Approfondimento – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Il movimento lesbico in Italia: una conversazione con Nerina Milletti http://www.portalenazionalelgbt.it/il-movimento-lesbico-in-italia-una-conversazione-con-nerina-milletti/ Thu, 07 May 2015 07:04:00 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=3174 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nerina Milletti, studiosa lesbica e femminista, ha attraversato il movimento lesbico italiano dal suo inizio ad oggi. Le abbiamo fatto alcune domande per comprendere meglio la storia e le specificità di questo movimento rispetto agli altri.

Quando è nato il movimento lesbico in Italia? Quali sono stati i passaggi significativi che ne hanno segnato la storia?

E’ difficile datare in modo preciso la nascita del movimento lesbico. Il motivo principale è che ha sempre avuto due anime: l’una più legata al femminismo, l’altra all’identità omosessuale. Ci sono stati cioè due percorsi inizialmente paralleli: quello in cui prima veniva l’essere donna, sia nel senso di appartenenza che come posizionamento politico; l’altro in cui invece l’omosessualità era prioritaria rispetto alla declinazione di genere.

Le due diverse prospettive, nel corso del tempo, talvolta si sono intrecciate e talvolta si sono scontrate. Per esempio le donne che facevano parte di gruppi omosessuali accusavano le lesbiche che stavano nel movimento delle donne di non rivendicare il loro lesbismo e di nascondersi dietro l’etichetta di femminista, mentre le lesbiche femministe rimproveravano alle altre il disinteresse per i diritti e le lotte delle donne e di non capire che alla base di qualsiasi oppressione, anche quella omosessuale, stanno il sessismo e il sistema patriarcale. Certo è che alle lesbiche, in entrambi i movimenti, fu richiesto uno sforzo maggiore in termini di riflessione e di analisi perché finché non si differenziarono – in un caso dalle donne eterosessuali, nell’altro, dai gay maschi – la loro specifica soggettività non poteva emergere.

La data che segna l’inizio del movimento omosessuale è, convenzionalmente, quella della contestazione del convegno che era stato indetto a Sanremo il 5-6 aprile 1972 dal cattolico Centro Italiano di Sessuologia con lo scopo di avallare una proposta di legge che avrebbe reso l’omosessualità un reato. A segnalarlo e a creare le condizioni per organizzare la manifestazione di protesta fu proprio una donna – Maria Silvia Spolato – che nel 1971 aveva già fondato il gruppo FLO (Fronte di Liberazione Omosessuale) e che poi militò nel Fuori!.

Alla fine degli anni Settanta nacquero i primi gruppi lesbici: le Brigate Saffo a Torino, il gruppo Realtà Lesbica a Firenze e molti altri. Ma di un vero e proprio movimento lesbico si può parlare solo dal 1981, anno denso di eventi significativi, tra questi il fatto avvenuto ad Agrigento: due ragazze viste baciarsi in un giardinetto furono arrestate e a Roma venne organizzata una manifestazione in loro difesa, l’unica finora fatta in Italia per istanze specificatamente lesbiche. Nello stesso anno, sempre a Roma, viene fondato il CLI (Collegamento Lesbiche Italiane) che cominciò a pubblicare un bollettino per diffondere le notizie sui vari appuntamenti, la cultura e la politica lesbica; ricordiamoci che le informazioni a quei tempi potevano circolare solo attraverso la carta stampata. Come ho detto, anche se il 1981 fu un anno di grande importanza per il lesbismo separatista, prima non c’era il vuoto: erano state aperte le librerie delle donne, fondate case editrici, occupati spazi per le sedi dei gruppi, gestiti luoghi di ritrovo, tradotti e messi in circolazione testi del lesbismo radicale, organizzati seminari e convegni per incontrarsi e discutere. Nel decennio che arriva fino ai primi anni ’90, il movimento lesbico separatista fu estremamente produttivo e vitale, in controtendenza rispetto al movimento delle donne (eterosessuali) che aveva iniziato la sua parabola discendente già da un bel po’ di anni.

Hai fatto riferimento al separatismo, quali sono state le pratiche specifiche del movimento lesbico?

Il separatismo, inteso come necessità di avere spazi autonomi, per i motivi che ho detto, fu una scelta obbligata ancor prima che politica, sia per coloro che si riconoscevano nel femminismo (il separatismo era una caratteristica dei collettivi femministi, anche di quelli etero), sia di quante crearono momenti o gruppi separati di donne all’interno del movimento gay. Va sottolineato, infatti, che il separatismo è appunto una pratica, una strategia, un metodo di lavoro, non un obiettivo o una condizione da raggiungere. Nei gruppi femministi lesbici, almeno in quelli che conosco io, non vi era la pratica dell’autocoscienza in senso stretto poiché le urgenze erano diverse e forse più immediate: il riconoscimento reciproco, l’accettazione di sé, la visibilità.
La visibilità era l’altro pilastro: una visibilità che era sia quella a livello personale (indispensabile punto di partenza per dare valore e riconoscimento alle nostre relazioni d’amore e quindi a noi stesse), sia la presa di parola pubblica di un soggetto politico; quindi non la partecipazione a eventi pubblici decisi da altre o da altri, ad esempio le sfilate del Pride, che per lungo tempo sono state percepite come estranee alla proprie esigenze e priorità, né tanto meno le apparizioni in tv.
Gli argomenti dei seminari, i criteri di scelta dei film proiettati ai festival del cinema, i temi dei convegni, tutto veniva lungamente discusso prima nelle riunioni dei gruppi a livello locale poi le riflessioni fatte venivano riportate negli incontri nazionali. Sul solco del femminismo, ciò avveniva fuori dal principio di delega o di rappresentanza: ognuna parte da sé, perciò nessuna può parlare a mio nome. Si sperimentava un metodo decisionale diverso, difficile da concepire per chi pensa la politica in termini di maggioranze, di voti e di numeri. Non c’erano presidenti, non c’erano tessere, non c’erano portavoce; anche solo costituirsi in associazione, al tempo, era percepito come un processo di istituzionalizzazione assolutamente da evitare. Dovevi metterti in gioco, essere fisicamente presente, partecipare a tutte le fasi; dato che le riunioni venivano indette in città diverse, le donne si spostavano molto. Lo scambio reciproco di ospitalità era di prassi e facendoci entrare nelle loro case e nelle vite stesse, era un ulteriore modo per vedere e capire la realtà delle altre lesbiche.

Il riferimento al femminismo mi sembra molto significativo, qual è stato il rapporto tra questi due movimenti?

Bisogna fare una distinzione tra ‘femminismi’ (le diverse teorie che articolano un pensiero alla cui base sta la constatazione dell’ineguale trattamento di uomini e donne nella società) e il ‘movimento delle donne’, l’insieme che al suo interno contiene le tante, e spesso molto diverse, correnti. Quella che va sotto il nome di ‘pensiero della differenza sessuale’, per esempio, ha sempre marginalizzato l’esperienza lesbica, considerandola inessenziale a fronte dell’appartenenza di sesso, interpretandola come una riproposizione dell’ordine simbolico maschile o un puro comportamento sessuale, tanto che hanno sempre preferito connotare il legame tra due donne con la parola omosessualità. Per le lesbiche femministe come noi, la parola lesbica invece aveva (e ha) un valore politico che va oltre l’attrazione fisica per una persona del medesimo sesso e significa una donna che sceglie di dare prioritariamente le proprie energie emotive, sessuali, materiali ad altre donne. Con quella parte di femminismo c’è stata quindi una profonda distanza: c’era la sottovalutazione del valore esperienziale e cognitivo delle relazioni erotiche tra donne; dentro la categoria di Donna elaborata nel loro pensiero tutte le altre differenze sparivano, compresa quella di classe.
Rispetto ai rapporti con le altre femministe eterosessuali non si può generalizzare, c’erano molte differenze territoriali e probabilmente esistevano contesti e situazioni dove la reciproca attenzione e collaborazione non erano sempre possibili. Ma questa non è stata la mia esperienza personale: a Firenze ci riunivamo alla Libreria delle Donne che, sebbene fosse gestita principalmente da donne etero, ci riconosceva come soggetti politici e rispettava le nostre scelte, anche grazie alla presenza tra di loro di alcune donne lesbiche come Liana Borghi. Più in generale il femminismo (in particolare quello radicale) legittimò il lesbismo, rese possibile il suo impianto teorico e fornì occasioni che, come i grandi convegni di Pinarella o Paestum, furono importanti non solo per far emergere e discutere la specificità lesbica ma, per molte, anche per viverla.

E la relazione con il movimento gay e l’esperienza trans come si è articolata?

Come dicevo, alcune donne che facevano parte del movimento misto riconobbero la necessità di spazi separati a causa della misoginia e del sessismo che dimostravano taluni omosessuali maschi. Della sottovalutazione delle donne ne abbiamo prova guardando ad esempio le ricostruzioni storiche di quegli anni fatte da studiosi gay che hanno in un qualche modo rimosso o minimizzato il contributo femminile. Nella storia del Fuori!, ad esempio, Maria Silvia Sposato – che ho citato prima – fu una figura chiave di cui non si riconosce l’effettiva importanza; lo stesso vale per moltissime altre occasioni del movimento: se si guardano le foto, vediamo che le donne c’erano ma nessuno ne ricorda i nomi e nemmeno la presenza.
A parte alcune felici sinergie a livello locale, possiamo dire che in generale il movimento delle lesbiche, tra l’altro molto meno dotato di mezzi e risorse, ha avuto difficoltà a trovare un terreno comune con il movimento degli omosessuali per l’incomprensione che l’altra parte mostrava rispetto alle istanze e alle modalità politiche delle donne. La diffidenza nei confronti dei ‘fratelli’ gay non impedì però la collaborazione tra i due movimenti nel momento in cui l’epidemia di AIDS costringerà alla messa in campo di tutte le energie disponibili per fronteggiarne gli effetti; un’esperienza che porterà, se non sempre a modificare i rapporti di potere esistenti, a riformulare nuove alleanze tra lesbiche e gay e a mettere a punto obiettivi comuni per cui lottare insieme.

Anche per quanto riguarda le persone trans la relazione ebbe luci e ombre. Ci furono alcuni spiacevoli episodi legati alla pratica del separatismo quando alcune trans chiesero di entrare nella Casa delle donne a Roma o alla settimana lesbica a Bologna, così come di essere iscritte ad una mailing list lesbica, tutti luoghi dichiaratamente chiusi a chi non fosse di sesso femminile. Il rifiuto delle lesbiche, che rivendicavano il pieno diritto a decidere chi dovesse partecipare ad una loro iniziativa e pretendevano il rispetto per scelte che, giuste o sbagliate che fossero, erano loro, innescò una serie di polemiche e di reciproche incomprensioni che dalle singole persone coinvolte, che avevano agito a livello individuale senza prima cercare un confronto politico, si trasmise a più ampio raggio. A mio parere, incomprensioni dovute essenzialmente al fatto che trans e lesbiche fino ad allora si erano reciprocamente ignorate e non si erano mai dette il significato che rispettivamente attribuivano a concetti fondamentali quali sesso, genere, corpo, sessualità. Oggi le cose sono molto cambiate, dentro e fuori i movimenti LGBT; a maggior ragione l’esigenza di riflettere insieme sulle diverse esperienze identitarie, di incontrarci per sapere cosa oggi voglia dire essere lesbica, gay o trans e capire le possibili contraddizioni, limiti e possibilità che le tre diverse identità offrono, mi sembra sia ancora presente.

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Di cosa parliamo quando parliamo di Queer? Una conversazione con Cristian Lo Iacono http://www.portalenazionalelgbt.it/queer-un-termine-fluttuante-ma-non-troppo/ Wed, 06 May 2015 09:02:38 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=3116 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel dibattito scientifico, così come nell’attivismo, negli ultimi anni si è sempre più diffuso il termine ‘Queer’ quale ulteriore prospettiva per rendere conto della molteplicità degli orientamenti e delle identità sessuali. Per comprendere al meglio la genealogia di questo termine e i suoi molteplici significati ne abbiamo discusso con Cristian Lo Iacono, filosofo e curatore, insieme ad Elisa Arfini, di Canone Inverso – Antologia di teoria queer, edito da ETS.

Dal punto di vista etimologico, qual è l’origine ed il significato del termine queer?

Queer è un termine della lingua inglese per designare le persone omosessuali, in particolare ‘i maschi omosessuali effeminati’. Per lungo tempo si è trattato di un dispregiativo, di un insulto: ‘deviato, checca’. Dal punto di vista etimologico, in inglese il termine è attestato intorno al 1500 e significa ‘strano, particolare, eccentrico’. Molto probabilmente l’origine più remota è germanica. Infatti, in tedesco troviamo l’aggettivo quer, che ha il significato di ‘obliquo, perverso’. Anche il verbo to queer, in origine, ha un senso prettamente negativo che significa andar male, andare in rovina.

