Lavoro – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Orgoglio e pregiudizio: le persone LGB al lavoro http://www.portalenazionalelgbt.it/orgoglio-e-pregiudizio-le-persone-lgb-al-lavoro/ Wed, 03 Dec 2014 08:00:32 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1938 A cura di Fabrizio Botti, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Perugia, e Carlo D’Ippoliti, Dipartimento di Scienze Statistiche, La Sapienza Università di Roma.

Il mito del ‘gay ricco’ e privilegiato (normalmente declinato solo al maschile) è antico quanto la consapevolezza dell’esistenza di orientamenti omo e bisessuali e può esser fatto risalire almeno al primo medioevo, durante la fase di ruralizzazione della civilizzazione romana, a partire dalla quale si attribuirono all’omosessualità molte delle debolezze delle classi dominanti (Boswell, 1980). Nonostante la sua traiettoria non lineare anche durante il XX secolo, lo stereotipo della presunta agiatezza continua oggi a essere applicato all’intera comunità LGB, equiparata senza distinzioni a un’élite privilegiata o a una potente lobby globale, spesso con l’obiettivo di soffocarne le istanze politiche.

A partire dagli Stati Uniti assistiamo però negli ultimi 20 anni a una crescita della ricerca scientifica in campo socio-economico, prevalentemente di natura empirica, sulla popolazione LGB. Sin dalla raccolta dei primi dati significativi, con il censimento della popolazione statunitense del 2000, appare tuttavia evidente come la distorsione ‘nel campione’ che può essere osservato dagli studiosi possa contribuire addirittura al rafforzamento del mito del gay ricco (Badgett, 2001). Ovvero, solo le persone relativamente più benestanti tra gli individui LGB decidono – o possono permettersi – di essere visibili in quanto tali, e di conseguenza la maggioranza delle persone, quantomeno a livello sociale, viene a conoscenza solo di persone LGB relativamente agiate. Indagini più approfondite hanno però evidenziato una forte vulnerabilità degli individui in coppie dello stesso sesso alla povertà e all’esclusione sociale, e che fattori come il genere, l’appartenenza a minoranze etniche e l’ubicazione dell’abitazione influenzino i tassi di povertà nella popolazione LGB (Albelda et al., 2009; Badgett et al., 2013). Negli Stati Uniti, che per la maggiore disponibilità di dati costituiscono il caso di studio più esplorato, i tassi di povertà di donne e afroamericani in coppie omosessuali sono rispettivamente superiori del 1.9% e del doppio rispetto alle loro controparti in coppie di sesso differente; un terzo delle coppie lesbiche e il 20.1% di quelle gay maschili con un’istruzione inferiore a quella secondaria sono povere contro il 18.8% della loro corrispondente popolazione eterosessuale; la probabilità di essere poveri quando si vive al di fuori delle grandi aree metropolitane è rispettivamente maggiore per le coppie lesbiche e gay del 9.6% e del 6.9% e questa evidenza si traduce in condizioni di particolare vulnerabilità per i/le figli/e delle coppie dello stesso sesso specialmente nella comunità afroamericana.

La discriminazione in ambito lavorativo rappresenta il campo di ricerca più consolidato in ambito economico, in particolare nello studio della gestione del personale e delle condizioni di lavoro nelle imprese, e delle remunerazioni dei lavoratori dipendenti (per una rassegna si rimanda a D’Ippoliti e Schuster, 2011). I lavoratori omosessuali risultano più vulnerabili rispetto a quelli eterosessuali nell’accesso alla formazione e nelle fasi di assunzione, avanzamento della carriera e licenziamento. Le discriminazioni durante il processo di assunzione possono avvenire nel momento del confronto dei curricula come durante i colloqui (Drydakis, 2009; Weischselbaumer, 2003), così come comportamenti auto-discriminatori spesso inducono a decisioni non ottimali (quali astenersi dal presentare candidature in settori o imprese di cui si teme una presunta maggiore ostilità). In Italia, un esperimento condotto da Patacchini et al. (2012) attraverso l’invio di CV fittizi ha mostrato una probabilità più bassa per i candidati omosessuali di essere richiamati per un colloquio di lavoro dopo aver risposto ad un annuncio (-30% per i CV che nello specifico indicavano la partecipazione ad associazioni LGB), ma non per le candidate lesbiche. Curtarelli et al. (2004) documentano un’alta percezione del rischio di ricevere reazioni negative al coming out in ambito lavorativo, mentre le ripercussioni sull’avanzamento di carriera assumono la forma di molestie, mobbing e arrivano addirittura al licenziamento. La mancanza di studi specifici sulle discriminazioni nella fase di licenziamento non deve ridimensionare, ad esempio, il potenziale discriminatorio indiretto e la problematicità delle procedure per la selezione dei lavoratori soggetti a mobilità o posti a carico della Cassa Integrazione Guadagni (CIG), in cui un criterio fondamentale per la selezione del personale posto in CIG è il concetto di ‘familiari a carico’, che nel nostro paese diviene potenzialmente discriminatorio nella misura in cui le famiglie delle persone LGB non sono giuridicamente riconosciute.

