Dallo pseudo-ermafroditismo alla intersessualità fino al DSD: le mille sfumature della medicalizzazione dei corpi intersessuati

A cura di Daniela Crocetti, Ph.D. in Science, Technology and Humanities, Università degli Studi di Bologna.

Obiettivo di questo articolo è discutere in chiave socio-storica le modalità con cui è stata interpretata l’esperienza dell’intersessualità nel corso dei secoli prestando particolare attenzione alle connessioni tra le norme sociali sul genere e la sessualità, la medicina e le esperienze delle persone intersex.
Le società occidentali dividono gli individui nelle rigide categorie di maschi e femmine e, a partire dall’appartenenza ‘biologica’ ad una di queste, collocano gli individui nelle altrettanto rigide categorie sociali di uomini e donne, ovvero presumono che esistano solo due sessi e, a partire da essi, solo due generi.
In occidente fino al 1800 questo processo era definito principalmente dagli aspetti somatici del corpo (le caratteristiche secondarie del sesso, quali la presenza del seno nelle donne e della barba negli uomini) e dalla forma dei genitali, ovvero venivano identificati come uomini e come donne coloro che sviluppavano un corpo considerato adeguato ad uno dei due sessi. Gli individui il cui corpo non rispondeva a questa dicotomia maschile/femminile (contemporaneamente biologica e sociale) venivano stigmatizzati. A questo processo di stigmatizzazione si aggiunse – dal tardo medioevo nelle culture europee e, successivamente, in quella del nord America – la criminalizzazione dell’omosessualità e le persone intersessuate vennero discriminate non solo in base alle differenze di genere, ma anche rispetto al loro presunto orientamento sessuale non eterosessuale. A questo proposito, il filosofo Michel Foucault ipotizza che dal 1600 al 1700 nelle società occidentali ci sia stato uno spostamento dalla considerazione del corpo-diverso inteso come mostruoso (contro l’ordine e regole della natura) alla considerazione di ciò che allora chiamavano ermafroditismo come una minaccia di omosessualità.
Sebbene già dal ‘600 ci siano casi di medici interpellati per stabilire ‘il vero sesso’ di una persona, è dal 1800 che emerge una vera e propria ossessione medica sui cosiddetti casi ‘di sesso dubbio’: viene quindi coniato il termine ‘pseudo-ermafrodito’ per indicare coloro che non è possibile indentificare chiaramente come maschi o come femmine in base alle loro caratteristiche fisiche. È in quegli anni, infatti, che la scienza medica scopre le funzioni differenti svolte dalle gonadi (ovaie nelle femmine e testicoli nei maschi) nella riproduzione, ed è da questo momento che esse cominciano ad essere considerate degli indicatori del sesso degli individui. Prima di allora si credeva che la vagina fosse un pene introflesso (e poco sviluppato), e che ovaie e testicoli svolgessero la medesima funzione. I medici allora pensarono di aver scoperto il ‘vero indicatore del sesso biologico degli individui’, laddove la forma dei genitali non corrispondeva al genere che si manifestava in altre parti del corpo.
Sulla base di questo presunto dato, i medici diventano i ‘guardiani’ del sesso legale (ovvero quello riconosciuto dai documenti di identità) e acquistano l’autorità di obbligare una persona ad assumere un’identità di genere piuttosto che un’altra in virtù del sapere medico. È il triste caso di Herculin Barbin raccontato da Michel Foucault, cresciuta femmina col nome di Alexina e morta suicida a 25 anni dopo 4 anni in cui venne obbligata a vivere da uomo in base a quanto stabilito dalle ricerche mediche sul suo conto.
Tuttavia non vi era consenso nella comunità scientifica su come procedere nell’attribuzione del sesso legale nei casi in cui il corpo presentasse elementi sia maschili che femminili. Certi medici insistevano sulla necessità che gli individui assumessero il sesso legale rispecchiato nella loro materia gonadica (ovaie o testicoli) a prescindere dall’aspetto del corpo, dalla forma dei genitali e dall’identità di genere percepita; altri medici, invece, consideravano prioritari gli aspetti sociali, ovvero l’identità di genere ma, soprattutto, l’orientamento sessuale, e insistevano sulla necessità che gli individui assumessero legalmente il genere che li rendeva eterosessuali ovvero il genere opposto rispetto a quello delle persone da cui erano affettivamente ed eroticamente attratte.