Dunque, prima ancora che avere un significato prettamente connesso con la sessualità deviante, il termine ha a che fare con la deviazione, e con la devianza in quanto tale. Solo successivamente, intorno agli anni venti, l’aggettivo si applica agli ‘omosessuali maschi effeminati’: il termine fu impiegato con questo significato nel 1925 dalla rivista teatrale americana “Variety”. Del resto, se il termine gergale per indicare l’uomo o la donna eterosessuale è, in inglese, straight, che vuol dire ‘diritto’, ‘giusto’, ‘convenzionale’, per opposizione l’omosessuale, e in generale chi devia dalla norma eterosessuale, deve essere ‘queer’. Ciò che è interessante notare è che il dualismo tra norma e devianza, da un lato, non è una semplice contrapposizione, ma è fondato su un giudizio di valore (positivo contro negativo, buono contro cattivo, ecc). Dall’altro, è interessante notare che questo dualismo ha un duplice aspetto: da un lato oppone eterosessualità (corretta) a omosessualità (scorretta), dall’altro, oppone maschilità (corretta) a femminilità (scorretta).

Negli ultimi vent’anni, però, il termine queer ha assunto un significato differente e, per esempio, ad oggi la teoria queer è riconosciuta come vero e proprio campo di studi. Quando è iniziato questo processo? E, quali sono i principali aspetti di questo approccio teorico?

Sì, ad oggi il termine queer identifica un campo di studi ampio ed interdisciplinare sulle questioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere, ma anche alla loro intersezione con gli altri possibili posizionamenti identitari come la classe sociale, la provenienza geografica, la disabilità, eccetera.

Per la sua ‘data di nascita’ abbiamo una data certa, ovvero il 1991, anno in cui fu pubblicato un numero speciale della rivista accademica americana “Differences”, curato da Teresa de Lauretis. Nell’introduzione al fascicolo, de Lauretis parla esplicitamente di queer theory come di un campo di studi sulle sessualità lesbiche e gay, ma anche di impegno teorico-pratico in cui le esperienze e i saperi di gay e lesbiche possano finalmente incontrarsi dopo anni di sviluppo quasi parallelo e di vita poco condivisa tra le due soggettività. Successivamente è stata la filosofa statunitense Judith Butler a consolidare il campo della teoria queer, conducendo la riflessione sulle complesse connessioni tra genere, corpo e orientamento sessuale e invitandoci ad abbandonare definitivamente una visione essenzialista delle identità e delle sessualità – ovvero una visione che fa ricorso alla ‘natura’ o ‘all’essenza’ degli individui per spiegarne comportamenti, emozioni, pratiche e posizioni sociali differenziati.

Un’ulteriore prospettiva teorica queer viene dal mondo gay maschile e si è focalizzata sulla messa in discussione della cosiddetta ‘omonormatività’ che, riprendendo il ben più noto termine eteronormatività, definisce l’aspetto normativo (e, di conseguenza, escludente) della cultura omosessuale dominante. Se, dunque, negli ultimi quarant’anni la norma (etero)sessuale ha avuto uno spostamento, non è stata decostruita: semplicemente ha incluso una parte dei comportamenti e degli stili di vita una volta considerati non degni di riconoscimento (come quelli di alcune specifiche modalità di essere gay o lesbica) escludendone altri, escludendo cioè quei soggetti che per modo di essere, condizioni culturali o economiche, non arrivano a quello standard o lo rifiutano.

Per quanto riguarda l’attivismo ed i movimenti LGBT quando si diffonde una prospettiva queer?

Sul piano dell’attivismo politico, il termine queer, viene adottato consapevolmente negli stessi anni a cavallo tra la fine degli anni ottanta e i primissimi anni novanta. Potremmo dire che designa la messa in pratica di quelle aspirazioni a cui de Lauretis e altri accennavano: fronte comune tra gay e lesbiche e attenzione alle differenze interne. Nasce la strategia che verrà detta della ‘intersezionalità’ delle lotte, che consiste nella rinuncia alla rappresentazione dei soggetti, gay, lesbiche e trans, come soggetti unitari e monodimensionali. Le persone LGBT non sono tutte uguali e sono diversamente posizionate all’interno della società in base a diverse ‘appartenenze’, spesso in conflitto tra loro. Per fare un esempio: cosa è il lesbismo per una donna nera? Oppure, cosa significa essere gay per un disoccupato che non riesce a stare al passo con il modello consumistico della ‘comunità’ gay, fatta di locali e di mercificazione del look? Concretamente, a partire dagli Stati Uniti, queste nuove alleanze si sono formate in un contesto di forte recrudescenza dell’omofobia conseguente all’esplosione dell’epidemia dell’AIDS. Il primo attivismo queer, infatti, è nato attorno alle ‘azioni dirette’ dei gruppi di gay, lesbiche e trans per rivendicare dignità e per costruire delle reti di protezione per le persone (in maggioranza gay) che stavano morendo una dopo l’altra.

In sintesi, oggi cosa designa il termine queer?

In un certo senso queer è venuto a sostituire il termine ‘omosessuale’, ma anche ‘gay’, ‘lesbica’, ‘transessuale’, ‘transgender’, quando si vuole usare un termine per designare la rottura con la norma eterosessuale. All’interno del contesto delle diversità sessuali ha assunto uno specifico significato che vuole mettere in discussione la distinzione tra sesso, orientamento sessuale e genere e che ci ricorda quanto articolati e complessi sono i differenti aspetti che compongono le identità.

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Sessualità plurali: breve viaggio storico del farsi sociale della sessualità http://www.portalenazionalelgbt.it/sessualita-plurali-breve-viaggio-del-farsi-sociale-della-sessualita/ Fri, 06 Feb 2015 11:14:16 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2547 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nelle vicende della civiltà occidentale cristiana, la sessualità degli individui è stata per lungo tempo una dimensione silenziosa autorizzata alla parola unicamente all’interno di un codice morale, a sua volta espressione di un consolidato orientamento dottrinale in cui l’unica relazione intima lecita di coppia era costituita da rapporti eterosessuali, vissuti rigorosamente entro i confini del matrimonio e finalizzati esclusivamente alla procreazione. Tutto ciò che si collocava al di fuori di questo rigido scenario – l’omosessualità, le relazioni al di fuori del vincolo coniugale, le pratiche erotiche non orientate alla riproduzione – rappresentava un pericoloso dis-ordine etico e sociale inconciliabile con quel modello tradizionale di società ritenuto il solo in grado di rispettare l’ordine divino e garantire la salvezza dell’anima.

Dalla seconda metà del 1800 al discorso religioso ha cominciato ad affiancarsi il discorso medico che sottrasse la sessualità dall’ambito della morale per consegnarla alla Scienza. I neo-nati studiosi di sessualità cominciarono a sviluppare un nuovo linguaggio scientifico per catalogare e valutare il comportamento sessuale e per trovare motivazioni ‘scientificamente fondate’ alle diverse forme con cui esso si esprime. Un testo che esprime in pieno lo spirito dell’epoca è “Psycopathia Sexualis”, pubblicato nel 1886 dallo psichiatra austro-tedesco Richard von Krafft-Ebing, dove l’autore – attraverso l’analisi delle biografie sessuali dei suoi pazienti – offre una catalogazione di diverse pratiche sessuali, dal feticismo fino ai rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso, identificandole come patologie.

Letto con gli occhi del XXI secolo, il sessismo, l’omofobia e l’ingenuità delle argomentazioni ‘scientificamente fondate’ con cui Krafft-Ebing analizza i comportamenti dei suoi pazienti possono finanche strappare un sorriso. Restano tuttavia emblematiche del passaggio from badness to sickness – come l’hanno definito nel 1980 Peter Conrad e Joseph Schneider nell’omonimo libro – ovvero di quel passaggio dalla concezione morale dei comportamenti sessuali ad una loro concettualizzazione come malattia.

Non si trattò, chiaramente, di un passaggio moralmente neutro, anzi, medici e psichiatri dell’epoca tradussero in termini scientifici la medesima concezione morale della sessualità di stampo religioso al cui apice della gerarchia era collocata l’eterosessualità generativa; in questo caso, non in quanto comportamento moralmente giusto, ma in quanto unico comportamento fisiologicamente sano.

Se possiamo trovare un aspetto positivo alla nascita del paradigma medico è quello di aver sottratto la sessualità dall’ambito esclusivo del privato e della religione e di aver aperto un varco per farne oggetto di discorso pubblico. Dovremo, tuttavia, aspettare il novecento perché le scienze sociali (e non mediche) comincino ad interessarsi di corpi e di sessualità e a definirli come il prodotto di una costruzione sociale le cui rappresentazioni e le cui pratiche variano al variare dell’organizzazione e del contesto sociale (Sassatelli, 2002).

Ad iniziare questo percorso furono i sociologi della Scuola di Chicago, ovvero gli studiosi che negli anni ’20 del novecento si ritrovarono al Dipartimento di Sociologia e Antropologia della Chicago University. Obiettivo scientifico complessivo della Scuola di Chicago era studiare la città metropolitana come emblema delle trasformazioni e degli assetti della società contemporanea attraverso un approccio ecologico che prendeva in considerazione le storie di vita dei singoli individui, la collocazione degli individui all’interno della propria comunità di riferimento e il ruolo che la comunità (ovvero la società nel suo complesso) giocava tanto nell’elaborazione dei comportamenti quanto nella visione che gli attori sociali avevano degli stessi, come normali o devianti, leciti o illeciti, positivi o negativi.

Entro questo più ampio progetto sociologico, gli studiosi di Chicago dedicarono attenzione anche allo studio della sessualità e delle identità sessuali nello scenario urbano. Robert Park (1925) nel suo famoso studio sulla città identificò delle ‘regioni morali’ ovvero degli spazi urbani dove gli individui si ritrovano attorno a medesimi desideri, pratiche o identità sessuali costruendo il proprio ‘mondo sociale’ o, come verrà chiamata in seguito, ‘subcultura sessuale’, senza che essa si identificasse o dovesse essere identificata come immorale o patologica. Nascono così i primi studi sui luoghi di incontro tra uomini dove il fuoco d’analisi non è il giudizio morale sui comportamenti, ma il comprendere le regole e le pratiche sociali che la comunità gay studiata si era data per identificarsi e costruirsi in quanto comunità. Seppur, dunque, spesso nelle parole dei sociologi di Chicago riecheggi il linguaggio ereditato dalla psicanalisi freudiana e dalla sessuologia clinica e la loro cornice di riferimento resti la nozione di devianza, è a loro che dobbiamo la consapevolezza che le pratiche e le identità sessuali sono il frutto delle interazioni sociali tra gli individui e che come tali – non come caratteristiche innate e intrinseche degli individui – devono essere analizzate.

Vent’anni dopo, non troppo lontano da Chicago, all’Università di Bloomington nell’Indiana, il biologo Alfred Kinsey diede il via alla ricerca destinata a destabilizzare una volta per tutte la nozione di sessualità sia come terreno della morale che come ambito della malattia per restituirla alla pluralità delle esperienze, delle pratiche e delle identità umane.

Kinsey non nasce come studioso di sessualità, ma come esperto nella tassonomia e analisi delle vespe delle galle su cui realizzò negli anni venti il suo dottorato di ricerca ad Harward. Arrivato come professore all’Università dell’Indiana, tuttavia, decise di allargare il suo campo di studi alla sessualità umana applicando il medesimo metodo empirico utilizzato in precedenza per gli insetti: raccogliere prove sul campo, verificare di prima persona, catalogare le diverse evidenze raccolte.

Iniziò così la sua ricerca sulla sessualità negli Stati Uniti dapprima facendo compilare questionari sui loro comportamenti sessuali agli studenti e alle studentesse che frequentavano il corso “Marriage and the Family” istituito nel 1938 e, successivamente, attraverso la realizzazione di 18.000 interviste in profondità con uomini e donne adulti residenti in ogni angolo degli Stati Uniti grazie ai contributi economici ottenuti tra il 1941 e il 1947 dal Committee for Research in the Problems in Sex finanziato dalla Fondazione Rockfeller.

Per l’America dell’epoca, che viveva in pieno maccartismo e conservatorismo sociale, la pubblicazione dei volumi “Sexual Behaviour in the Human Male” (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948) e “Sexual Behaviour in the Human Female” (Il comportamento sessuale della donna, 1953) furono un vero e proprio shock culturale. Il cosiddetto “Rapporto Kinsey” – come vengono informalmente chiamati i due volumi – restituiva uno scenario di comportamenti e pratiche sessuali ben diverso da quello considerato ‘naturale’ e, dunque, socialmente accettabile nel discorso pubblico: la masturbazione, i rapporti pre-matrimoniali, il sesso orale così come l’omosessualità risultarono diffusi in percentuali estremamente significative nelle esperienze di vita degli intervistati tanto da mettere in discussione l’esistenza stessa di una ‘normalità’ sessuale. Ed in questo caso – diversamente dagli studi condotti dalla scuola di Chicago – non si trattava di un’analisi su gruppi sociali categorizzabili come devianti, ma di un campione estremamente ampio di americani e americane appartenenti sia a diverse classi sociali che a diversi gruppi etnici.

Tra i molteplici risultati di ricerca prodotti dallo studioso ed i suoi collaboratori, particolare risalto ha avuto la cosiddetta ‘scala di Kinsey’ ovvero uno strumento di valutazione per identificare l’orientamento-sessuale degli individui. Analizzando le esperienze e le fantasie di uomini e donne, Kinsey si rese conto che le categorie di eterosessuale ed omosessuale – fino ad allora considerate come attributi dicotomici e oppositivi dell’identità (l’una naturale, l’altra patologica) non erano efficaci per descrivere l’estrema variabilità di posizionamenti che gli individui potevano assumere nel corso della loro vita, ma che l’orientamento sessuale si articola su un continuum che, sebbene abbia l’omosessualità e l’eterosessualità esclusiva ai suoi estremi, prevede moltissimi posizionamenti intermedi. Come afferma lo stesso Kinsey: «gli uomini non sono divisibili in due popolazioni discrete, l’eterosessuale e l’omosessuale. Il mondo non deve essere diviso in pecore e capre … Il mondo vivente è un continuum in ognuno di questi aspetti».