Numerose indagini statistiche si sono occupate di valutare il ruolo dell’orientamento sessuale nello spiegare i differenziali salariali tra persone LGB ed eterosessuali (una rassegna completa è fornita in Botti e D’Ippoliti, 2014). Un’evidenza consolidata a livello internazionale (che quindi stavolta riguarda anche Italia, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e Germania, tra gli altri) segnala l’esistenza di discriminazione nella remunerazione dei lavoratori gay, mentre risultati più contraddittori emergono riguardo le retribuzioni delle lavoratrici lesbiche. Seppure i redditi di queste ultime rimangano inferiori rispetto a quelli dei colleghi uomini, e il reddito familiare risulti quindi generalmente inferiore a quello di una coppia eterosessuale, in alcuni studi le lavoratrici lesbiche mostrano retribuzioni relativamente maggiori della media delle lavoratrici (soffrirebbero quindi meno del gender pay gap).
Questi risultati hanno dato luogo a interpretazioni contrastanti, che da un lato hanno enfatizzato l’associazione tra orientamenti sessuali e preferenze (e/o competenze) non osservabili (‘effetto selezione’), mentre dall’altro si sono concentrate sui meccanismi discriminatori prevalenti nei luoghi di lavoro (‘effetto discriminazione’). Secondo la prima interpretazione, coerente con la teoria economica cosiddetta neoclassica della specializzazione familiare, assumendo che le decisioni in tema di istruzione (e conseguentemente occupazionali) siano realizzate dopo aver preso coscienza del proprio orientamento sessuale, i differenziali di remunerazione deriverebbero da una specializzazione intra-familiare più bassa nelle coppie LGB rispetto alle famiglie ‘tradizionali’. Ovvero, i lavoratori gay non punterebbero tutto sulla carriera quanto gli altri uomini (finendo con maggiore probabilità in impieghi tradizionalmente ‘femminili’, a più bassa remunerazione), e le lavoratrici lesbiche non si dedicherebbero alle attività domestiche quanto le altre donne (scegliendo di investire in una istruzione più orientata al mercato del lavoro), con le conseguenze sugli stipendi di cui si è detto.
Altri studiosi legano piuttosto i differenziali salariali a comportamenti discriminatori nel mercato del lavoro, derivanti da omofobia ed eterosessismo (Badgett, 1995; Klawitter e Flatt, 1998; Arabsheibani et al., 2005).

In Italia, un nostro studio sui dati dell’ “Indagine sui bilanci delle famiglie italiane” della Banca d’Italia (2006, 2008, 2010) rappresenta forse il primo tentativo di quantificare l’inclusione sociale delle persone LGB, intesa come abilità e possibilità individuale di partecipare pienamente alla vita sociale, in vari ambiti: lavorativo, abitativo, sanitario, nell’istruzione e formazione, oltre che nelle politiche sociali (Botti e D’Ippoliti, 2014). Nonostante i diversi criteri di identificazione del campione LGB adottati nella letteratura, coerentemente con molti degli studi precedentemente citati, per l’assenza di dati migliori abbiamo dovuto limitarci all’osservazione di coppie di persone conviventi: possiamo dunque supporre che i conviventi in coppie dello stesso sesso siano una parte della popolazione omosessuale e bisessuale, ma non possiamo dir nulla sulle persone trans e sulle persone omosessuali che non vivono in coppia. Il vantaggio dei dati da noi utilizzati è che ci permette di distinguere le coppie non dichiarate esplicitamente ma identificate di fatto dai rilevatori dell’indagine da quelle che decidono spontaneamente di qualificarsi come tali (rimandiamo al lavoro completo per un quadro dei diversi criteri di identificazione del campione LGB e per maggiori dettagli riguardo alla metodologia usata).