All’inizio del ‘900, invece, la medicina scopre ulteriori elementi del corpo che riguardano il sesso biologico come gli ormoni, i cromosomi sessuali e, da questi, anche i marcatori genetici. Il termine ‘intersessuale’, infatti, risale alla ricerca di Richard Goldschmidtpubblicata nel 1917 – sull’effetto degli ormoni nello sviluppo dei tratti sessuali delle farfalle. In questa ricerca Goldschmidt scoprì il ruolo degli ormoni nello sviluppo dei tratti sessuali e ipotizzò che essi giocassero un ruolo anche nei casi in cui gli individui presentavano elementi biologici di entrambi i sessi. Negli anni ’30 il noto endocrinologo ed embriologo Frank Lillie confermò questa teoria sull’impatto degli ormoni nello sviluppo del corpo sessuato, avanzando la tesi che il sesso biologico fosse composto dall’insieme di tutti questi elementi del corpo.
Negli anni ’50 John Money dell’Hopkins Institute negli Stati Uniti attraverso una ricerca sulle cartelle cliniche delle persone da lui ancora chiamate ‘pseudo-ermafroditi’, stabilì che esse non avevano particolari problemi psichici, ma che era necessario modificare (ovvero normalizzare) chirurgicamente i genitali laddove la loro forma o grandezza non corrispondeva in pieno al genere assegnato alla nascita. Negli stessi anni Andrea Prader sviluppa una scala di grandezza (la Prader scale) che codifica per la comunità medica la differenza tra i genitali maschili e quelli femminili.
Money fu una personalità rivoluzionaria per l’epoca, ma allo stesso tempo condizionò in maniera negativa la pratica medica dei decenni a seguire. Da un lato, infatti, egli sottolineò come quello che oggi chiamiamo ‘identità di genere’ sia un fatto sociale, condizionato più dall’ambiente in cui si cresce che dalla biologia. Dall’altro, pero, individuò proprio nella forma ‘normale’ dei genitali (secondo la scala di Prader, appunto) uno dei fattori cruciali per essere socialmente accettati come maschi o come femmine.
A partire da questo assunto diventò prassi intervenire chirurgicamente sui genitali del bambino prima dei tre anni in casi di genitali di grandezza non standard, senza informare i genitori del perché (per non insinuare dubbi rispetto al genere del bambino), spesso in direzione femminile. Dalla fine degli anni ‘90, con la scoperta di sempre più varietà di forme di intersessualità, si é pian piano smesso di assegnare il genere femminile a tutti i casi ambigui, benché gli interventi chirurgici precoci rimangano un problema in quanto questa procedura ha creato dei danni psicologici enormi a coloro che l’hanno subita, violando la loro intima percezione di sé come uomini o come donne e spesso eliminando la loro capacità di raggiungere un orgasmo nell’età adulta. Di questo modello ‘interventista’ fanno parte altre modalità mediche: l’asportazione di ovaie o testicoli per ‘proteggere’ l’identità di genere assegnata, gli spostamenti dell’uretra per agevolare l’urinare in piedi, le terapie ormonali per rinforzare il genere somatico, e così via. Tutte queste tecniche mediche, tuttavia, comportano problematiche e controindicazioni non indifferenti, e rispecchiano più una medicalizzazione di aspetti sociali della vita che non la ricerca di una buona salute fisica.
Negli ultimi decenni del ‘900, con il crescere della consapevolezza rispetto agli interventi non informati, attivisti e pazienti iniziano a problematizzare la prassi medica in vigore sia rispetto alla scala di grandezza standardizzata dei genitali per i bambini, sia rispetto all’urgenza di ‘normalizzare’ la forma dei genitali, reclamando il diritto a partecipare alla scelta dei medici attraverso una reale e ampia informazione.
A partire dagli anni ‘90, il termine ‘intersessualità’, dunque, assume un altro significato: la parola rispecchia le politiche identitarie di genere e la lotta per il riconoscimento dell’esistenza di corpi diversi in un mondo sempre più medicalizzato. Nel 2006 un gruppo di medici, attivisti, pazienti e accademici ha coniato il termine ‘DSD’, acronimo della dicitura inglese Disorders of Sex Development, tradotta in italiano con Disordini della Differenziazione Sessuale. Questo nuovo termine, seppur importante, rimane controverso: da un lato, crea una netta separazione tra gli aspetti sociali e quelli biologici, non medicalizzando più l’orientamento sessuale o i comportamenti di genere non stereotipati; dall’altro, mantiene la stessa cornice normativa e medicalizzante (utilizzando tra altro il termine ‘disordini’) che vorrebbe modificare.
L’introduzione del termine DSD è avvenuta parallelamente ad un nuovo modello di cura centrato sull’individuo (Patient Centered Care Model) che insiste sul consenso informato e sul coinvolgimento dell’individuo/paziente. Questo modello rispecchia un cambiamento pratico che dovrebbe (ma non sempre) posticipare gli interventi ‘normalizzanti’ irreversibili a un età in cui la persona stessa può essere coinvolta nella decisione. A questo viene aggiunto l’importantissimo lavoro di sostegno psicologico ai genitori, per far loro comprendere e amare i propri figli, spostando l’attenzione dalla ‘correzione’ medica della diversità alla sua accettazione sociale.

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