Sebbene Kinsey non avrebbe utilizzato queste parole, possiamo sostenere che da allora va consolidandosi una visione della sessualità come costruzione sociale che trovò espressione compiuta a partire dagli anni ’60, complice anche la nascita del femminismo e del movimento LGBT. Le pratiche e le identità sessuali che parevano essere un dato immutabile nel tempo vengono da allora interpretate come il prodotto di precise configurazioni storiche sottoponendo a critica le nozioni di normalità e devianza sessuale e cominciano ad essere oggetto di analisi subculture sessuali che si pongono al di fuori dalle norme sociali sulla sessualità. Si impone la visione secondo cui gli atti sessuali e i partner sessuali, così come tutti i s/oggetti con cui gli esseri umani entrano in relazione, sono oggetti sociali e che, dunque, essi assumono il significato che gli individui di precisi gruppi gli attribuiscono, piuttosto che avere un significato ‘naturale’ che precede e indirizza i comportamenti sessuali (Gagnon e Simon, 1973 ).

La nascita di questo nuovo paradigma interpretativo ha permesso di spostare lo sguardo sociologico dalle cosiddette ‘minoranze sessuali’ verso ‘la maggioranza’ e di analizzare le pratiche e le istituzioni che nel corso dei secoli hanno naturalizzato l’eterosessualità, rendendola la categoria sessuale e identitaria dominante portando così alla marginalizzazione di tutte le altre espressioni sessuali e affettive degli individui (Katz, 1995 ).

Bibliografia

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Omosessualità & Disabilità: doppia discriminazione o doppia risorsa? http://www.portalenazionalelgbt.it/omosessualita-disabilita-doppia-discriminazione-o-doppia-risorsa/ Mon, 19 Jan 2015 12:06:43 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2317 A cura di Priscilla Berardi, medico e psicoterapeuta sistemico-relazionale, sessuologa.

A partire dagli anni ’70 si è assistito ad un radicale cambiamento nel modo di concepire la disabilità, che è passata dall’essere malattia, spesso ostracizzata dalla società, all’essere una condizione frutto dell’incontro-scontro tra fattori biologici, psicologici e sociali, elementi intrinseci ed estrinseci alla persona.
La disabilità, in base a questo modello, può riguardare qualunque individuo, che diviene disabile qualora non gli vengano forniti gli strumenti personali e ambientali utili al manifestarsi delle proprie potenzialità e risorse.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha siglato il cambio di prospettiva nel 2001 con la “Classificazione Internazionale del Funzionamento e della Salute”. In Italia, parimenti, la chiusura dei manicomi, la nascita di Leggi che garantissero la tutela sul lavoro e l’integrazione scolastica e sociale, l’introduzione dell’insegnante di sostegno per gli/le alunni/e con disabilità, ha portato ad un graduale mutamento nella percezione della disabilità da parte della società, nella direzione di una maggiore accoglienza e inserimento della persona disabile in seno alla comunità di appartenenza.
Gli ultimi cinquant’anni non cancellano però secoli di storia in cui la persona con disabilità è vissuta ai margini, denigrata, sottovalutata, inascoltata, quando non eliminata. Ancora oggi abbiamo difficoltà a riconoscere alla persona disabile tutte le caratteristiche dell’essere Umani, prima fra tutte la sessualità. La cultura moderna occidentale amplifica poi questa difficoltà pretendendo un’omologazione che appiattisce tutti gli individui in schemi rigidi e indiscutibili, che non ammettono differenze e in cui la diversità è vissuta come una colpa: quella dell’uscire dalle regole, del non sottomettersi ai criteri di giudizio e ai canoni estetici e di comportamento imperanti. Gli outsider delle gerarchie, insomma.
Eppure l’identità sessuale segue per tutti/e, disabili e non, gli stessi percorsi di sviluppo, risultando in una sessualità unica, universale, fatta per tutti/e delle stesse componenti, una sessualità che per i/le disabili non è speciale nei contenuti o nella forma, ma nel suo riconoscimento e nella possibilità di essere vissuta. Così, poiché lo sviluppo psichico – cognitivo ed emotivo – passa attraverso l’esperienza corporea, avere avuto la possibilità di sperimentare, fin dall’infanzia, la propria fisicità attraverso esperienze corporee piacevoli, attraverso un buon contatto con l’altro, avere imparato che cosa il proprio corpo può dare e ricevere, i suoi limiti e le sue risorse, al di là delle manipolazioni terapeutiche e degli esami diagnostici e strumentali, in rapporti fatti di accoglienza e rispetto reciproco, permette di maturare una buona percezione di sé, una buona immagine da proporre con sicurezza agli altri, un’integrazione tra la mente e il corpo.
Purtroppo, spesso, quel contatto piacevole viene negato alla persona disabile, che finisce per conoscere meglio i propri deficit che le proprie potenzialità e si identifica più con le proprie inadeguatezze che con le proprie capacità. Spesso l’autonomia viene limitata più di quanto non lo sia già, vengono bloccate quelle sperimentazioni e quelle prove che consentirebbero il rispetto delle varie fasi di crescita del soggetto fino ad un’entrata consapevole nel mondo adulto, che non è fatto solo di lavoro, barriere architettoniche, assistenza, cibo e bisogni fisiologici, ma anche di contatti interumani e costruzione di relazioni. Come quello di chiunque altro/a. In questa rimozione della dimensione amorosa e sessuale, si assiste ad una sorta di angelizzazione e infantilizzazione della persona disabile, che viene ‘tenuta piccola’, priva di iniziativa e così socialmente innocua. La privacy e l’intimità non vengono rispettate, non solo per esigenze pratiche di accudimento ma anche e soprattutto per una miopia dei bisogni di un proprio spazio e di raccoglimento, stupendosi poi se si verificano sfacciati episodi di esibizionismo o corteggiamenti pressanti. Di fronte all’espressione del desiderio, la risposta più frequente è il controllo, la regolamentazione, la repressione degli impulsi. Spesso, le uniche alternative che si pensa di poter percorrere sono la masturbazione e la prostituzione per i maschi e la sublimazione di ogni pulsione per le femmine. Che la disabilità sia fisica o sensoriale o psichica, vengono guardate con imbarazzo e sospetto tutte quelle affermazioni e quelle fantasie che proiettano il/la disabile nel futuro e in un legame con un’altra persona, ancor più se si tratta di genitorialità e procreazione. Ancor prima del/della disabile, ad essere impreparati a riconoscere il percorso maturativo sessuale della persona con disabilità sono le famiglie e gli operatori / le operatrici, già in difficoltà con i propri insoluti e con i propri vissuti sessuali, inconsapevoli prigionieri dei loro stessi stereotipi culturali e pregiudizi, inabili a gestire quelle emozioni che il rispecchiamento nelle frustrazioni dell’altro/a sollecita. Il risultato è che la sessualità alle persone disabili sembra essere concessa, calata dall’alto, come un diritto legislativo e non come un’essenziale e naturale componente già insita nella persona.

Che accade, dunque, se la persona disabile è omosessuale o bisessuale o transessuale?
L’inimmaginabile e l’indicibile si moltiplicano. Negli interrogativi di alcuni curiosi, «Sei diventato/a gay o lesbica a seguito dell’incidente?», «Sei gay o lesbica a causa della tua malattia?», «Scommetto che è omosessuale perché nelle sue condizioni non poteva ambire a niente di meglio» [l’eterosessualità], sono già racchiusi ed esplicitati tutto il pregiudizio e tutta l’ignoranza sulla disabilità e sull’omosessualità. Nell’ultimo decennio si sono occupate dell’argomento, per la prima volta in Italia, due indagini psicosociali su scala nazionale e un film documentario.
Nel 2007 sono stati pubblicati online i risultati di “Abili di cuore”, una ricerca di Berardi, Lelleri, Chiari, condotta da Arcigay in collaborazione con CDH Bologna e Centro Bolognese di Terapia Familiare. L’indagine aveva raccolto le testimonianze dirette di 25 persone disabili gay e lesbiche in tutta Italia, tra i 24 e i 60 anni di età, ed esplorava i quattro contesti principali di vita significativi per gli/le intervistati/e: socio-sanitario; familiare e sociale, relativi allo svelamento dell’omosessualità e al proprio vissuto in merito alla disabilità; associativo e comunitario, in riferimento sia all’ambito LGBT, che a quello handicap; affettivo/sessuale e di coppia.
Dalle interviste raccolte, è emerso come disabilità e omosessualità siano due cornici identitarie molto forti il cui amalgama può risultare in una varietà di distinte combinazioni. La persona disabile omosessuale può sentirsi doppiamente discriminata e vivere un elevato livello di disagio psicologico in una sorta di sommatoria delle problematiche, ma può anche raggiungere una piena consapevolezza e sicurezza di sé come disabile e libertà nell’esprimere il proprio orientamento sessuale. A volte, avere accettato convintamente una delle due componenti identitarie permette, per estensione, l’accettazione dell’altra, come se l’immersione nell’esperienza di ‘sentirsi diversi’ per un motivo e l’acquisizione degli strumenti necessari a far fronte allo stress della situazione insegnassero ad accogliere se stessi/e in ogni forma del proprio essere. Talvolta, invece, una delle due cornici prevale sull’altra, perché percepita più problematica o perché fonte di maggiore orgoglio, e la persona può descriversi come più disabile o più omosessuale.
La percezione delle difficoltà legate alla disabilità non è comunque direttamente proporzionale alla gravità della patologia riportata: alcune persone con disabilità oggettivamente meno invalidanti riferiscono una sofferenza soggettiva ed una compromissione del funzionamento socio-relazionale maggiore di persone con disabilità più inabilitanti. Il coming out più difficile dell’omosessualità è quello intrafamiliare, per la preoccupazione di accrescere il dolore già arrecato con la disabilità o il timore di perdere le cure necessarie, mentre fuori dalla famiglia può rendersi faticoso il coming out di una disabilità non evidente.
Per la persona con disabilità fisica importante, l’assenza di autonomia riduce la possibilità di frequentare luoghi di ritrovo LGBT dal momento che sarebbe necessario dichiarare il proprio orientamento ad un/a eventuale accompagnatore o accompagnatrice. Questo impone un’eventuale rottura della privacy o riduce drasticamente le occasioni di incontro e frequentazione di eventuali partners affettivi e/o sessuali. Complicato risulta anche il rapporto con le associazioni per disabilità, accusate di non tenere in debita considerazione la sessualità dei/delle disabili e di stigmatizzare l’omosessualità, e con le associazioni LGBT, per le quali la disabilità sembra un pianeta lontano e non esiste lotta alle barriere architettoniche. I disabili gay e lesbiche finiscono dunque per interrogarsi sui propri punti di riferimento e sull’appartenenza a questi due mondi.
Elevata drammaticità assume spesso il rifiuto da parte di potenziali partner affettivi e sessuali. E se per non vedenti e non udenti le cose sembrano più semplici perché non si è sottoposti a limitazioni motorie e l’accesso ai locali è meno problematico, le difficoltà nell’approccio e nell’incontro non si esauriscono qui, ma iniziano nella comunicazione con persone abituate a udire, che non conoscono la lingua dei segni, nell’inquinamento acustico dei locali che riduce la possibilità dei/delle non vedenti di sentire e nella poca illuminazione che limita la lettura del labiale per i/le non udenti. Eppure, quando l’incontro è fortunato ed è fatto di maturità, complicità e sensibilità, una volta superati gli ostacoli pratici, organizzativi, comunicativi e soprattutto mentali, una volta che la persona disabile omosessuale raggiunge un’immagine di sé positiva, le coppie che riescono a formarsi escono da un’idea di performance e di standardizzazione del rapporto sessuale e ricercano e scoprono pratiche sessuali alternative ugualmente appaganti per la coppia. La disabilità è ritenuta irrilevante o arricchente nella relazione duratura e nella condivisione quotidiana di affetto ed esperienze. Sono specialmente le donne lesbiche a parlare di un maggior grado di accoglienza della propria disabilità da parte del mondo omosessuale femminile.