Tabella1_Articolo

Fonte: Botti e D’Ippoliti, 2014

Come si vede dai dati riassunti nelle tabelle, dalla nostra analisi emerge che le persone in coppie dello stesso sesso lavorano in media meno (non sappiamo se per scelta o per impossibilità) di quelle in coppie di sesso diverso, e questo è vero soprattutto per le coppie non dichiarate che si trovano inoltre a lavorare maggiormente con contratti precari o di breve durata. Dal punto di vista reddituale, le persone in coppie dello stesso sesso dichiarate ottengono una retribuzione oraria approssimativamente simile a quella del resto della popolazione, seppure i loro redditi annui siano più bassi in considerazione del ridotto numero di ore settimanali passate al lavoro.

Tabella2

Fonte: Botti e D’Ippoliti, 2014

Le persone in coppie dello stesso sesso non dichiarate guadagnano invece significativamente meno, sia all’ora che all’anno. In generale, un’analisi più approfondita, che tiene conto di una serie di caratteristiche osservabili individuali e di contesto del campione italiano di riferimento, ha evidenziato livelli di esclusione sociale (quindi non solo lavorativa, ma anche relativa ai livelli di istruzione, alla povertà monetaria, alle condizioni abitative ed al benessere percepito soggettivamente) sistematicamente maggiori per i lavoratori e le lavoratrici omosessuali in confronto al resto della popolazione e particolarmente per chi non si è dichiarato.

Complessivamente, dunque, la nostra analisi mostra non solo quanto gli individui in coppie dello stesso sesso siano penalizzati nel mercato del lavoro (oltre che in altre dimensioni di inclusione sociale), ma come la popolazione LGB costituisca un gruppo sociale eterogeneo (al di là della consueta distinzione tra uomini e donne omosessuali) al cui interno sembrano essere coloro che non dichiarano esplicitamente il proprio orientamento sessuale a presentare le condizioni socio-economiche peggiori. Risultati che confermano anche per l’Italia quanto lontani siano gli stereotipi sulle persone LGB dalla loro realtà quotidiana, fatta più spesso di magri salari che di party lussuosi.

Bibliografia

]]>
La transessualità nei contesti lavorativi: ambiti di intervento e buone prassi http://www.portalenazionalelgbt.it/la-transessualita-nei-contesti-lavorativi/ Tue, 02 Dec 2014 11:59:00 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1942 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa e componente del gruppo redazionale della Rete RE.AD.Y, alla quale è attribuita la responsabilità dei contenuti e delle indicazioni fornite.

 

La popolazione transessuale e transgender, a differenza di quella omo/bisessuale, molto spesso non può scegliere di rendere invisibile la propria identità di genere, o perché i documenti non rispecchiano il genere scelto, o perché il percorso di transizione comporta dei cambiamenti visibili. Per tale ragione che rende le persone trans piú vunerabili in un mercato del lavoro già reso meno accessibile dalla crisi economica, il presente approfondimento focalizza l’attenzione sulle buone prassi che si possono mettere in pratica al fine di promuovere una miglior integrazione e accoglienza delle persone transgender e transessuali nel contesto lavorativo. Da un punto di vista organizzativo, non si tratta solo di rafforzare le competenze delle risorse umane per la programmazione delle attività, ma anche e soprattutto di costruire procedure amministrative e ambienti lavorativi in grado di garantire efficaci sistemi di gestione e di partecipazione nei diversi ambiti di policy. Non è superfluo ricordare che è nell’interesse del datore e della datrice di lavoro creare degli spazi in cui il/la lavoratore/trice transessuale possa sentirsi a proprio agio nella gestione della propria identità, in quanto vivere serenamente la propria identità sessuale (cosí come qualunque altro aspetto dell’identità) al lavoro significa anche produrre dei risultati positivi in termini di soddisfazione personale, rendimento, lavoro di gruppo, fiducia e integrazione.
Per quel che concerne l’integrazione accogliente delle persone transessuali, sono stati individuati i seguenti ambiti di policy all’interno dei quali istituzioni, parti sociali, professioniste/i e terzo settore possono realizzare delle azioni positive:

  • conduzione di studi e ricerche, tanto sull’esperienza lavorativa delle persone trans quanto sulla normativa vigente;
  • accesso al lavoro;
  • condizioni di lavoro (codici etici, linee guida, tutela sul luogo di lavoro);
  • formazione e qualificazione professionale del personale in servizio sulle tematiche dell’identità di genere e della transessualità;
  • diversity management;
  • sportelli di orientamento, supporto e tutela legale.

