Omofobia: le fonti psico-sociali delle discriminazioni

A cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma. Parti di questo articolo sono tratte da “Citizen gay. Affetti e diritti” di Vittorio Lingiardi (ed. Il Saggiatore, 2012) e da “Linee guida per la consulenza psicologica con persone lesbiche, gay, bisessuali” di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli (ed. Cortina, 2014).

Il 17 maggio di ogni anno si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, una ricorrenza riconosciuta nel 2007 dall’Unione europea e finalizzata a promuovere eventi internazionali di prevenzione e sensibilizzazione nei confronti di queste piaghe sociali e psicologiche. Scrivere, nello stesso contesto, di omosessualità, bisessualità, transgenderismo e transessualismo è problematico perché si corre il rischio di assimilare realtà e esperienze tra loro diverse. Inoltre, le omosessualità e le bisessualità (uso il plurale per sottolineare l’infinito articolarsi delle -sessualità, eterosessualità comprese) riguardano principalmente l’orientamento sessuale di un individuo. Le transessualità e, più in generale, le dimensioni transgender, invece, riguardano principalmente le identità e i ruoli di genere di un individuo.

Per motivi di spazio, in questo contributo parlerò principalmente di omofobia (ossia di disagio, paura, pregiudizi, svalutazione, avversione e/o ostilità, su base psicologico-individuale e/o ideologico-collettiva, nei confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità), ben consapevole dell’esistenza e dell’impatto psicologico e sociale della transfobia, ossia di pregiudizi e comportamenti negativi, stigmatizzanti, discriminatori e ostili, nei confronti della persona transessuali e transgender.

Per decenni gli studi scientifici hanno ‘indagato’ l’omosessualità come ‘problema’ da conoscere e, spesso, ‘risolvere’. È solo dai primi anni settanta che la comunità scientifica ha iniziato a considerare come oggetto di studio e ricerca non tanto l’omosessualità, quanto l’omofobia, nelle sue molte manifestazioni.
Se per tanti anni la domanda è stata «Perché sei omosessuale?» (domanda senza risposta, esattamente come «Perché sei eterosessuale?», anche se quest’ultima è raramente formulata), oggi la domanda è sempre più spesso «Perché sei spaventato dall’omosessualità o ostile alle persone omosessuali?». La ricerca sulle cause (il più delle volte considerate patologiche) dell’omosessualità ha progressivamente ceduto il passo alla ricerca sulle cause e le espressioni dell’omofobia.
Di pari passo è cambiata la pratica clinica, che ha abbandonato i modelli patologizzanti e bandito le cosiddette ‘terapie riparative’ (finalizzate alla cura dell’omosessualità), la cui inefficacia e i danni emotivi prodotti sono scientificamente ben documentati.

È uno psicologo, George Weinberg, a coniare, nel 1972, la parola omofobia per descrivere la paura irrazionale di trovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali e le reazioni di ansia, disgusto, avversione o intolleranza che alcuni eterosessuali possono provare nei confronti di persone gay e lesbiche. Dal problema sociale rappresentato dall’omosessualità Weinberg sposta l’attenzione a quello psicologico degli atteggiamenti verso di essa, privilegiando gli aspetti emotivi dell’omofobo più di quelli cognitivi. Tuttavia, pur annoverandola tra le ‘fobie classiche’, Weinberg sottolinea la portata aggressiva dell’omofobia e la propensione a convertirsi in violenza, caratteristiche che la qualificano come fobia ‘atipica’.
Il termine omofobia, infatti, porta l’attenzione soprattutto sulle cause individuali e irrazionali della ‘fobia’, trascurandone componenti cognitive e radici culturali e sociali, oltre che la parentela con altri modi di ‘odiare in prima persona plurale’, come la misoginia, la transfobia, il razzismo, la xenofobia. Molti studiosi preferiscono, dunque, il concetto multidimensionale di omonegatività, secondo il quale l’omofobia in senso stretto sarebbe solo un fattore nel contesto più ampio di atteggiamenti che coinvolgono il piano sociale, politico, culturale, legale, morale. In altre parole, molti dei comportamenti e affermazioni comunemente considerati omofobici o transfobici non sono principalmente basati sulla paura o l’imbarazzo, ma piuttosto sul pregiudizio e la disapprovazione.

Tuttavia, sebbene abbia esteso la classificazione degli atteggiamenti antiomosessuali, il termine omonegatività è stato poco utilizzato. Gregory Herek, nel 1990, propone di utilizzare il termine eterosessismo, intendendo «un sistema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità non eterosessuali». In questo modo vuole ribadire come il pregiudizio antiomosessuale non sia solamente un’entità individuale e clinica, ma un fenomeno sociale le cui radici sono rintracciabili nelle ideologie culturali e nelle relazioni intergruppo.