Parte di questi risultati è stata riconfermata dall’indagine “Identità ad ostacoli” di Berardi, Guarnieri, Lelleri col sostegno di Arcigay Cassero LGBT center di Bologna, presentata al Convegno “Per una disabilità sostenibile” (Napoli, 5-6 giugno 2013). La ricerca, condotta su un campione autoselezionato, su tutto il territorio nazionale, esplora il rapporto tra operatori/operatrici e pazienti/assistiti/e LGB con disabilità. Le opinioni raccolte sono quelle di 20 pazienti LGB e 43 operatori/operatrici del settore sanitario, educativo e assistenziale. Le richieste rivolte alle associazioni e le mancanze sottolineate in esse sono immutate rispetto al 2007. Il timore delle persone LGB con disabilità a dichiararsi omosessuali all’interno dei Servizi e con gli/le operatori/operatrici riguarda la possibilità di ricevere un trattamento di serie B o un cambio di atteggiamento in negativo dell’operatore o dell’operatrice. Chi si è reso/a visibile come omo-bisessuale con almeno uno/a dei propri operatori/delle proprie operatrici ha però sperimentato accoglienza ed empatia. La professionalità è conservata. Anche gli operatori e le operatrici dichiarano di sentire un atteggiamento positivo verso i/le pazienti disabili LGB, potenziali o realmente conosciuti/e. La scarsa conoscenza sulle tematiche LGBT e sul binomio sessualità-disabilità è ammessa con umiltà, accanto al desiderio di ricevere formazione su di esse e all’idea che, comunque, le proprie conoscenze e caratteristiche personali siano più importanti delle abilità e competenze professionali nell’approccio a un/a paziente disabile LGBT. Un elemento preoccupante è nuovamente quello della violazione della privacy, ‘a fin di bene’, che mostra come la persona disabile sia immaginata come destinata a condividere tutto di sé con i propri familiari, nell’ottica di una tutela e di una desessualizzazione e infantilizzazione dell’individuo.

In questo panorama, appaiono totalmente dimenticate le persone transgender/transessuali con disabilità. In Italia, al momento, non esistono conoscenze né sono stati intrapresi studi che facciano luce su come queste persone vivano la loro identità sessuale e di disabile e che approfondiscano lo stretto rapporto col proprio corpo e con la propria immagine di sé.

L’ultima fotografia che ci rimane di questo tema è quella scattata dal documentario del 2013 “Sesso, Amore & Disabilità” di Silanus, Berardi, Lelleri, Alpi, Mastellari. Del folto gruppo di persone etero ed omosessuali intervistate, colpisce l’assenza di donne lesbiche disabili disponibili a raccontarsi pubblicamente – le cui motivazioni sarebbe interessante approfondire – mentre gli uomini gay disabili forniscono un racconto stimolante, aperto, equilibrato e rassicurante della loro storia relazionale. Chi ha più probabilità di avere successo nelle relazioni sembrano essere le persone che si mettono più in gioco, quelle disposte a rischiare e a ricevere rifiuti che le faranno soffrire ma pronte a rialzarsi e ricominciare. Sono le persone che hanno raggiunto una buona consapevolezza di sé e sono riuscite ad integrare tra loro tutte le parti della propria identità e ad affermare con convinzione i propri bisogni impegnandosi con chi era in grado di comprenderli, ascoltarli e condividerli. E’ cosa comune a chiunque nel mondo, ma nella disabilità questo dato viene evidenziato e accentuato.
Senz’altro ancora molta strada va comunque fatta perché le persone disabili LGBT possano sentirsi riconosciute come persone complete e non debbano più lottare per dimostrare l’ovvio.

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Il lavoro in rete tra le amministrazioni locali e l’associazionismo LGBT: linee guida e buone prassi http://www.portalenazionalelgbt.it/amministrazioni-locali-e-associazionismo-lgbt-in-rete-linee-guide-e-buone-prassi/ Tue, 16 Dec 2014 09:05:29 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2190 In questi ultimi anni le amministrazioni locali hanno avuto un importante ruolo nella realizzazione di politiche inclusive ed antidiscriminatorie  nei confronti delle persone LGBT,  finalizzate alla promozione dei diritti.

Tali politiche ed interventi si sono concretizzati mediante la collaborazione e la creazione di reti fra i diversi livelli di governo (Regioni, Province, Comuni, ecc..), ed attraverso azioni di sussidiarietà orizzontale. Infatti Regioni ed enti locali hanno creato reti di cooperazione con l’associazionismo di settore lavorando in sinergia con esso per la rimozione delle cause di discriminazione dando impulso al riconoscimento dei diritti fondamentali.

Le esperienze degli ultimi anni delle regioni e degli enti locali in questo ambito sono state oggetto di diverse ricerche – realizzate a livello europeo e consultabili attraverso i link sottostanti – che, oltre ad una analisi di contesto, forniscono un quadro delle buone pratiche e dei progetti esistenti, un’analisi comparativa con le esperienze esistenti a livello internazionale ed europeo e l’elaborazione di ipotesi di replicabilità di tali interventi nel contesto italiano.

In particolare, si evidenziano le ricerche realizzate da Avvocatura per i diritti LGBTI / Rete Lenford,  commissionate e finanziate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento pari opportunità ( a valere su PON “Governance e Azioni di Sistema” – Obiettivo Convergenza – Asse pari opportunità e non discriminazione FSE 2007-2013) “Realizzazione di uno studio volto all’identificazione, analisi e trasferimento di buone prassi in materia di non discriminazione nello specifico ambito dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere” e “Le buone pratiche antidiscriminatorie a livello internazionale nello specifico ambito dell’orientamento sessuale”.

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Si segnalano, inoltre:

Si evidenzia, inoltre, che alcuni Comuni, proprio al fine di mettere in campo azioni di contrasto alla discriminazione e politiche di promozione dei diritti delle persone LGBT,  hanno svolto, anche con la collaborazione di Università o altri enti scientifici di ricerca, specifici studi sul territorio per l’individuazione dei bisogni della popolazione LGBT, e su quale sia l’approccio da parte dei propri/e dipendenti alle tematiche di settore. A tal riguardo si ricordano:

Infine, è importante ricordare che in Italia è operante la “Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazione anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere” (rete RE.A.DY). Fondata nel 2006 dalla Città di Torino, insieme al Comune di Roma, la Rete ha l’ obiettivo di promuovere politiche pubbliche per  i diritti della popolazione LGBT e di diffondere le buone pratiche sul territorio nazionale. Possono aderirvi gli enti locali e regionali e le istituzioni e gli organismi di parità.

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Terza età LGBT: una conversazione con l’associazione Lambda http://www.portalenazionalelgbt.it/terza-eta-lgbt-una-conversazione-con-lassociazione-lambda/ Mon, 15 Dec 2014 10:52:17 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2237 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel 2013 nella città di Torino è nato lo Sportello Terza Età dell’Associazione Lambda: la prima associazione che, in Italia, promuove servizi per l’inclusione ed il sostegno delle persone anziane LGBT in accordo con il Comune di Torino e con il Centro Servizi per il Volontariato Idea Solidale. Ne abbiamo discusso con Enzo Cucco, presidente dell’Associazione nata nel 20051.

Quali sono le ragioni che vi hanno spinto ad affrontare la questione dell’invecchiamento delle persone LGBT?

Le rispondo con una tautologia: perché noi stessi stiamo invecchiando e in questa risposta è contenuto il motore che ha dato vita a questo progetto. L’associazione Lambda, infatti, è stata fondata proprio da un gruppo di persone anziane che nel corso della loro vita hanno fatto parte del movimento per i diritti LGBT a partire dalla consapevolezza – anche biografica – che questa fase della vita merita un’attenzione specifica. La popolazione tutta sta invecchiando e la vecchiaia espone gli individui a maggiori rischi di vulnerabilità sociale di cui è necessario farsi carico. Le persone gay, lesbiche e trans – rispetto alla popolazione eterosessuale – possono essere esposte a maggiore solitudine, isolamento e fragilità sociale ed è proprio a questi ‘nuovi’ bisogni che il progetto vuole rispondere.

Per quali ragioni le persone LGBT possono essere esposte a maggiore vulnerabilità nella terza età?

La solitudine e l’isolamento sono inversamente connessi alla solidità delle reti sociali, personali e di autonomia costruite nel corso della vita. La condizione omosessuale o transessuale – soprattutto quando non dichiarate nel corso della vita o vissute in una condizione di parziale visibilità – possono rendere queste reti più fragili e, nel momento della vecchiaia, produrre una maggiore solitudine. Ciò non significa, chiaramente, che tutte le persone anziane LGBT siano più vulnerabili o isolate dei coetanei eterosessuali, ma che orientamento sessuale e identità di genere – in specifiche condizioni di vita – possono creare maggiori difficoltà ed esporre a discriminazioni e vulnerabilità.
A questo si aggiunge, anche nei servizi per la terza età, il persistere di pregiudizi e stereotipi nelle pratiche degli operatori e delle istituzioni: questo elemento – spesso più invisibile che in altri contesti o istituzioni – funge da meccanismo discriminante verso gli anziani LGBT e ostacola reali processi di inclusione.

Quando avete iniziato a pensare questo progetto avete dato uno sguardo a cosa succede all’estero? Ci sono esperienze di particolare rilievo che vale la pena segnalare?

Si, abbiamo chiaramente studiato quello che si muove in Europa e nel mondo.

Vi sono principalmente due tipologie di esperienze nel panorama mondiale: la prima è composta da associazioni di persone anziane gay, lesbiche e trans che si prefigurano come punto di incontro, scambio e advocacy dei diritti delle persone LGBT nella terza età. Di questo tipo sono i Gruppi Senior LGBT Arcigay di Modena, Bologna e Rimini nati l’anno scorso oppure il progetto “Angelo Azzurro” del Circolo Mario Mieli di Roma, appena avviato. Una seconda tipologia di esperienze – a cui fa riferimento la nostra associazione – è formata sia da persone gay, lesbiche e trans anziane che da persone giovani o adulte e promuove servizi e assistenza per persone LGBT in situazione di difficoltà.
Oltre all’esperienza dell’associazionismo, all’estero da alcuni anni si sono sviluppati dei progetti che hanno a che fare con l’assistenza residenziale, anche in questo caso di due nature. In alcuni paesi – per esempio l’Inghilterra, la Germania e la Svizzera – si sono sviluppate o si stanno progettando delle vere e proprie case di riposo per persone LGBT con tutte le caratteristiche di assistenza sociale e sanitaria che caratterizza tali strutture. A mio avviso, però, non si è trattato di esperienze di grande successo. Più interessanti, infatti, sono le esperienze di housing sociale sviluppate non tanto sulla questione della terza età o del bisogno di cura in senso stretto, ma sulla condivisione di spazi e di sostegno o tra persone che vivono la medesima condizione relazionale (per esempio persone single) o tra generazioni diverse (per esempio persone anziane e giovani). A Colonia, per esempio, c’è un’esperienza molto interessante di social housing intergenerazionale dove persone anziane LGBT condividono la casa con persone giovani che hanno temporaneamente bisogno di un alloggio, quali giovani LGBT appena usciti dalla casa di famiglia o rifugiati politici proprio in virtù della loro omosessualità o transessualità.
Dello stesso tipo è un progetto sviluppato a Madrid dalla Fundaciòn 26 Diciembre che – nello spirito del co-housing e delle nuove soluzioni abitative – sta avviando una struttura dedicata alla convivenza di persone LGBT con diversi bisogni e background (persone anziane lesbiche e gay, ma anche persone transgender con difficoltà abitative, persone straniere o HIV positive). Altro esempio che vorrei indicare è quello della Fundació Enllaç di Barcellona, molto interessante sul piano dell’attività sviluppata.

Merita di essere segnalato anche il progetto dell’associazione COC – storica associazione olandese nata nel 1948 – che ha affrontato la questione da un ulteriore punto di vista: in questo caso, invece di promuovere la creazione di strutture di assistenza e cura ad hoc, l’associazione ha sviluppato un meccanismo di valutazione (ed indirettamente, quindi, anche di sensibilizzazione) del grado di inclusività e accoglienza nei confronti della popolazione LGBT delle strutture già esistenti e promosso, in accordo con le istituzioni locali, una sorta di ‘certificazione’ per identificare le strutture più adatte per persone di terza età gay lesbiche e trans.

Oltre a progetti e associazioni, è interessante nominare le linee guida promosse da ILGA EUROPE in accordo con AGE (la rete europea delle associazioni di volontariato per la terza età) che identificano una road map per promuovere i diritti delle persone LGBT anziane e offrono delle raccomandazioni su come implementare i servizi esistenti. E’ proprio questo documento ad essere la cornice di riferimento delle attività della nostra associazione.

Entrando nel merito del vostro lavoro, quali attività svolgete?

Svolgiamo attività ‘classiche’ dei servizi di assistenza agli anziani: offriamo ore di svago e compagnia, supportiamo nello svolgersi dei bisogni quotidiani come fare la spesa o cercare un medico specialistico e offriamo attività di consulenza e orientamento rispetto ad alcune questioni che diventano cruciali nell’avvicinarsi del fine vita come tutto ciò che è connesso a testamenti, eredità e patrimonio, cose che data l’attuale normativa italiana di riconoscimento delle unioni e dei rapporti di parentela presentano non pochi problemi per le persone LGBT. Per fare queste attività abbiamo dedicato molti mesi alla discussione interna e alla selezione e formazione di operatori e operatrici volontari/e che hanno deciso di investire parte del loro tempo in questo progetto e solo nel mese di settembre di quest’anno abbiamo iniziato il lavoro ‘sul campo’.

Oltre a questo lavoro di servizio e supporto, obiettivo dell’associazione è quello di lavorare con le istituzioni per inserire un’attenzione trasversale alle questioni LGBT in tutti i servizi che riguardano la terza età: dalla nostra fondazione abbiamo già aperto un dialogo con alcuni servizi sulla terza età della Città di Torino, ma l’ambizione è quella di lavorare in modo sempre più trasversale e massiccio nella formazione di operatori/operatrici e sul design dei servizi per rimuovere stereotipi e pregiudizi e promuovere una reale inclusione.

