usata per indicare la rivelazione dell’omosessualità di qualcuno da parte di terze persone senza il consenso della persona interessata, solitamente al fine di discreditare la persona di cui si è fatto outing. L’esempio classico è la scritta sul muro: «X è gay». Va detto che questa strategia è stata utilizzata nel passato anche da associazioni LGBT, particolarmente nei contesti anglosassoni, per smascherare politici o referenti religiosi particolarmente noti per le loro posizioni omofobiche, ma che vivevano di nascosto la loro omosessualità. Tale strategia politica non raccoglie però il consenso unanime, dato che comunque stigmatizza una persona rendendo visibile, senza consenso, il suo orientamento sessuale.

Prendere familiarità con questi termini e imparare a utilizzarli in maniera corretta è un primo passo per superare l’ignoranza e la discriminazione che spesso circonda le persone LGBT. Per un ulteriore approfondimento sul lessico e sull’uso non eterosessista del linguaggio rimandiamo alle “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT” stilate da “Il redattore sociale” per conto di UNAR.

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