La depatologizzazione dell’omosessualità come presupposto per il benessere psicofisico delle persone gay o lesbiche

A cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma;
Nicola Nardelli, Dottorando in Psicologia Dinamica e Clinica, La Sapienza Università di Roma.

Per la maggior parte del secolo scorso, l’orientamento omosessuale è stato oggetto di teorizzazioni infondate sul piano scientifico. Tali teorie erano piuttosto la conseguenza di pregiudizi e preconcetti, spesso rinforzati da elementi clinici ricavati dal trattamento di pazienti omosessuali a loro volta condizionati e segnati dall’ostilità sociale che avevano incontrato e, spesso, interiorizzato.
A partire da Sigmund Freud (Cfr. Lingiardi V., Luci M., “L’omosessualità in psicoanalisi”, in Rigliano e Graglia, 2006), che mostra tuttavia un atteggiamento duplice verso l’omosessualità (da una parte la ritiene una forma di immaturità psichica e di fissazione nello sviluppo psicosessuale, dall’altra afferma che «non può essere classificata come malattia» ma come «variante della funzione sessuale»), fino alla metà del XX secolo la possibilità di un orientamento omosessuale ‘normale’ non viene contemplata. In particolare, il tentativo di ‘spiegare’ l’omosessualità si basava su un errore interpretativo che portava a confondere e sovrapporre due dimensioni invece distinte: l’orientamento sessuale e l’identità di genere. In altre parole, un uomo omosessuale era considerato psicologicamente ‘come una donna’ (o una ‘donna mancata’) e una donna omosessuale era considerata psicologicamente ‘come un uomo’ (o un ‘uomo mancato’). Il che, tra l’altro, implicava la convinzione di conoscere e definire le caratteristiche psicologiche di un uomo e di una donna.

La situazione inizia a modificarsi attorno alla metà del XX secolo, quando gli studi di Alfred Kinsey (Kinsey et al., 1948; Kinsey et al., 1953) e di Evelyn Hooker (1957) inaugurano il cosiddetto processo di depatologizzazione dell’omosessualità. Kinsey rivoluziona la concezione della sessualità umana facendo emergere, tra l’altro, la molteplicità e le sfumature degli orientamenti sessuali. Hooker conduce un esperimento in cui somministra dei test psicologici a gruppi di soggetti etero e omosessuali. Dal confronto dei protocolli, valutati in cieco rispetto all’orientamento sessuale dei partecipanti, non emerge la possibilità di distinguere i due gruppi e quindi di rintracciare indicatori psicopatologici dell’omosessualità.
La prima svolta decisiva avviene negli anni Settanta, quando l’American Psychiatric Association (APA) elimina dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) la diagnosi di omosessualità (APA, 1973). Fino a quel momento, l’omosessualità era classificata, alla stregua della pedofilia, come una devianza sessuale. Nel Manuale, tuttavia, rimane la variante ‘egodistonica’ (cioè quando l’individuo non accetta la propria omosessualità), eliminata nell’edizione del 1987 (DSM-III-R), una volta riconosciuto il legame tra l’interiorizzazione dell’ostilità sociale e la non accettazione del proprio orientamento sessuale.

Attorno agli anni Ottanta, per la prima volta prendono la parola psichiatri e psicoanalisti dichiaratamente omosessuali (tra questi, Richard Isay, Ralph Roughton, Jack Drescher, Maggie Magee, Diana Miller, Ubaldo Leli), costretti, fino a quel momento, a vivere in una sorta di ‘clandestinità’ teorica e professionale (per approfondimenti, cfr. Bassi e Galli, 2000; Lingiardi e Luci, 2006). Contemporaneamente, psicoanalisti di fama come Roy Schafer, Joyce McDougall e Otto Kernberg rivedono le proprie teorie ‘patologizzanti’, ammettendo di essere stati influenzati dai pregiudizi dell’epoca e dal contesto socioculturale. «Lo studio scientifico dell’omosessualità – scrive Kernberg (2002, p. 10) – è senza dubbio un esempio dell’impatto deleterio che l’ideologia ha avuto sulla ricerca accademica. […] L’indagine psicoanalitica sull’omosessualità non può sfuggire ai pregiudizi sociali che colpiscono questo argomento e così infatti è successo che nessun ambito della psicoanalisi sia riuscito a sfuggire a tali contaminazioni e conflitti ideologici». Ma già nel 1978 lo psicoanalista Stephen Mitchell metteva in guardia dai rischi della ricerca delle ‘cause’ dell’omosessualità, perché inevitabilmente tale ricerca (ezio-genesi) si trasforma nella ricerca di ‘cause patologiche’ (ezio-pato-genesi).