[1] Enzo Cucco, e tutto il primo gruppo di volontari dell’Associazione (AngeloPezzana, Enzo Francone, Marco Silombria e altri), proviene dall’esperienza del Fuori! nel quale è entrato nel 1976 e dove ha svolto il ruolo di direttore della omonima rivista. L’Associazione Lambda è regolamente iscritta all’Albo regionale del volontariato, all’Albo UNAR e a ILGA Europe.

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Orgoglio e pregiudizio: le persone LGB al lavoro http://www.portalenazionalelgbt.it/orgoglio-e-pregiudizio-le-persone-lgb-al-lavoro/ Wed, 03 Dec 2014 08:00:32 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1938 A cura di Fabrizio Botti, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Perugia, e Carlo D’Ippoliti, Dipartimento di Scienze Statistiche, La Sapienza Università di Roma.

Il mito del ‘gay ricco’ e privilegiato (normalmente declinato solo al maschile) è antico quanto la consapevolezza dell’esistenza di orientamenti omo e bisessuali e può esser fatto risalire almeno al primo medioevo, durante la fase di ruralizzazione della civilizzazione romana, a partire dalla quale si attribuirono all’omosessualità molte delle debolezze delle classi dominanti (Boswell, 1980). Nonostante la sua traiettoria non lineare anche durante il XX secolo, lo stereotipo della presunta agiatezza continua oggi a essere applicato all’intera comunità LGB, equiparata senza distinzioni a un’élite privilegiata o a una potente lobby globale, spesso con l’obiettivo di soffocarne le istanze politiche.

A partire dagli Stati Uniti assistiamo però negli ultimi 20 anni a una crescita della ricerca scientifica in campo socio-economico, prevalentemente di natura empirica, sulla popolazione LGB. Sin dalla raccolta dei primi dati significativi, con il censimento della popolazione statunitense del 2000, appare tuttavia evidente come la distorsione ‘nel campione’ che può essere osservato dagli studiosi possa contribuire addirittura al rafforzamento del mito del gay ricco (Badgett, 2001). Ovvero, solo le persone relativamente più benestanti tra gli individui LGB decidono – o possono permettersi – di essere visibili in quanto tali, e di conseguenza la maggioranza delle persone, quantomeno a livello sociale, viene a conoscenza solo di persone LGB relativamente agiate. Indagini più approfondite hanno però evidenziato una forte vulnerabilità degli individui in coppie dello stesso sesso alla povertà e all’esclusione sociale, e che fattori come il genere, l’appartenenza a minoranze etniche e l’ubicazione dell’abitazione influenzino i tassi di povertà nella popolazione LGB (Albelda et al., 2009; Badgett et al., 2013). Negli Stati Uniti, che per la maggiore disponibilità di dati costituiscono il caso di studio più esplorato, i tassi di povertà di donne e afroamericani in coppie omosessuali sono rispettivamente superiori del 1.9% e del doppio rispetto alle loro controparti in coppie di sesso differente; un terzo delle coppie lesbiche e il 20.1% di quelle gay maschili con un’istruzione inferiore a quella secondaria sono povere contro il 18.8% della loro corrispondente popolazione eterosessuale; la probabilità di essere poveri quando si vive al di fuori delle grandi aree metropolitane è rispettivamente maggiore per le coppie lesbiche e gay del 9.6% e del 6.9% e questa evidenza si traduce in condizioni di particolare vulnerabilità per i/le figli/e delle coppie dello stesso sesso specialmente nella comunità afroamericana.

La discriminazione in ambito lavorativo rappresenta il campo di ricerca più consolidato in ambito economico, in particolare nello studio della gestione del personale e delle condizioni di lavoro nelle imprese, e delle remunerazioni dei lavoratori dipendenti (per una rassegna si rimanda a D’Ippoliti e Schuster, 2011). I lavoratori omosessuali risultano più vulnerabili rispetto a quelli eterosessuali nell’accesso alla formazione e nelle fasi di assunzione, avanzamento della carriera e licenziamento. Le discriminazioni durante il processo di assunzione possono avvenire nel momento del confronto dei curricula come durante i colloqui (Drydakis, 2009; Weischselbaumer, 2003), così come comportamenti auto-discriminatori spesso inducono a decisioni non ottimali (quali astenersi dal presentare candidature in settori o imprese di cui si teme una presunta maggiore ostilità). In Italia, un esperimento condotto da Patacchini et al. (2012) attraverso l’invio di CV fittizi ha mostrato una probabilità più bassa per i candidati omosessuali di essere richiamati per un colloquio di lavoro dopo aver risposto ad un annuncio (-30% per i CV che nello specifico indicavano la partecipazione ad associazioni LGB), ma non per le candidate lesbiche. Curtarelli et al. (2004) documentano un’alta percezione del rischio di ricevere reazioni negative al coming out in ambito lavorativo, mentre le ripercussioni sull’avanzamento di carriera assumono la forma di molestie, mobbing e arrivano addirittura al licenziamento. La mancanza di studi specifici sulle discriminazioni nella fase di licenziamento non deve ridimensionare, ad esempio, il potenziale discriminatorio indiretto e la problematicità delle procedure per la selezione dei lavoratori soggetti a mobilità o posti a carico della Cassa Integrazione Guadagni (CIG), in cui un criterio fondamentale per la selezione del personale posto in CIG è il concetto di ‘familiari a carico’, che nel nostro paese diviene potenzialmente discriminatorio nella misura in cui le famiglie delle persone LGB non sono giuridicamente riconosciute.

Numerose indagini statistiche si sono occupate di valutare il ruolo dell’orientamento sessuale nello spiegare i differenziali salariali tra persone LGB ed eterosessuali (una rassegna completa è fornita in Botti e D’Ippoliti, 2014). Un’evidenza consolidata a livello internazionale (che quindi stavolta riguarda anche Italia, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e Germania, tra gli altri) segnala l’esistenza di discriminazione nella remunerazione dei lavoratori gay, mentre risultati più contraddittori emergono riguardo le retribuzioni delle lavoratrici lesbiche. Seppure i redditi di queste ultime rimangano inferiori rispetto a quelli dei colleghi uomini, e il reddito familiare risulti quindi generalmente inferiore a quello di una coppia eterosessuale, in alcuni studi le lavoratrici lesbiche mostrano retribuzioni relativamente maggiori della media delle lavoratrici (soffrirebbero quindi meno del gender pay gap).
Questi risultati hanno dato luogo a interpretazioni contrastanti, che da un lato hanno enfatizzato l’associazione tra orientamenti sessuali e preferenze (e/o competenze) non osservabili (‘effetto selezione’), mentre dall’altro si sono concentrate sui meccanismi discriminatori prevalenti nei luoghi di lavoro (‘effetto discriminazione’). Secondo la prima interpretazione, coerente con la teoria economica cosiddetta neoclassica della specializzazione familiare, assumendo che le decisioni in tema di istruzione (e conseguentemente occupazionali) siano realizzate dopo aver preso coscienza del proprio orientamento sessuale, i differenziali di remunerazione deriverebbero da una specializzazione intra-familiare più bassa nelle coppie LGB rispetto alle famiglie ‘tradizionali’. Ovvero, i lavoratori gay non punterebbero tutto sulla carriera quanto gli altri uomini (finendo con maggiore probabilità in impieghi tradizionalmente ‘femminili’, a più bassa remunerazione), e le lavoratrici lesbiche non si dedicherebbero alle attività domestiche quanto le altre donne (scegliendo di investire in una istruzione più orientata al mercato del lavoro), con le conseguenze sugli stipendi di cui si è detto.
Altri studiosi legano piuttosto i differenziali salariali a comportamenti discriminatori nel mercato del lavoro, derivanti da omofobia ed eterosessismo (Badgett, 1995; Klawitter e Flatt, 1998; Arabsheibani et al., 2005).

In Italia, un nostro studio sui dati dell’ “Indagine sui bilanci delle famiglie italiane” della Banca d’Italia (2006, 2008, 2010) rappresenta forse il primo tentativo di quantificare l’inclusione sociale delle persone LGB, intesa come abilità e possibilità individuale di partecipare pienamente alla vita sociale, in vari ambiti: lavorativo, abitativo, sanitario, nell’istruzione e formazione, oltre che nelle politiche sociali (Botti e D’Ippoliti, 2014). Nonostante i diversi criteri di identificazione del campione LGB adottati nella letteratura, coerentemente con molti degli studi precedentemente citati, per l’assenza di dati migliori abbiamo dovuto limitarci all’osservazione di coppie di persone conviventi: possiamo dunque supporre che i conviventi in coppie dello stesso sesso siano una parte della popolazione omosessuale e bisessuale, ma non possiamo dir nulla sulle persone trans e sulle persone omosessuali che non vivono in coppia. Il vantaggio dei dati da noi utilizzati è che ci permette di distinguere le coppie non dichiarate esplicitamente ma identificate di fatto dai rilevatori dell’indagine da quelle che decidono spontaneamente di qualificarsi come tali (rimandiamo al lavoro completo per un quadro dei diversi criteri di identificazione del campione LGB e per maggiori dettagli riguardo alla metodologia usata).

Tabella1_Articolo

Fonte: Botti e D’Ippoliti, 2014

Come si vede dai dati riassunti nelle tabelle, dalla nostra analisi emerge che le persone in coppie dello stesso sesso lavorano in media meno (non sappiamo se per scelta o per impossibilità) di quelle in coppie di sesso diverso, e questo è vero soprattutto per le coppie non dichiarate che si trovano inoltre a lavorare maggiormente con contratti precari o di breve durata. Dal punto di vista reddituale, le persone in coppie dello stesso sesso dichiarate ottengono una retribuzione oraria approssimativamente simile a quella del resto della popolazione, seppure i loro redditi annui siano più bassi in considerazione del ridotto numero di ore settimanali passate al lavoro.

Tabella2

Fonte: Botti e D’Ippoliti, 2014

Le persone in coppie dello stesso sesso non dichiarate guadagnano invece significativamente meno, sia all’ora che all’anno. In generale, un’analisi più approfondita, che tiene conto di una serie di caratteristiche osservabili individuali e di contesto del campione italiano di riferimento, ha evidenziato livelli di esclusione sociale (quindi non solo lavorativa, ma anche relativa ai livelli di istruzione, alla povertà monetaria, alle condizioni abitative ed al benessere percepito soggettivamente) sistematicamente maggiori per i lavoratori e le lavoratrici omosessuali in confronto al resto della popolazione e particolarmente per chi non si è dichiarato.

Complessivamente, dunque, la nostra analisi mostra non solo quanto gli individui in coppie dello stesso sesso siano penalizzati nel mercato del lavoro (oltre che in altre dimensioni di inclusione sociale), ma come la popolazione LGB costituisca un gruppo sociale eterogeneo (al di là della consueta distinzione tra uomini e donne omosessuali) al cui interno sembrano essere coloro che non dichiarano esplicitamente il proprio orientamento sessuale a presentare le condizioni socio-economiche peggiori. Risultati che confermano anche per l’Italia quanto lontani siano gli stereotipi sulle persone LGB dalla loro realtà quotidiana, fatta più spesso di magri salari che di party lussuosi.

Bibliografia

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La transessualità nei contesti lavorativi: ambiti di intervento e buone prassi http://www.portalenazionalelgbt.it/la-transessualita-nei-contesti-lavorativi/ Tue, 02 Dec 2014 11:59:00 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1942 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa e componente del gruppo redazionale della Rete RE.AD.Y, alla quale è attribuita la responsabilità dei contenuti e delle indicazioni fornite.

 

La popolazione transessuale e transgender, a differenza di quella omo/bisessuale, molto spesso non può scegliere di rendere invisibile la propria identità di genere, o perché i documenti non rispecchiano il genere scelto, o perché il percorso di transizione comporta dei cambiamenti visibili. Per tale ragione che rende le persone trans piú vunerabili in un mercato del lavoro già reso meno accessibile dalla crisi economica, il presente approfondimento focalizza l’attenzione sulle buone prassi che si possono mettere in pratica al fine di promuovere una miglior integrazione e accoglienza delle persone transgender e transessuali nel contesto lavorativo. Da un punto di vista organizzativo, non si tratta solo di rafforzare le competenze delle risorse umane per la programmazione delle attività, ma anche e soprattutto di costruire procedure amministrative e ambienti lavorativi in grado di garantire efficaci sistemi di gestione e di partecipazione nei diversi ambiti di policy. Non è superfluo ricordare che è nell’interesse del datore e della datrice di lavoro creare degli spazi in cui il/la lavoratore/trice transessuale possa sentirsi a proprio agio nella gestione della propria identità, in quanto vivere serenamente la propria identità sessuale (cosí come qualunque altro aspetto dell’identità) al lavoro significa anche produrre dei risultati positivi in termini di soddisfazione personale, rendimento, lavoro di gruppo, fiducia e integrazione.
Per quel che concerne l’integrazione accogliente delle persone transessuali, sono stati individuati i seguenti ambiti di policy all’interno dei quali istituzioni, parti sociali, professioniste/i e terzo settore possono realizzare delle azioni positive:

  • conduzione di studi e ricerche, tanto sull’esperienza lavorativa delle persone trans quanto sulla normativa vigente;
  • accesso al lavoro;
  • condizioni di lavoro (codici etici, linee guida, tutela sul luogo di lavoro);
  • formazione e qualificazione professionale del personale in servizio sulle tematiche dell’identità di genere e della transessualità;
  • diversity management;
  • sportelli di orientamento, supporto e tutela legale.