Tornando alle dimensioni psicologiche, l’avversione o la diffidenza nei confronti di gay e lesbiche deriva dalla preoccupazione per un disordine, qualcosa di ‘fuori posto’ rispetto ad assegnazioni binarie rassicuranti e eteronormative del tipo ‘i maschi sono attratti dalle femmine’ e ‘le femmine sono attratte dai maschi’. Al punto da pensare che se una donna è attratta da una donna ‘non è una vera donna’ e se un uomo è attratto da un uomo ‘non è un vero uomo’ (confondendo così l’orientamento sessuale con l’identità di genere). Da qui il bisogno di darsi una rassicurazione riguardo alla propria ‘mascolinità’ o ‘femminilità’ e, implicitamente, alla propria ‘eterosessualità’. Un fondamento dell’omofobia, infatti, consiste in una sorta di polarizzazione difensiva dei ruoli di genere, che porta a temere o disprezzare i fantasmi di passività e dipendenza nell’uomo e di attività e autosufficienza nella donna. Si tratta di credenze ingenue e fortemente influenzate dagli stereotipi di genere, ma terribilmente efficaci nel lasciare pregiudizi e ingiustizie ‘al loro posto’.

Ad alimentare le radici più arcaiche dell’omofobia e della transfobia contribuisce certamente l’innegabile aumento della visibilità omo- e transessuale nella vita domestica, nella giurisdizione internazionale, nell’immaginario collettivo. Se in passato, lo scandalo era la ‘devianza’, oggi ciò che preoccupa e spaventa, fino all’odio, è la possibilità di una normalità omo- e transessuale e della sua realizzazione affettiva. Il problema, dunque, è la richiesta di appartenere a pieno diritto al tessuto sociale. In una parola, la cittadinanza.
Attraversando i territori più diversi, pubblici e privati, mediatici e istituzionali, l’omofobia può avere ripercussioni a breve e a lungo termine sulla salute psichica e fisica delle persone omosessuali. Il termine tecnico è minority-stress, condizione di disagio e/o sofferenza che si compone di tre dimensioni che si intrecciano e potenziano vicendevolmente:

  • a) esperienze vissute di discriminazione e violenza;
  • b) stigma percepito;
  • c) omofobia interiorizzata. Analogamente per la transfobia.

«Non occorre essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi» recita un verso di Emily Dickinson. I fantasmi dell’omofobia possono occupare la psiche in vari modi. Alcuni hanno la prepotenza del bullismo, altri possono sembrare addirittura pietosi e tolleranti (la tolleranza!, «una forma di condanna più raffinata», diceva Pier Paolo Pasolini).
Spesso eleggono a dimora la vita interiore delle persone omosessuali stesse, e producono autodisprezzo, vergogna, a volte la voglia di farla finita. Qui il termine tecnico è omofobia interiorizzata, a indicare l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una persona può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti della propria omosessualità. Lo stigma percepito riguarda, invece, il livello di vigilanza relativo alla paura di essere ‘identificati’ come gay o lesbiche, per cui quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto più alto sarà il grado di allerta e sensibilità all’ambiente. Rientra nella dimensione dello stigma percepito anche il timore per le reazioni che potrebbe suscitare il proprio coming out, per esempio in famiglia o sul posto di lavoro. Un altro termine di questo doloroso vocabolario è bullismo omofobico, in riferimento a azioni offensive a carattere omofobico subite da bambini/e o ragazzi/e da parte di uno o più membri del gruppo dei pari, intenzionalmente e ripetutamente nel corso del tempo. Le aggressioni, fisiche e/o verbali, sono dirette verso l’orientamento sessuale (reale o presunto) oppure verso il ruolo di genere (bullismo di genere) non conforme alle aspettative socioculturali.

Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei propri genitori, la derisione dei compagni di scuola, può essere davvero insopportabile. Fortunatamente a molte persone gay e lesbiche non mancano le capacità e le risorse per fronteggiare con successo le esperienze traumatiche, riorganizzando positivamente la propria vita. Alcune di loro, però, si mettono ingenuamente alla ricerca di interventi psicologico-comportamentali volti alla modifica del proprio orientamento sessuale. In questi casi, il compito degli psicologi e degli psicoterapeuti è riconoscere e affrontare senza pregiudizi i molti temi che possono riguardare la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender e delle loro famiglie: in una società dove le persone non eterosessuali vengono discriminate in dimensioni fondamentali della loro vita, è importante che i professionisti della salute mentale siano in grado di ascoltarle, comprendendo le loro difficoltà e aiutandole a vivere appieno la vita in tutti i suoi aspetti.

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