Breve storia del movimento LGBT in Italia: una conversazione con Porpora Marcasciano

A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Porpora Marcasciano è presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale) e autrice – tra gli altri – di AntoloGaia – testo recentemente ripubblicato dalla casa editrice Alegre – in cui racconta i suoi anni Settanta e le battaglie del movimento gay, lesbico e trans. Con lei abbiamo cercato di ricostruire alcune tappe fondamentali delle lotte LGBT in Italia.

Quando è nato il movimento LGBT in Italia?

Io penso che, come per tutte le cose, c’è una ‘prima volta’. Per decidere ‘la prima volta’ del movimento omosessuale in Italia non ci si è mai seduti attorno ad un tavolo, ma c’è accordo generale nell’indicare la manifestazione del Fuori! nel 1972 a Sanremo in occasione di un convegno di sessuologi sull’omosessualità come malattia. Detto questo, prima di quella data non c’era il vuoto, ma esistevano delle esperienze. In tanti si muovevano, eppure non uscivano allo scoperto. Come nel caso dei moti di Stonewall, non è che non ci fosse fermento prima di quell’evento, al contrario. Tuttavia non era ancora scoccata la scintilla giusta per innescare l’esplosione che fa iniziare un percorso. Per l’Italia, quindi, io stabilirei quello come punto di partenza.

E poi da quella uscita pubblica come si sono articolare le cose?

Da lì in avanti, per tutti gli anni ’70 c’è stato un movimento. Il Fuori! era un’associazione vera e propria con dei legami forti con il partito Radicale – che era una spalla forte per tutta una serie di categorie sociali e di battaglie civili – ma non era l’unica esperienza. Tutto era in nascita e in crescita in quegli anni, c’era un potenziale da sviluppare che non si era ancora delineato in associazioni o in aree come oggi, era una sorta di brodo primordiale che raccoglieva varie e diverse sfaccettature.

Era un movimento politico e culturale più ampio del solo mondo LGBT: in quegli anni, nacquero moltissime altre esperienze – collettivi e gruppi informali – che avevano le loro finestre sul mondo e contribuivano al dibattito. C’era “Re Nudo” – un giornale di contro-cultura nato a Milano che organizzava ogni anno il festival al parco Lambro – su cui scrivevano Mario Mieli e Alfredo Coen. Sulle pagine di “Re Nudo” c’era un dibattito accesissimo su sessualità e omosessualità e un dialogo serrato tra le istanze del femminismo e il movimento di liberazione gay: per esempio proprio di recente mi è capitato sotto mano un numero in cui c’era un botta e risposta tra Mario Mieli e Lea Melandri su questi temi.
E basta dare uno sguardo alla pagina gay di Lotta Continua, che usciva il giovedì, per vedere quanti e diversi collettivi e gruppi c’erano all’epoca. Alla fine degli anni ’70 in tutta Italia era un fiorire di collettivi che si collocavano all’interno del movimento antagonista: a Roma fu l’avvio con il Circolo Narciso (poi diventato Mario Mieli). A Milano c’era l’esperienza delle case occupate di via Morigi dove nacquero i COM – Comitati Omosessuali Milanesi – mentre a Torino, oltre al Fuori!, c’era Lambda che pubblicava un foglio di cultura omosessuale. E poi a Trapani, a Bari, a Potenza, a Lecce, a Cremona, a Verona, ovunque, anche al sud e nelle città di provincia, nascevano esperienze testimoni di una ricchezza che oggi potrebbe sembrare impensabile.

Hai citato il movimento femminista e il movimento della sinistra extra-parlamentare di quegli anni, quali erano i rapporti con il movimento LGBT?

Come negli Stati Uniti il Gay Liberation Front era intrecciato con le Black Panthers e il movimento delle donne, la stessa cosa succedeva in Europa con sfumature diverse. C’era un confronto profondo – che talvolta diveniva scontro – tra il movimento della sinistra extraparlamentare, il movimento femminista e il movimento gay. Il femminismo, in particolare, credo sia stato un interlocutore molto importante per articolare il discorso e le lotte sulla sessualità e la liberazione.

Se del movimento degli anni ’70 ciò che ha avuto più visibilità è stata la componente marxista, l’operaismo e il movimento contro le ingiustizie globali, dentro di esso trovarono spazio movimenti e istanze su ‘ingiustizie specifiche’: quelle gay, lesbiche e trans, quelle femminili, ma anche quelle sulla salute mentale per esempio. Il filo conduttore era una forte spinta culturale per emanciparsi da un modello sociale oppressivo e costruire dei nuovi spazi di libertà per tutte e tutti.

Quali erano le istanze di questo movimento?