Vediamo ora nel dettaglio ciascuno di questi punti, segnalando alcune buone prassi che possono essere attivate a partire dalle esperienze nazionali e internazionali (si rimanda alla banca dati per l’approfondimento dettagliato di ciascuna esperienza citata).

Studi e ricerche

Uno dei primi ostacoli a una valutazione delle condizioni di lavoro delle persone LGBT è la scarsità di informazioni e dati attendibili su cui basare le politiche: il mercato del lavoro, benché sia uno dei settori tutelati dalle direttive europee sin dal 2000, presenta ancora molte lacune conoscitive in merito alla popolazione LGBT a causa dell’invisibilità mantenuta in uno degli ambiti che viene visto tra i più ostili, considerato anche il fatto che da esso dipende l’autonomia, prima di tutto economica, di chiunque voglia rendersi indipendente dalla famiglia. Nel 2011 l’Istat ha condotto, per la prima volta, una ricerca, intitolata “La popolazione omosessuale nella società italiana”, per rilevare le opinioni e gli atteggiamenti della cittadinanza nei confronti delle persone omosessuali (e, soltanto marginalmente, nei confronti delle persone transessuali) e le difficoltà che queste ultime incontrano nella famiglia e nella società, con riferimento anche alle discriminazioni che subiscono nell’accesso al lavoro e sul posto di lavoro. Ma la prima ricerca a livello nazionale che affronta in modo specifico e approfondito la situazione delle persone LGBT sul luogo di lavoro e analizza le discriminazioni a cui sono sottoposte è “Io sono, io lavoro”, finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e promossa da Arcigay Nazionale, e risale anch’essa al 2011. Tra settembre 2011 e luglio 2012, Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford ha, invece, condotto una ricerca, finanziata dal FSE (Fondo Sociale Europeo), volta a censire ed analizzare le buone prassi realizzate a livello internazionale per il superamento delle discriminazioni nei confronti delle persone LGBT in ambito lavorativo, allo scopo di valutare la loro replicabilità nelle Regioni Obiettivo Convergenza (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) attraverso la costituzione di Tavoli Tecnici regionali (Gusmano e Lorenzetti, 2014).

La conduzione di studi e ricerche, dunque, risulta essere un valido primo passo per legittimare le azioni positive nei confronti della popolazione LGBT: una volta che le difficoltà e i bisogni vengono rilevati, è dovere dell’amministrazione pubblica, così come delle aziende che vogliano tutelare la propria immagine sociale, provare a sviluppare delle strategie di pari opportunità, integrazione e lotta alla discriminazione.
Sempre nell’ambito della conduzione di ricerche, è importante fare uno studio approfondito in merito alla normativa vigente e agli strumenti che sono disponibili in Italia per arginare fenomeni di discriminazione sul posto di lavoro.
In entrambi i casi, la collaborazione con le istituzioni, le associazioni di categoria, le organizzazioni sindacali e il terzo settore permette di dare maggior legittimità alle ricerche, soprattutto se vi prende parte un’Università o un istituto di ricerca.
Fondamentale, da questo punto di vista, è individuare specifici target di riferimento, evitando di riprodurre lo stereotipo attraverso il quale le esperienze degli uomini FtM (da femmina a maschio) possono essere accomunate a quelle delle donne MtF (da maschio a femmina), o secondo cui le esperienze legate all’orientamento sessuale possono essere assimilate a quelle relative all’identità di genere. Allo stesso modo, un’ulteriore accortezza è non accomunare le esperienze di chi lavora in settori professionali completamente diversi (il settore pubblico è diverso dal privato; una piccola azienda è diversa da una multinazionale; le forze armate hanno una specificità interna; e così via), tenendo conto di quanto il genere e la provenienza etnica possano costituire dei fattori di discriminazione multipla che aggravano la condizione di vulnerabilità di taluni soggetti.
Inoltre, considerato il contesto economico poco favorevole, potrebbe essere utile partire da analisi secondarie di dati già esistenti o cercare dei finanziamenti europei o l’appoggio di organismi internazionali; a questo proposito, segnaliamo in banca dati la ricerca “Straight people don’t tell, do they?” condotta all’interno di un progetto Equal.

Accesso al lavoro

L’accesso al lavoro comprende tutte quelle fasi che permettono a un individuo di incontrare la propria posizione nel mercato lavorativo, ovvero le fasi di orientamento, ricerca, formazione in ingresso e accompagnamento al lavoro. Dato il contesto economico non favorevole, sarebbe attualmente piú corretto parlare di azioni che migliorano le condizioni di accesso al lavoro, dato che, a differenza del passato, ora é molto piú difficile che le suddette fasi si traducano in un concreto contratto di lavoro. Inoltre, i dati a disposizione dimostrano come sia diffusa la pratica di offrire alle persone trans condizioni contrattuali molto penalizzanti facendo leva sulla loro posizione che le rende lavoratrici e lavoratori più facilmente sfruttabili. Come sottolineano gli enti e le associazioni che si impegnano a facilitare l’inserimento lavorativo delle persone transessuali, date le condizioni del mercato del lavoro, é fondamentale qualificare il problema in termini di sperimentazione di un lavoro ‘di qualità’.
Un’opportunità in questo senso é data, quando le risorse lo consentono, dai bandi per l’assegnazione di borse lavoro/tirocini formativi. Un esempio di queste azioni positive é il “POR-FSE 2007/2013” promosso dalla Regione Piemonte per il rafforzamento dell’occupabilità e l’accompagnamento nell’inserimento socio-lavorativo di persone particolarmente svantaggiate e a rischio o vittime di discriminazione. Tra le Province destinate ad attuare il POR, quella di Torino ha previsto la possibilità di fruire, nel corso del 2014, di tirocini di inserimento/reinserimento lavorativo di 4 mesi a 126 persone, 36 delle quali LGBT, prevalentemente transessuali. I punti di forza di questo progetto sono stati il periodo adeguato di ore di preparazione all’avvio del tirocinio formativo (che venivano già retribuite); la presenza di due tutor: uno responsabile degli aspetti lavorativi, e l’altro (denominato life friend) degli aspetti legati all’empowerment individuale; il lavoro di rete tra i servizi del territorio (Servizio LGBT, servizi sociali, centri di salute mentale, SERT), il CIDIGEM (il centro per la transizione di genere dell’Ospedale Molinette), le associazioni LGBT (in particolare il Gruppo transessuali Luna del Circolo Maurice) per la segnalazione delle persone trans da inserire nel progetto; l’attività formativa sulle tematiche LGBT per gli operatori e le operatrici che avrebbero seguito gli inserimenti lavorativi e il seminario finale di sensibilizzazione “Io non discrimino” rivolto al personale dei Centri per l’Impiego e ai/alle rappresentanti delle aziende.
Il fatto che queste misure, oggi, non garantiscano l’accesso al lavoro in termini di formale assunzione, non toglie nulla al loro valore come aumento delle competenze individuali, sviluppo di reti di conoscenze e incremento della propria capacità di relazionarsi con il mondo del lavoro.

Condizioni di lavoro

Con l’espressione ‘condizioni di lavoro’ si intendono tutte le azioni che riguardano il miglioramento delle condizioni lavorative di chi già possiede un lavoro, e prevedono quindi la revisione dei codici etici aziendali, includendo esplicitamente le specificità dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere; la redazione di linee guida inerenti i rapporti sul luogo di lavoro (tra dipendenti, tra dipendenti e datore/datrice di lavoro, tra dipendenti e utenza, tra azienda e fornitori) e di raccomandazioni in merito a come rendere la propria mansione attenta alle diversità che possono essere proprie sia di chi lavora che dell’utenza; le forme di tutela sul luogo di lavoro che includono la collaborazione con i sindacati, le ispezioni nelle aziende, i programmi di lotta alle discriminazioni e le campagne di sensibilizzazione.
Rispetto alle linee guida, segnaliamo in banca dati le proposte dell’associazione trans francese Chrysalide e del Gender Center, associazione australiana per la difesa dei diritti delle persone transessuali.
Per poter attuare in maniera efficace tali politiche è necessario il coinvolgimento delle parti datoriali e sindacali: l’assunzione di responsabilità da parte della dirigenza dell’azienda (o dell’amministrazione pubblica) e la definizione di sanzioni in caso di atteggiamento omofobico o transfobico permettono una maggior visibilità dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT e una loro migliore integrazione nel contesto lavorativo.
Un esempio di buona pratica è la pubblicazione “Transgender worker rights” redatta in Gran Bretagna nel 2010 da UNISON, l’organizzazione sindacale del settore pubblico. Nel testo sono presenti una ricognizione della normativa antidiscriminatoria vigente, che ha come obiettivo l’informazione e la sensibilizzazione in tema di non discriminazione delle persone trans; alcune indicazioni utili per tutti/e i datori e le datrici di lavoro nella gestione del rapporto di lavoro con il lavoratore e la lavoratrice transessuale; alcuni paragrafi specificamente dedicati all’uso dei bagni, delle uniformi e degli spogliatoi. Sul sito web del sindacato, inoltre, è a disposizione un modello di accordo tra datore/datrice di lavoro e lavoratore/trice trans e altro materiale utile. In Italia, ALA Milano Onlus e CGIL hanno redatto una brochure simile a quella di UNISON, aggiornata al 2011, che contiene le stesse indicazioni, applicate al contesto italiano.

Formazione e aggiornamento professionale del personale in servizio sulle tematiche dell’identità di genere e delle transessualità

La formazione professionale sul lavoro, chiamata anche aggiornamento, è un’azione positiva mirata allo sviluppo delle competenze del personale al fine di fornire migliori servizi in termini di accoglienza e di risposta professionale ai bisogni di cittadini/e e utenti trans; di progettare servizi e iniziative che prendano in considerazione la presenza di fruitori e fruitrici trans; di creare un clima rispettoso e accogliente nei confronti di colleghe e colleghi trans. Alcuni esempi di guide alla formazione sono state redatte dall’associazione inglese Stonewall: “Sexual Orientation Employers Toolkit” e “Training: Educating staff about lesbian, gay and bisexual equality”.
Affinché la formazione si riveli efficace, le/i partecipanti devono avere la possibilità di esprimere le proprie aspettative in relazione alla proposta, di tararla sulla base delle proprie esigenze e di verificare la coerenza delle metodologie adottate, concludendo sempre l’attività con un momento di autovalutazione e di proposte di implementazione che coinvolgano il personale anche nella progettazione delle azioni future, valorizzando così la competenza acquisita attraverso la formazione. A tale fine, la formazione deve prevedere l’utilizzo di strategie diverse, funzionali allo sviluppo di momenti cognitivi, esperienziali e relazionali, così da facilitare una crescita personale di consapevolezza sui vari aspetti della condizione LGBT a tutti i livelli organizzativi. Una formazione efficace si ottiene non solo attraverso la trasmissione di competenze, ma soprattutto attraverso la capacità dei formatori e delle formatrici di far emergere le perplessità personali e le difficoltà legate alla non conoscenza del tema trattato: spesso tali posizioni possono presentare dei contenuti transfobici, e l’unico modo per superarli é affrontarli in uno spazio di discussione aperto al dialogo e al confronto.

Diversity Management

Il diversity management è una strategia aziendale che ha come obiettivo dichiarato non solo il miglioramento delle condizioni di lavoro, ma soprattutto la gestione delle diversità come risorsa fondamentale di vantaggio competitivo per l’azienda in un contesto di globalizzazione sempre più complesso. Oltre all’aspetto economico, le altre due ragioni per cui le aziende adottano queste politiche sono riconducibili all’ambito etico (rispetto di una condotta etica dell’azienda, solitamente esplicitata nel codico etico e tesa a restituire un’immagine positiva) e a quello normativo (in osservanza delle leggi contro le discriminazioni).
Le aziende che investono nel diversity management in Italia sono soprattutto le multinazionali, le quali hanno da anni già attivato le azioni basilari di integrazione, quali: coinvolgimento dei vertici aziendali nell’attiva di promozione delle diversità; corsi di formazione per dirigenti e dipendenti; identificazione delle tipologie di diversità presenti in azienda; comunicazione delle attività svolte sia all’interno che all’esterno dell’azienda; azioni costanti di controllo sugli episodi di discriminazione, a cui devono corrispondere delle sanzioni certe; monitoraggio e follow up delle azioni implementate; creazione di reti interne all’azienda tra lavoratori e lavoratrici LGBT, fornendo tutto il supporto logistico e tempistico di cui necessitano per portare avanti le proprie azioni.
A livello europeo le pubblicazioni rispetto alle buone prassi attivate in questo ambito sono numerose, per una rassegna delle stesse si rimanda al materiale presente in banca dati: “The business case for diversity”; “Changing for the better”; “Going beyond the law: promoting equality in employment”.
Sul piano nazionale il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio e l’UNAR da alcuni anni promuovono, in collaborazione con altri Enti e Associazioni, progetti mirati sul diversity management. Il primo di questi progetti, attivo dal 2007, è “Diversitalavoro”, realizzato in collaborazione con Fondazione Sodalitas, People e Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, e finalizzato a favorire l’incontro delle persone con disabilità, appartenenti alle categorie protette, di origine straniera o transgender, con le aziende che offrono opportunità di lavoro. Due progetti, invece, riguardano nello specifico le Piccole Medie Imprese (PMI) nelle quattro Regioni dell’Obiettivo Convergenza: “Somma Valore” ha l’obiettivo di sensibilizzare tale tipologia di impresa ad un approccio improntato all’integrazione e alla valorizzazione delle diversità nella gestione delle risorse umane; “DiversaMente” si propone di realizzare azioni di diversity management coinvolgendo le persone appartenenti a categorie tradizionalmente discriminate, le PMI, gli Enti pubblici, le Aziende controllate e/o partecipate dalle Regioni e tutti gli stakeholder che si occupano della lotta alla discriminazione, con l’obiettivo di facilitare l’inserimento lavorativo delle persone a rischio di discriminazione. Infine, nel luglio del 2014 è stato lanciato, in collaborazione con Italia Lavoro Spa, “DJ – Diversity on the Job”, un programma sperimentale (finanziato dal Fondo Sociale Europeo e rivolto anch’esso alle quattro Regioni dell’Obiettivo Convergenza) per la promozione dell’inserimento lavorativo di persone fortemente discriminate e svantaggiate. Tale programma, da un lato mira ad avvicinare al mondo del lavoro persone tradizionalmente escluse e, dall’altro, intende stimolare le aziende ad aprirsi al confronto con realtà che spesso non sono prese in considerazione.