Vediamo ora nel dettaglio ciascuno di questi punti, segnalando alcune buone prassi che possono essere attivate a partire dalle esperienze nazionali e internazionali (si rimanda alla banca dati per l’approfondimento dettagliato di ciascuna esperienza citata).

Studi e ricerche

Uno dei primi ostacoli a una valutazione delle condizioni di lavoro delle persone LGBT è la scarsità di informazioni e dati attendibili su cui basare le politiche: il mercato del lavoro, benché sia uno dei settori tutelati dalle direttive europee sin dal 2000, presenta ancora molte lacune conoscitive in merito alla popolazione LGBT a causa dell’invisibilità mantenuta in uno degli ambiti che viene visto tra i più ostili, considerato anche il fatto che da esso dipende l’autonomia, prima di tutto economica, di chiunque voglia rendersi indipendente dalla famiglia. Nel 2011 l’Istat ha condotto, per la prima volta, una ricerca, intitolata “La popolazione omosessuale nella società italiana”, per rilevare le opinioni e gli atteggiamenti della cittadinanza nei confronti delle persone omosessuali (e, soltanto marginalmente, nei confronti delle persone transessuali) e le difficoltà che queste ultime incontrano nella famiglia e nella società, con riferimento anche alle discriminazioni che subiscono nell’accesso al lavoro e sul posto di lavoro. Ma la prima ricerca a livello nazionale che affronta in modo specifico e approfondito la situazione delle persone LGBT sul luogo di lavoro e analizza le discriminazioni a cui sono sottoposte è “Io sono, io lavoro”, finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e promossa da Arcigay Nazionale, e risale anch’essa al 2011. Tra settembre 2011 e luglio 2012, Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford ha, invece, condotto una ricerca, finanziata dal FSE (Fondo Sociale Europeo), volta a censire ed analizzare le buone prassi realizzate a livello internazionale per il superamento delle discriminazioni nei confronti delle persone LGBT in ambito lavorativo, allo scopo di valutare la loro replicabilità nelle Regioni Obiettivo Convergenza (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) attraverso la costituzione di Tavoli Tecnici regionali (Gusmano e Lorenzetti, 2014).

La conduzione di studi e ricerche, dunque, risulta essere un valido primo passo per legittimare le azioni positive nei confronti della popolazione LGBT: una volta che le difficoltà e i bisogni vengono rilevati, è dovere dell’amministrazione pubblica, così come delle aziende che vogliano tutelare la propria immagine sociale, provare a sviluppare delle strategie di pari opportunità, integrazione e lotta alla discriminazione.
Sempre nell’ambito della conduzione di ricerche, è importante fare uno studio approfondito in merito alla normativa vigente e agli strumenti che sono disponibili in Italia per arginare fenomeni di discriminazione sul posto di lavoro.
In entrambi i casi, la collaborazione con le istituzioni, le associazioni di categoria, le organizzazioni sindacali e il terzo settore permette di dare maggior legittimità alle ricerche, soprattutto se vi prende parte un’Università o un istituto di ricerca.
Fondamentale, da questo punto di vista, è individuare specifici target di riferimento, evitando di riprodurre lo stereotipo attraverso il quale le esperienze degli uomini FtM (da femmina a maschio) possono essere accomunate a quelle delle donne MtF (da maschio a femmina), o secondo cui le esperienze legate all’orientamento sessuale possono essere assimilate a quelle relative all’identità di genere. Allo stesso modo, un’ulteriore accortezza è non accomunare le esperienze di chi lavora in settori professionali completamente diversi (il settore pubblico è diverso dal privato; una piccola azienda è diversa da una multinazionale; le forze armate hanno una specificità interna; e così via), tenendo conto di quanto il genere e la provenienza etnica possano costituire dei fattori di discriminazione multipla che aggravano la condizione di vulnerabilità di taluni soggetti.
Inoltre, considerato il contesto economico poco favorevole, potrebbe essere utile partire da analisi secondarie di dati già esistenti o cercare dei finanziamenti europei o l’appoggio di organismi internazionali; a questo proposito, segnaliamo in banca dati la ricerca “Straight people don’t tell, do they?” condotta all’interno di un progetto Equal.