Col passare del tempo, e con i grandi mutamenti scientifici, politici e giuridici che accompagnano la fine del secolo scorso, la ricerca sull’omosessualità cede il passo alla ricerca sull’omofobia e sulla stigmatizzazione sessuale e di genere. L’American Psychiatric Association (APA) si pronuncia a favore dei diritti civili delle persone gay e lesbiche, non tanto da una prospettiva politico-sociale, quanto piuttosto nell’ottica di tutelare la loro salute mentale. Nel 1992 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) elimina la diagnosi di omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), ribadendo che l’orientamento omosessuale non dev’essere considerato, di per sé, un indicatore psicopatologico, bensì una variante normale della sessualità, proprio come l’orientamento eterosessuale.
Anche sul piano della pratica clinica avvengono cambiamenti sostanziali. Sono definitivamente abbandonati i modelli teorici che considerano l’omosessualità una ‘malattia da curare’ e vengono riconosciute le ripercussioni traumatiche della discriminazione sociale sullo sviluppo psicologico e sociale delle persone gay e lesbiche. In particolare, viene sottolineata l’importanza di riconoscere, affrontare e elaborare l’omofobia interiorizzata dalle persone omosessuali stesse (cioè l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi nei confronti della propria omosessualità) e, più in generale, il minority stress (l’insieme dei disagi psicologici dovuti all’appartenere a una minoranza discriminata).

Può essere interessante ricordare qui un esperimento condotto dallo psicoanalista Mark Blechner (2009), che ha chiesto a un gruppo di persone eterosessuali di non fare mai riferimento, al lavoro o nelle conversazioni con gli amici, al genere del proprio partner o della propria partner o a esperienze fatte in coppia, prestando attenzione a descrivere le esperienze condivise con il/la partner come se le avessero vissute da soli, dicendo sempre ‘io’ anche quando avrebbero voluto dire ‘noi’, oppure dicendo ‘una persona’ quando avrebbero voluto dire mio marito/mia moglie o il mio compagno/la mia compagna. In sintesi, si sarebbero dovuti comportare proprio come fanno molti gay e lesbiche quando non possono o non riescono a rivelare la propria omosessualità. Dopo un mese di questa vita di clandestinità e anonimato, chi ha partecipato all’esperimento si è dichiarato seriamente destabilizzato e in seria difficoltà. Blechner ci invita a riflettere su quanto debba esserlo per le persone omosessuali che la mettono in pratica non per un mese, ma a volte per una vita intera, in particolare quando l’ambiente attorno a loro sembra del tutto imprevedibile o si dimostra ostile.
L’impatto del minority stress sul benessere psicofisico delle persone gay o lesbiche viene descritto da molte ricerche sul campo che indicano il pregiudizio e la discriminazione come fattori rilevanti e misurabili di stress, e mostrano come lo sviluppo psicologico di molte persone omosessuali sia segnato da una dimensione di stress continuativo, conseguenza di ambienti ostili o indifferenti, episodi di stigmatizzazione, casi di violenza. L’esperienza di queste situazioni continuativamente traumatiche, quelle che lo psicologo Derald Wing Sue (2010) chiama “Microaggressions in everyday life”, è significativamente più alta in campioni di omosessuali rispetto a campioni di eterosessuali (vedi anche: Mays e Cochran, 2001; Meyer e Northridge, 2007; Rivers, 2011; Roberts et al., 2010). Gli studi condotti da Mark Hatzenbuehler e collaboratori (2009, 2010, 2012) evidenziano come l’incidenza di problemi e disturbi psichici, alcolismo e ideazione suicidaria (vedi anche Baiocco et al., 2010; King et al., 2008; Marshal et al., 2011; Plöderl et al., 2014) sia nettamente superiore tra le persone gay e lesbiche residenti in paesi dove non è consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso e/o non esistono leggi specifiche contro le violenze e le discriminazioni omofobiche e/o in contesti dove le organizzazioni religiose o i nuclei familiari (Ryan et al., 2009) sono meno accoglienti.

Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei genitori, la derisione dei compagni di scuola, diventa un compito davvero difficile. Fortunatamente a molti adolescenti o giovani adulti gay e lesbiche non mancano le capacità e le risorse per fronteggiare con successo le esperienze (micro o macro) traumatiche, riorganizzando positivamente la propria vita. Alcuni, però, si impegnano nella ricerca, spesso disperata, di interventi volti alla modifica del proprio orientamento sessuale: le cosiddette ‘terapie riparative’, dichiarate inefficaci e dannose e bandite da tutte le associazioni scientifiche e professionali per la salute mentale (su questo tema cfr. Lingiardi, 2007/2012; Rigliano, Ciliberto e Ferrari, 2012). Di fronte a simili richieste di modifica dell’orientamento sessuale, i terapeuti devono stare attenti a non colludere con il disagio ‘egodistonico’ del/della paziente, ma esplorare con lui/lei il significato personale e collettivo di tale disagio, al fine di comprendere da cosa è sostenuto il desiderio di diventare ‘eterosessuale’: quali paure, quali aspettative deluse, affrontando senza pregiudizi i molti temi che possono riguardare la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali e delle loro famiglie.

Eppure, ancora oggi, alcuni psicologi guardano all’omosessualità con preoccupazione e diffidenza. D’altra parte, i libri e i manuali su cui si sono formate intere generazioni di professionisti non hanno mai raccontato ‘le omosessualità’ dalla prospettiva di uno sviluppo psicologico ‘normale’, facilitando così la proliferazione di pregiudizi negativi nei confronti degli individui omosessuali e di pregiudizi positivi nei confronti di quelli eterosessuali. Si possono incontrare psicologi e psichiatri che esprimono convinzioni negative nei confronti dell’omosessualità, che si oppongono alla possibilità che gay e lesbiche possano avere relazioni stabili e riconosciute socialmente o che possano essere ‘buoni genitori’ (ignorando il consistente corpus di ricerche scientifiche che dimostra il contrario; per approfondimenti rimandiamo al numero monografico di Infanzia e Adolescenza curato da Anna Maria Speranza, 2013). Si possono incontrare psicologi e psichiatri che, con atteggiamenti che potremmo definire più ‘eterofili’ che ‘omofobi’, non veicolano ai loro pazienti atteggiamenti patologizzanti, ma indicano nell’eterosessualità una condizione comunque preferibile (e auspicabile). Sono questi, tra gli altri, i risultati che emergono da alcuni studi nazionali e internazionali (cfr. Bartlett, Smith e King, 2009; Lingiardi e Capozzi, 2004), tra cui una ricerca che abbiamo condotto in collaborazione con vari Ordini degli Psicologi nazionali (Lingiardi e Nardelli, 2011; Lingiardi, Nardelli e Tripodi, 2013; Lingiardi, Taurino, Tripodi, Laquale e Nardelli, 2013; Lingiardi, Tripodi e Nardelli, 2014; Nardelli, Rollè e Tripodi, 2011). Da queste ricerche emerge anche un dato importante: la consapevolezza della necessità di un aggiornamento scientifico e clinico, da cui deriva la richiesta di una maggiore formazione e informazione.

A livello internazionale, le più autorevoli associazioni di categoria hanno prodotto numerosi materiali per promuovere conoscenza e maggior chiarezza sui temi che caratterizzano le minoranze sessuali e di genere. Si tratta sia di documenti di carattere divulgativo, sia di vere e proprie “Linee guida” che si propongono di aiutare i professionisti della salute mentale ad assumere approcci adeguati nella pratica clinica con gli utenti e i pazienti non eterosessuali (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 2012; American Psychological Association, 2009, 2012; British Psychological Society, 2012). L’esigenza di aggiornamento e formazione sul piano scientifico e clinico è stata colta anche nel nostro paese, inizialmente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio che, sotto la presidenza di Marialori Zaccaria, ha deciso di promuovere l’elaborazione di “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali” (Lingiardi e Nardelli, 2013, 2014). La qualità di questo strumento di aggiornamento professionale è stata riconosciuta dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), che ha deciso di recepirle e di promuoverne la divulgazione. Un passo decisivo in un Paese in cui la cultura scientifica in tema di (omo)sessualità è stata a lungo caratterizzata da lacune e distorsioni.

Bibliografia

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