Sportelli di orientamento, supporto e tutela legale

Un ultimo ambito di intervento riguarda la creazione di sportelli di orientamento al lavoro, supporto e consulenza legale, spesso aperti sul territorio locale da parte delle associazioni LGBT. Si tratta di spazi aperti al pubblico, in cui le persone vittime di discriminazione sul luogo di lavoro possono trovare tutela legale; in cui i/le inoccupate/i o disoccupate/i possono trovare orientamento alla ricerca del lavoro; a cui le persone già occupate possono rivolgersi per risolvere eventuali problematiche che incontrano sul posto di lavoro. La necessità di tali sportelli si è resa evidente nel corso degli anni, in quanto il personale pubblico impiegato nei Centri per l’Impiego non é sempre adeguatamente formato per rispondere ai bisogni specifici dell’utenza trans: per questo è opportuno avviare specifici percorsi di aggiornamento in collaborazione con le associazioni LGBT del territorio, come ad esempio è avvenuto nella Provincia di Torino nel 2011 all’interno del progetto europeo AHEAD, o come sta avvenendo a livello nazionale grazie alle azioni formative che la Città di Torino, in qualità di Segreteria nazionale della rete RE.A.DY, promuove, in collaborazione con l’UNAR e nell’ambito della Strategia nazionale LGBT, rivolgendosi alle figure dirigenziali dei Servizi per il Lavoro statali, regionali e provinciali.
All’interno della banca dati del Portale, segnaliamo che tutti i servizi di accoglienza trans già presentati all’interno del tema “Identità di genere” forniscono anche supporto in merito alle questioni lavorative: Spo.T Sportello Trans a Torino; SAT Sportello Accoglienza Trans a Verona; Consultorio MIT a Bologna; Consultorio della Salute Ireos a Firenze; Consultorio Transgenere a Torre del Lago (LU); Sportello Trans ALA Milano Onlus; Sportello dell’Associazione Libellula a Roma; inoltre, anche i servizi di sportello attivati da associazioni gay e lesbiche sono spesso competenti per le tematiche inerenti la transessualità. Infine, per maggiori informazioni, segnaliamo lo sportello aperto dall’associazione i Ken in collaborazione con la CGIL di Napoli, lo sportello Milk di Arcigay Napoli, lo sportello legale di DíGayProject a Roma e lo sportello L di Arcilesbica a Bologna. A Milano è inoltre attivo il Servizio Bussola dell’associazione ALA Onlus, che si occupa degli inserimenti lavorativi e/o formativi per persone a rischio di esclusione sociale, e collabora con lo Sportello Trans ALA.

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Diversity management: tutela e indicatori di ‘differenza’ http://www.portalenazionalelgbt.it/diversity-management-tutela-e-indicatori-di-differenza/ Sat, 08 Nov 2014 09:55:44 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2788 A cura di Fabio Corbisiero, Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Nel mare magnum dei cosiddetti hate bias, ovvero di quei comportamenti dettati esclusivamente da pregiudizio cognitivo, lo stigma verso alcune categorie sociali, come le persone omosessuali e transessuali, è ancora molto avvertito. Negli ambienti di lavoro, per esempio, le ricerche sul tema ci mostrano che questo atteggiamento pregiudizievole non è ancora risolto (Levine e Leonard, 1984; Rinaldi, 2013). Studi statunitensi evidenziano che solo il 40% delle lavoratrici e dei lavoratori LGBT denuncia esperienze di trattamento discriminatorio sul posto di lavoro, mentre il 22% delle persone eterosessuali ha ammesso che si sentirebbe a disagio lavorando con colleghi/e omosessuali (Badgett et. al., 2007). A livello europeo, poi, lo stato delle cose non è diverso e l’indagine “EU LGBT survey” mostra alcuni punti critici relativi alla discriminazione delle persone LGBT. Nei diversi Paesi dell’UE una persona intervistata su due si sente discriminata o molestata a causa del proprio orientamento sessuale; una su tre ha subito discriminazioni nell’accesso a beni o servizi; una su quattro è stata aggredita fisicamente; una su cinque è stata discriminata in materia di occupazione o impiego. Altre autrici (Cimaglia M., “Orientamento sessuale e identità di genere nel diritto del lavoro”, in Corbisiero, 2013) avrebbero accertato che lavoratrici e lavoratori omosessuali e transessuali possono subire persino mobbing e licenziamento, nonostante la legge italiana con il decreto legislativo 216 del 2003 lo vieti. In Italia il 40,3% delle persone omosessuali ha dichiarato di essere stata discriminata nella ricerca di un lavoro (29,5%) o sul posto di lavoro (22,1%), a fronte di percentuali più ridotte relative agli eterosessuali, rispettivamente pari a 14,2% e 12,7% (Istat 2011). Alcuni studi e indagini empiriche mostrano che la disidentificazione nella ricerca di lavoro o sul luogo stesso di lavoro ha evidenti effetti negativi anche sulla socializzazione professionale, che vanno da una debole partecipazione della lavoratrice e del lavoratore alla vita aziendale (anche informale) alla piena condivisione degli obiettivi aziendali (Corbisiero, 2013; Gusmano, 2008; Sartori, 2011; Woods, 2011).

Data la rilevanza di tali processi, l’invisibilità dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT non solo costituisce un ostacolo alla loro piena affermazione professionale, ma è anche causa dell’assenza di persone omosessuali in diversi segmenti del mercato del lavoro o di una limitata mobilità aziendale. La scarsa partecipazione a reticoli relazionali informali o formali con colleghi/e o gruppi aziendali è infatti uno dei fattori di minore avanzamento di carriera o peggiore performance retributiva; si arriva ad una sorta di auto-discriminazione quando l’aspettativa di essere discriminati/e induce comportamenti non ottimali, come ad esempio non fare domanda di lavoro in certi settori o aziende. In Italia la situazione non è priva di criticità e, al contrario, la tutela di lavoratrici e lavoratori LGBT pare ancora parecchio debole. Poco più di dieci anni fa Barbagli e Colombo (2001) scrivevano:

È sul lavoro che le donne e gli uomini intervistati percepiscono i maggiori rischi di una reazione negativa. Essi possono infatti subire ostacoli ad avanzamenti di carriera, essere emarginati dai colleghi, ricevere aggressioni fisiche o verbali, essere oggetto di ricatti, a volte subire delle molestie, e in qualche caso estremo rischiare la sicurezza del posto di lavoro (p.85).

Il tema del Diversity Management (DM) – strategia aziendale che nasce in ambito organizzativo come progetto per creare una maggiore inclusione di tutti gli individui nelle relazioni sociali informali e nei programmi aziendali formali – tocca solo recentemente le questioni legate al genere e all’orientamento sessuale (Basaglia, 2010). Grazie ad una sempre più diffusa e congrua presenza delle donne nel mercato del lavoro che ‘sostiene’, direttamente o indirettamente, la causa omosessuale e in virtù delle decennali rivendicazioni della comunità LGBT in tema di lavoro, sono diverse le aziende mondiali che hanno recepito l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi organizzativi ai fini dell’aumento della competitività dell’azienda. Sotto questa angolazione critica, la modalità prevalente di DM è quella che cerca di mettere tutte le persone, a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale, in condizioni di lavorare con le stesse regole.
È l’approccio fondato sulla creazione di pari opportunità che, con strumenti prevalentemente normativi e formativi delle minoranze portatrici di differenze, cerca di equiparare le differenze tra tutti i soggetti che partecipano al mercato del lavoro, investendoli di eguali diritti e di eguali opportunità. Un approccio che ha come obiettivo quello di sviluppare nei lavoratori e nelle lavoratrici delle ‘capacità simmetriche’, ovvero capacità di gestire gli stessi ruoli ma con competenze e abilità specifiche, legate al genere. Questo approccio risente, in verità, dei fondamenti della democrazia statunitense, basata sui diritti dell’individuo e su un concetto di società di eguali (discrimination and fairness paradigm).
Le motivazioni per cui una azienda decide di adottare e implementare una politica di DM sono numerose. La crescita delle multinazionali e la diffusione di accordi di collaborazione internazionali, per esempio, hanno avuto come conseguenza l’instaurarsi di un management interculturale che ha dovuto imparare a confrontarsi con culture organizzative differenti. In tal senso, sono aumentati i rapporti di scambio con aziende straniere e con culture sempre più distanti, quali quelle del mondo arabo o dell’est asiatico. Nel recepire l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi teorici, inoltre, le aziende che implementano il DM partono dalla consapevolezza che le diversità esistenti in ciascuna risorsa umana sono funzionali all’organizzazione nel conseguire il vantaggio competitivo.
Ciò consente, per esempio, di ridurre i costi derivanti dal mancato rispetto delle prescrizioni normative sulle pari opportunità lavorative, i costi della selezione e formazione del personale, con particolare riguardo al turn-over del personale con caratteristiche diverse (come nel caso di un lavoratore omosessuale), nonché i costi connessi con la salute e l’assenteismo delle risorse umane.
Per quanto concerne i riflessi sulle persone derivanti da un’efficace gestione delle differenze occorre tener presente che la relazione individuo/lavoro ha subìto un radicale e acuto cambiamento, in forza del quale le risorse umane sono sempre meno interessate ai meri aumenti retributivi, aspirando piuttosto a incarichi fortemente personalizzati, capaci di condurre all’autorealizzazione e al benessere personale. Crescono, in sostanza, le aspettative che le persone riversano nel contesto lavorativo. Attese a spinta individuale, che sono dettate da esigenze motivazionali e dal desiderio di reali prospettive di carriere, piuttosto che dalle sole condizioni economiche. Anche l’atteggiamento dei collaboratori e delle collaboratrici che vivono una condizione di diversità per orientamento sessuale cambia nel momento in cui percepiscono l’interesse che l’organizzazione ha nei loro confronti. Gli/le stessi/e saranno spontaneamente indotti/e a migliorare la performance individuale e di gruppo, con conseguente incremento del risultato economico dell’azienda. IBM USA, che è stata tra le prime aziende a introdurre nel 1984 l’orientamento sessuale nell’ambito delle proprie politiche contro le discriminazioni, ha esteso, fin dagli anni Novanta, la propria politica di DM non solo ai/alle partner dei/delle propri/e lavoratori e lavoratrici LGBT, ma anche ad altre dimensioni della comunità omosessuale, sponsorizzando eventi e manifestazioni come le “Gay Pride Parade” (in cui i/le dipendenti omosessuali di IBM espongono una bandiera a barre colorate dalla scritta “Think IBM”) o finanziando borse di studio per studenti e studentesse LGBT. Nel 2010 IBM ha ottenuto il punteggio massimo dell’indice americano “Corporate Equality Index” (Human Rights Campaign), è giunta al primo posto nello “Stonewall Workplace Equality Index” (Associazione Stonewall) e nell’ “International Business Equality Index” (ILGA Europe – employment), sviluppato da IGLCC (International Gay & Lesbian Chamber of Commerce). Risultati raggiunti attraverso la combinazione di una strategia top-down (ossia, pieno supporto dell’alta direzione) e bottom-up (ossia, attivismo delle lavoratrici e dei lavoratori).
In questo caso, come in molti altri, il bilanciamento tra vita privata e professionale viene considerato una condizione essenziale per il benessere dei lavoratori e delle lavoratrici, i/le quali sono incentivati/e a fare coming out e a vivere la propria biografia con ‘naturalezza’. Studi sul coming out in luoghi di lavoro hanno dimostrato un impegno organizzativo e una soddisfazione professionale superiore nei lavoratori e nelle lavoratrici omosessuali, così come una sensibile riduzione dell’ansia da lavoro, conflitti di ruolo o conflitti lavoro-casa (Day e Schoenrade, 1997; Griffith e Hebl, 2002). Per questi motivi sono sempre più numerose oggi le aziende che dichiarano di ricercare e attingere talenti dalla comunità omosessuale (come recentemente il famoso brand americano Starbucks), di servirsi di prodotti e servizi provenienti da fornitori gay e lesbiche, e di distribuire i propri articoli ad amministratori, dirigenti e consumatori di orientamento sessuale omosex.