Accesso al lavoro

L’accesso al lavoro comprende tutte quelle fasi che permettono a un individuo di incontrare la propria posizione nel mercato lavorativo, ovvero le fasi di orientamento, ricerca, formazione in ingresso e accompagnamento al lavoro. Dato il contesto economico non favorevole, sarebbe attualmente piú corretto parlare di azioni che migliorano le condizioni di accesso al lavoro, dato che, a differenza del passato, ora é molto piú difficile che le suddette fasi si traducano in un concreto contratto di lavoro. Inoltre, i dati a disposizione dimostrano come sia diffusa la pratica di offrire alle persone trans condizioni contrattuali molto penalizzanti facendo leva sulla loro posizione che le rende lavoratrici e lavoratori più facilmente sfruttabili. Come sottolineano gli enti e le associazioni che si impegnano a facilitare l’inserimento lavorativo delle persone transessuali, date le condizioni del mercato del lavoro, é fondamentale qualificare il problema in termini di sperimentazione di un lavoro ‘di qualità’.
Un’opportunità in questo senso é data, quando le risorse lo consentono, dai bandi per l’assegnazione di borse lavoro/tirocini formativi. Un esempio di queste azioni positive é il “POR-FSE 2007/2013” promosso dalla Regione Piemonte per il rafforzamento dell’occupabilità e l’accompagnamento nell’inserimento socio-lavorativo di persone particolarmente svantaggiate e a rischio o vittime di discriminazione. Tra le Province destinate ad attuare il POR, quella di Torino ha previsto la possibilità di fruire, nel corso del 2014, di tirocini di inserimento/reinserimento lavorativo di 4 mesi a 126 persone, 36 delle quali LGBT, prevalentemente transessuali. I punti di forza di questo progetto sono stati il periodo adeguato di ore di preparazione all’avvio del tirocinio formativo (che venivano già retribuite); la presenza di due tutor: uno responsabile degli aspetti lavorativi, e l’altro (denominato life friend) degli aspetti legati all’empowerment individuale; il lavoro di rete tra i servizi del territorio (Servizio LGBT, servizi sociali, centri di salute mentale, SERT), il CIDIGEM (il centro per la transizione di genere dell’Ospedale Molinette), le associazioni LGBT (in particolare il Gruppo transessuali Luna del Circolo Maurice) per la segnalazione delle persone trans da inserire nel progetto; l’attività formativa sulle tematiche LGBT per gli operatori e le operatrici che avrebbero seguito gli inserimenti lavorativi e il seminario finale di sensibilizzazione “Io non discrimino” rivolto al personale dei Centri per l’Impiego e ai/alle rappresentanti delle aziende.
Il fatto che queste misure, oggi, non garantiscano l’accesso al lavoro in termini di formale assunzione, non toglie nulla al loro valore come aumento delle competenze individuali, sviluppo di reti di conoscenze e incremento della propria capacità di relazionarsi con il mondo del lavoro.