Per che cosa ci si batteva? Ci si batteva per la propria liberazione. Questo non aveva ancora i contorni definiti dei diritti come li intendiamo oggi. Si usciva da secoli di negazione, d’invisibilità e di ‘non vita’, mentre con questo movimento si cominciava ad essere visibili, a riprendersi la parola e la vita. Bisogna ripensare al contesto di quegli anni: l’ultimo processo per plagio è quello di Aldo Braibanti del 1969 che venne arrestato dopo una denuncia da parte della famiglia del suo giovane fidanzato di allora. Nel 1972 il convegno contestato dal Fuori! era un convegno di sessuologi che discuteva dell’omosessualità come di una malattia da curare. Consiglio vivamente di leggere il libro “Quando eravamo froci” di Andrea Pini che ricostruisce cosa succedeva in Italia prima degli anni ’70, i soprusi e le ingiustizie subite: il movimento aveva alle spalle quel tipo di storia e chiedeva prima di tutto visibilità e libertà.

E dopo gli anni ’70 quali sono state le tappe successive?

Negli anni ’80 succedono due cose fondamentali: da un lato il movimento e tutte le sue sfaccettature si stabilizzano in associazioni e organizzazioni e, dall’altro, si diffonde l’Aids.

Nel 1980 a Palermo muove i primi passi Arcigay per mano di Marco Bisceglie – un prete operaio scomunicato per aver sostenuto le cause del divorzio e dell’aborto e per aver dichiarato pubblicamente la propria omosessualità – che viene registrata come vera e propria associazione nel 1981. Nel 1982 a Bologna il Comune assegna una struttura pubblica ad un gruppo omosessuale ed è la prima volta che in Italia un’istituzione riconosce il portato sociale e politico del movimento e della cultura omosessuale. Da lì nasce l’ufficialità del movimento perché ha una sede – il Cassero a Bologna, ha una rappresentanza formale – Arcigay – e ha un dialogo con le istituzioni – il Comune di Bologna. Questo però non significa che non ci fossero altri gruppi o altre esperienze in giro per l’Italia che hanno seguito strade differenti.

E per quanto riguarda la diffusione dell’Aids di cui accennavi prima?

L’avvento dell’Aids è stato un passaggio fondamentale che ha segnato sia le persone dal punto di vista biografico e sia il movimento in senso politico e culturale. Ci colse impreparate perché non c’era scampo, si diffondeva a vista d’occhio e non c’erano gli strumenti per affrontare quello che stava succedendo: a mio avviso la diffusione dell’HIV ha segnato profondamente un ‘prima’ e un ‘dopo’. E su questo, credo, il movimento LGBT non ha riflettuto abbastanza, diversamente da quanto successo in altri paesi come gli Stati Uniti. Non ci siamo chiesti abbastanza qual è stato l’impatto di questo fenomeno sulle nostre vite e sul movimento. Da lì ci siamo detti «dobbiamo essere più seri» e abbiamo indirizzato le energie nel prenderci cura della nostra comunità e a richiedere diritti, forse perdendo di vista il senso della parola liberazione che aveva guidato le lotte nel corso degli anni ’70.

In tutto questo movimento, qual è stata la specificità trans?

Negli anni ’70 non c’era una specificità trans evidente e manifesta. Era una minoranza nella minoranza, riguardava piccoli gruppi di transessuali MtF che stavano principalmente nei contesti metropolitani – a Torino, Milano, Genova, Roma – e che vivevano ai margini. La vita che facevano era automaticamente destinata alla marginalità, non c’era uno spazio di riconoscimento e di visibilità. Poi, piano piano, si è iniziato un percorso di visibilità per rivendicare la propria condizione trans. In quegli anni, però, la rivendicazione era molto focalizzata sul riconoscimento del cambio di sesso che molte avevano fatto all’estero, ma che in Italia non era riconosciuto e che anzi era perseguito. Il primo coming out trans in Italia per rivendicare questo diritto è la manifestazione all’idroscalo di Milano del 1979 dove un gruppo di trans si presentò a seno nudo dichiarando che, se per la legge erano identificati come maschi, allora si sarebbero comportati come tali indossando solo gli slip. Da lì anche il mondo trans ha iniziato a farsi spazio in quel contesto articolato di movimento di cui parlavamo prima, non senza conflitti, soprattutto con il movimento femminista. Non ci fu la capacità di capirsi da ambo le parti: le femministe non colsero la possibilità di decostruzione dei modelli di genere dominanti a cui apriva l’esperienza trans, mentre le trans faticarono a mettere in discussione quell’identità di donna in cui si riconoscevano.

E da allora come si sono modificate le cose?

La fase attuale è passata attraverso un riconoscimento politico di esperienze e di realtà da parte delle istituzioni. Le istituzioni, i partiti, i sindacati hanno cominciato a prendere in considerazione le istanze e le esigenze LGBT, da un lato perché con il movimento si era prodotto un cambiamento culturale; dall’altro perché i numeri crescevano e non era più possibile fare finta che le persone gay, lesbiche e trans non esistessero. Detto questo non si tratta di un rapporto sempre semplice con le istituzioni e la legittimità delle rivendicazioni LGBT deve essere ogni volta negoziata e ridefinita ancora oggi.

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