Sono diversi e oramai sempre più diffusi i metodi di misurazione dei comportamenti e delle azioni gay-friendly o di inclusione delle persone LGBT delle aziende che applicano norme e dispositivi di DM, come si è visto prima nel caso di IBM. Si tratta perlopiù di indici sintetici che misurano attività e performances di aziende, gruppi di lavoro, società multinazionali in relazione alle politiche di DM rispetto alle persone LGBT e che includono indicatori principali quali l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Uno degli esempi più significativi è l’ “International Business Equality Index” (IBEI). Si tratta di un indice, di tipo algebrico eventualmente ponderato sul tipo di azienda o sul numero di dipendenti, che rileva e valuta le strategie di policies legate alla dimensione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere dei/delle propri/e dipendenti, dei fornitori e degli stessi consumatori, attraverso la misurazione dell’impegno aziendale (commitment) nei confronti della comunità LGBT a livello globale. In questo modo è possibile avere un’idea del progresso avvenuto e dei traguardi raggiunti nell’area in esame dalle diverse organizzazioni su scala internazionale. L’aspetto innovativo dell’IBEI è quello di essere stato il primo indice ad analizzare i fattori di virtuosità e di criticità del DM aziendale a livello mondiale, andando oltre il contributo fornito da indicatori come il “Corporate Equality Index” (CEI) negli Stati Uniti e il “Workplace Equality Index” dell’Associazione Stonewall in Inghilterra, che operano solamente sul territorio nazionale. Il vantaggio che ne consegue è quello di poter comparare il grado di implementazione delle proprie politiche all’interno dei Paesi in cui l’azienda ha sede e di compararlo altresì a quello di altri competitor. Al di là di specificità legate alla metodologia, l’IBEI e perlopiù tutti gli altri indici che misurano il trattamento delle differenze nelle politiche di DM hanno il pregio di essere incentrati su indicatori che rilevano l’ampiezza dell’inclusività LGBT, dentro e fuori l’azienda.

Gli indicatori che servono a calcolare gli indici includono:

  • Politiche e regolamenti di non discriminazione basati sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e l’espressione di genere;
  • L’inclusione delle dimensioni dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e dell’espressione di genere nella formazione e nell’aggiornamento delle lavoratrici e dei lavoratori;
  • Parità nella distribuzione dei benefits aziendali, anche legati all’accesso al welfare;
  • Adeguata e rispettosa comunicazione nella pubblicità per la comunità LGBT;
  • Prestazioni di assicurazione sanitaria transgender – inclusive;
  • Rifiuto di ogni attività che comprometterebbe l’obiettivo della parità di diritti per le persone LGBT.

Ma quali potrebbero essere, anche nel nostro Paese, i benefici derivanti dalla diffusione delle politiche di DM? Attraverso l’adozione di queste pratiche le aziende possono trarre benefici diretti (sulle prestazioni e sul clima organizzativo) e benefici indiretti (contribuendo a migliorare gli ambienti di lavoro). In termini generali, gli impatti positivi delle politiche di DM si possono sviluppare su tre differenti livelli:

  • a livello macro, ossia a livello di società e di sistema economico, hanno un impatto positivo sulla creatività, sull’innovazione e sulla crescita economica. L’indice di creatività di Florida (2002) mostra come la presenza di un’ampia comunità LGBT in contesti territoriali abbia una ricaduta positiva anche a livello economico;
  • a livello meso, ossia a livello di singola azienda, hanno un impatto positivo sulle prestazioni aziendali (in termini di valore dell’indice azionario, di fatturato, di quota di mercato, di risultato economico) (Wang e Schwarz, 2010);
  • a livello micro, ossia a livello di gruppo di lavoro e/o di singolo lavoratore o singola lavoratrice, riducendo il minority stress (Lingiardi, 2007) si crea una relazione positiva tra livello di commitment e soddisfazione lavorativa del personale LGBT. Inoltre, tale relazione si rafforza nel caso in cui le politiche antidiscriminatorie siano supportate esplicitamente dal top management.

In linea con questo approccio la diversità legata al genere e all’orientamento sessuale nella gestione delle relazioni di lavoro rappresenta un processo ancora da implementare in Italia, soprattutto un universo ancora da governare efficacemente dal punto di vista delle politiche aziendali e delle relazioni industriali, ma anche da quello specificamente di carattere culturale: ci si riferisce alla necessità di far evolvere la cultura organizzativa, quella imprenditoriale e gestionale, ma anche quella più propriamente politica.
La ricerca scientifica e la sperimentazione di metodologie di misurazione delle politiche e delle strategie di DM mostrate dall’esperienza statunitense introducono un nuovo modo di fare lavoro. Un modello basato sul potenziamento relazionale, su quello individuale e finanche su quello familiare, tendente a ridurre gli ostacoli alla mobilità sociale ex ante piuttosto che riparare i danni ex post. Tutto questo è realizzabile con l’identificazione e la misurazione delle migliori politiche e prassi esistenti in Europa e di quelle, rarissime, avviate in Italia, come dimostra la ricerca condotta da Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford per conto di UNAR nel 2011-2012 (Gusmano e Lorenzetti, 2014).

Bibliografia

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Hermaphrodites with Attitude: l’evoluzione dei movimenti e dell’attivismo su intersessualità e DSD http://www.portalenazionalelgbt.it/hermaphrodites-with-attitude-levoluzione-dei-movimenti-e-dellattivismo-su-intersessualita-e-dsd/ Fri, 01 Aug 2014 08:07:05 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1410 A cura di Daniela Crocetti, Ph.D. in Science, Technology and Humanities, Università degli Studi di Bologna.

Nel 1993 la biologa femminista Anne Fausto-Sterling pubblicò un articolo su “The Sciences” (dal titolo “I cinque sessi”) in cui svelava al grande pubblico statunitense ‘l’esistenza’ dell’intersessualità. In risposta, Cheryl Chase, una donna intersessuale, scrisse una lettera a “The Sciences” annunciando la fondazione della Intersex Society of North America (ISNA), ovvero la prima associazione di persone intersessuate del Nord America. Numerose persone lessero sia l’articolo che la lettera e cominciarono a scrivere a Chase, dando così vita alla fine dello stesso anno all’ISNA.

Chase decise di fondare l’associazione a partire dalla propria esperienza personale: la riassegnazione di sesso durante l’infanzia, la vergogna indotta dalla medicalizzazione, il disinteresse da parte dei medici rispetto a ciò che le era successo. La scintilla che innescò l’idea – racconta Chase – fu la partecipazione nel 1993 ad un incontro organizzato dai membri di Transgender Nation in cui donne transgender operate si scambiavano storie e godevano della libertà di nuotare e prendere il sole nude. Quell’esperienza fu talmente positiva per Chase che tornò a casa determinata a trasmettere il significato liberatorio di questa azione alle persone intersessuate: era possibile, infatti, superare il sentimento di rifiuto e di vergogna per il proprio corpo medicalizzato e per la propria storia.

Nel 1994 nasce “Hermaphrodites with Attitude”, ovvero un forum e una rivista omonima gestiti dall’associazione ISNA. Se agli inizi questo spazio di confronto aveva soprattutto la funzione di gruppo di sostegno, presto si trasformò in un gruppo attivista: i suoi membri – che condividevano storie simili di medicalizzazione e che provenivano dal femminismo o dalla politica queer – iniziarono a criticare le modalità con cui l’intersessualità era stata inutilmente patologizzata dal punto di vista sociale e medico. In un primo tempo, le critiche mosse da ISNA erano riconosciute come legittime da pochissimi medici: molti, infatti, si nascondevano dietro l’efficacia del protocollo di cura, definendolo come necessario, anche al punto di sostenere attivamente la scelta di mentire ai pazienti rispetto alle loro storie mediche.

Per portare avanti la propria causa ISNA cominciò a tessere delle reti di supporto e confronto con altri gruppi: in primo luogo con gruppi del movimento trans con cui manifestarono nel corso di convegni medici per richiedere che tutti gli interventi chirurgici sui genitali venissero posticipati all’età del consenso e, soprattutto, che la persona ne venisse correttamente informata. Successivamente ISNA ampliò la propria rete di contatti ed interlocutori, sia nel mondo accademico che, gradualmente, nel mondo medico. Per perorare la propria causa ISNA sottolineò da subito la similitudine tra le mutilazioni genitali femminili (MGF) e gli interventi chirurgici fatti su certe sindromi intersessuali poiché entrambi miravano a far aderire il corpo ad un standard sociale e, allo stesso tempo, negavano il raggiungimento del piacere sessuale al soggetto femminile.
Nel corso degli anni ISNA si concentrò sempre più sulla pratica medica, sollecitando un cambiamento del protocollo di cura. Il gruppo che ne prese l’eredità da quando ISNA concluse le proprie attività nel 2007, The Accord Alliance, infatti lavora in stretta collaborazione con medici e accademici. Numerose altre associazioni nate successivamente, invece, lavorano sul fronte informativo (Intersex Initiative), dei diritti umani (Advocates for Informed Choice), della militanza (OII), o semplicemente come gruppo di sostegno rispetto alle esperienze individuali.

Sebbene ISNA sia stata la prima associazione politicizzata e militante che ha lavorato per i diritti delle persone intersessuali con lo scopo di destabilizzare la visione eteronormativa alla base della violenza sui corpi intersessuati, già negli anni ’80 erano presenti alcuni gruppi di sostegno, ciascuno dei quali impegnato su una sindrome precisa. Il gruppo di sostegno americano, Turner’s Syndrome Society, che comprende parenti e persone con la sindrome di Turner (che provoca la presenza del solo cromosoma di sesso X), venne fondato nel 1987. L’anno successivo in Gran Bretagna una madre costituì il primo gruppo per la sindrome di insensibilità agli androgeni (AIS) in cui i cromosomi cosiddetti maschili, XY, portano ad un sviluppo corporeo femminile, ma con le gonadi interne maschili. Nel 1989 un’altra madre fondò un gruppo per la sindrome di Klinefelter, una delle sindromi più frequenti (1 caso ogni 7.000 nascite), in cui è presente un terzo cromosoma sessuale (XXY).

La storia dell’attivismo italiano nell’ambito dell’intersessualità ha seguito una strada ibrida (tra sostegno alle persone e attivismo politico) rispetto agli scenari appena descritti. Klinefelter Italia Onlus (KIO) è stata fondata nel 2004 e ad oggi ci sono numerosi gruppi Klinefelter che operano a livello locale. KIO agisce per la maggior parte come gruppo di sostegno, fornendo momenti di incontro e d’informazione, ma lotta anche contro la disinformazione medica e per una ricerca maggiormente approfondita rispetto alla salute delle persone intersessuate. Inoltre, le persone con sindrome di Klinefelter, molto spesso uomini eterosessuali, sono sovente bersaglio di discriminazioni a sfondo omofobico poiché portatori di caratteristiche considerate ‘femminili’: per questa ragione l’associazione ha un’esplicita vocazione contro l’omofobia e gli stereotipi legati al genere e all’orientamento sessuale.
AISIA (Associazione Italiana Sindrome da Insensibilità agli Androgeni) è nata nel 2006, a partire da un piccolo gruppo di persone con la Sindrome da Insensibilità agli Androgeni (AIS) e dai loro genitori che si costituisce in associazione e inaugura la propria vita associativa prendendo parte all’ “International Meeting on Anomalies of Sex Differentiation”. Il gruppo si occupa principalmente di AIS, ma non è rivolto solo alle persone con questa sindrome ed ha la volontà di accogliere persone intersessuate ed i loro parenti indipendentemente dal tipo di sindrome. Sin dall’inizio AISIA si è mossa su diversi fronti, frequentando tutti i convegni medici sull’argomento, cercando interlocutori nel mondo medico, organizzando eventi di scambio e incontro tra membri e stakeholder, fornendo servizi di screening gratuiti sia rispetto alla terapia ormonale che alla diagnosi. AISIA ha anche avviato una collaborazione con diversi psicologi italiani e inglesi che promuovono sia la comunicazione completa della diagnosi sia una maggiore attenzione alla sessualità femminile, fondando un comitato scientifico per agevolare la comunicazione tra il gruppo e i medici di riferimento. La partecipazione di AISIA ai convegni medici è finalizzata a sensibilizzare rispetto alla perdurante mancanza di consenso informato e alle pesanti conseguenze degli interventi chirurgici non consensuali.
Infine nel 2013 è nato Intersexioni, un gruppo attivista composto anche da persone intersessuate. Il collettivo Intersexioni lavora su diversi fronti: non solo sull’intersessualità, ma anche sul sessismo, il razzismo, la violenza di genere, il bullismo e l’omo-transfobia, considerando l’eteronormatività come lo scenario di fondo di tutti questi fenomeni, con l’obiettivo di sviluppare azioni inclusive di ampio respiro.
Proprio a partire da un principio di inclusione e trasversalità delle rivendicazioni legate al genere e alla sessualità, oggi la lettera ‘I’, che sta a indicare le persone intersessuate, viene inclusa nell’acronimo ‘LGBT’ che indica il movimento lesbico, gay, bisessuale e transgender, con lo scopo di sottolineare gli obiettivi comuni di critica e messa in discussione dell’eteronormatività e della dualità dei sessi espresse dalla cultura occidentale e contribuire a sostenere le rivendicazioni specifiche del movimento intersessuale.

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