Condizioni di lavoro

Con l’espressione ‘condizioni di lavoro’ si intendono tutte le azioni che riguardano il miglioramento delle condizioni lavorative di chi già possiede un lavoro, e prevedono quindi la revisione dei codici etici aziendali, includendo esplicitamente le specificità dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere; la redazione di linee guida inerenti i rapporti sul luogo di lavoro (tra dipendenti, tra dipendenti e datore/datrice di lavoro, tra dipendenti e utenza, tra azienda e fornitori) e di raccomandazioni in merito a come rendere la propria mansione attenta alle diversità che possono essere proprie sia di chi lavora che dell’utenza; le forme di tutela sul luogo di lavoro che includono la collaborazione con i sindacati, le ispezioni nelle aziende, i programmi di lotta alle discriminazioni e le campagne di sensibilizzazione.
Rispetto alle linee guida, segnaliamo in banca dati le proposte dell’associazione trans francese Chrysalide e del Gender Center, associazione australiana per la difesa dei diritti delle persone transessuali.
Per poter attuare in maniera efficace tali politiche è necessario il coinvolgimento delle parti datoriali e sindacali: l’assunzione di responsabilità da parte della dirigenza dell’azienda (o dell’amministrazione pubblica) e la definizione di sanzioni in caso di atteggiamento omofobico o transfobico permettono una maggior visibilità dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT e una loro migliore integrazione nel contesto lavorativo.
Un esempio di buona pratica è la pubblicazione “Transgender worker rights” redatta in Gran Bretagna nel 2010 da UNISON, l’organizzazione sindacale del settore pubblico. Nel testo sono presenti una ricognizione della normativa antidiscriminatoria vigente, che ha come obiettivo l’informazione e la sensibilizzazione in tema di non discriminazione delle persone trans; alcune indicazioni utili per tutti/e i datori e le datrici di lavoro nella gestione del rapporto di lavoro con il lavoratore e la lavoratrice transessuale; alcuni paragrafi specificamente dedicati all’uso dei bagni, delle uniformi e degli spogliatoi. Sul sito web del sindacato, inoltre, è a disposizione un modello di accordo tra datore/datrice di lavoro e lavoratore/trice trans e altro materiale utile. In Italia, ALA Milano Onlus e CGIL hanno redatto una brochure simile a quella di UNISON, aggiornata al 2011, che contiene le stesse indicazioni, applicate al contesto italiano.

Formazione e aggiornamento professionale del personale in servizio sulle tematiche dell’identità di genere e delle transessualità

La formazione professionale sul lavoro, chiamata anche aggiornamento, è un’azione positiva mirata allo sviluppo delle competenze del personale al fine di fornire migliori servizi in termini di accoglienza e di risposta professionale ai bisogni di cittadini/e e utenti trans; di progettare servizi e iniziative che prendano in considerazione la presenza di fruitori e fruitrici trans; di creare un clima rispettoso e accogliente nei confronti di colleghe e colleghi trans. Alcuni esempi di guide alla formazione sono state redatte dall’associazione inglese Stonewall: “Sexual Orientation Employers Toolkit” e “Training: Educating staff about lesbian, gay and bisexual equality”.
Affinché la formazione si riveli efficace, le/i partecipanti devono avere la possibilità di esprimere le proprie aspettative in relazione alla proposta, di tararla sulla base delle proprie esigenze e di verificare la coerenza delle metodologie adottate, concludendo sempre l’attività con un momento di autovalutazione e di proposte di implementazione che coinvolgano il personale anche nella progettazione delle azioni future, valorizzando così la competenza acquisita attraverso la formazione. A tale fine, la formazione deve prevedere l’utilizzo di strategie diverse, funzionali allo sviluppo di momenti cognitivi, esperienziali e relazionali, così da facilitare una crescita personale di consapevolezza sui vari aspetti della condizione LGBT a tutti i livelli organizzativi. Una formazione efficace si ottiene non solo attraverso la trasmissione di competenze, ma soprattutto attraverso la capacità dei formatori e delle formatrici di far emergere le perplessità personali e le difficoltà legate alla non conoscenza del tema trattato: spesso tali posizioni possono presentare dei contenuti transfobici, e l’unico modo per superarli é affrontarli in uno spazio di discussione aperto al dialogo e al confronto.

Diversity Management

Il diversity management è una strategia aziendale che ha come obiettivo dichiarato non solo il miglioramento delle condizioni di lavoro, ma soprattutto la gestione delle diversità come risorsa fondamentale di vantaggio competitivo per l’azienda in un contesto di globalizzazione sempre più complesso. Oltre all’aspetto economico, le altre due ragioni per cui le aziende adottano queste politiche sono riconducibili all’ambito etico (rispetto di una condotta etica dell’azienda, solitamente esplicitata nel codico etico e tesa a restituire un’immagine positiva) e a quello normativo (in osservanza delle leggi contro le discriminazioni).
Le aziende che investono nel diversity management in Italia sono soprattutto le multinazionali, le quali hanno da anni già attivato le azioni basilari di integrazione, quali: coinvolgimento dei vertici aziendali nell’attiva di promozione delle diversità; corsi di formazione per dirigenti e dipendenti; identificazione delle tipologie di diversità presenti in azienda; comunicazione delle attività svolte sia all’interno che all’esterno dell’azienda; azioni costanti di controllo sugli episodi di discriminazione, a cui devono corrispondere delle sanzioni certe; monitoraggio e follow up delle azioni implementate; creazione di reti interne all’azienda tra lavoratori e lavoratrici LGBT, fornendo tutto il supporto logistico e tempistico di cui necessitano per portare avanti le proprie azioni.
A livello europeo le pubblicazioni rispetto alle buone prassi attivate in questo ambito sono numerose, per una rassegna delle stesse si rimanda al materiale presente in banca dati: “The business case for diversity”; “Changing for the better”; “Going beyond the law: promoting equality in employment”.
Sul piano nazionale il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio e l’UNAR da alcuni anni promuovono, in collaborazione con altri Enti e Associazioni, progetti mirati sul diversity management. Il primo di questi progetti, attivo dal 2007, è “Diversitalavoro”, realizzato in collaborazione con Fondazione Sodalitas, People e Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, e finalizzato a favorire l’incontro delle persone con disabilità, appartenenti alle categorie protette, di origine straniera o transgender, con le aziende che offrono opportunità di lavoro. Due progetti, invece, riguardano nello specifico le Piccole Medie Imprese (PMI) nelle quattro Regioni dell’Obiettivo Convergenza: “Somma Valore” ha l’obiettivo di sensibilizzare tale tipologia di impresa ad un approccio improntato all’integrazione e alla valorizzazione delle diversità nella gestione delle risorse umane; “DiversaMente” si propone di realizzare azioni di diversity management coinvolgendo le persone appartenenti a categorie tradizionalmente discriminate, le PMI, gli Enti pubblici, le Aziende controllate e/o partecipate dalle Regioni e tutti gli stakeholder che si occupano della lotta alla discriminazione, con l’obiettivo di facilitare l’inserimento lavorativo delle persone a rischio di discriminazione. Infine, nel luglio del 2014 è stato lanciato, in collaborazione con Italia Lavoro Spa, “DJ – Diversity on the Job”, un programma sperimentale (finanziato dal Fondo Sociale Europeo e rivolto anch’esso alle quattro Regioni dell’Obiettivo Convergenza) per la promozione dell’inserimento lavorativo di persone fortemente discriminate e svantaggiate. Tale programma, da un lato mira ad avvicinare al mondo del lavoro persone tradizionalmente escluse e, dall’altro, intende stimolare le aziende ad aprirsi al confronto con realtà che spesso non sono prese in considerazione.

Sportelli di orientamento, supporto e tutela legale

Un ultimo ambito di intervento riguarda la creazione di sportelli di orientamento al lavoro, supporto e consulenza legale, spesso aperti sul territorio locale da parte delle associazioni LGBT. Si tratta di spazi aperti al pubblico, in cui le persone vittime di discriminazione sul luogo di lavoro possono trovare tutela legale; in cui i/le inoccupate/i o disoccupate/i possono trovare orientamento alla ricerca del lavoro; a cui le persone già occupate possono rivolgersi per risolvere eventuali problematiche che incontrano sul posto di lavoro. La necessità di tali sportelli si è resa evidente nel corso degli anni, in quanto il personale pubblico impiegato nei Centri per l’Impiego non é sempre adeguatamente formato per rispondere ai bisogni specifici dell’utenza trans: per questo è opportuno avviare specifici percorsi di aggiornamento in collaborazione con le associazioni LGBT del territorio, come ad esempio è avvenuto nella Provincia di Torino nel 2011 all’interno del progetto europeo AHEAD, o come sta avvenendo a livello nazionale grazie alle azioni formative che la Città di Torino, in qualità di Segreteria nazionale della rete RE.A.DY, promuove, in collaborazione con l’UNAR e nell’ambito della Strategia nazionale LGBT, rivolgendosi alle figure dirigenziali dei Servizi per il Lavoro statali, regionali e provinciali.
All’interno della banca dati del Portale, segnaliamo che tutti i servizi di accoglienza trans già presentati all’interno del tema “Identità di genere” forniscono anche supporto in merito alle questioni lavorative: Spo.T Sportello Trans a Torino; SAT Sportello Accoglienza Trans a Verona; Consultorio MIT a Bologna; Consultorio della Salute Ireos a Firenze; Consultorio Transgenere a Torre del Lago (LU); Sportello Trans ALA Milano Onlus; Sportello dell’Associazione Libellula a Roma; inoltre, anche i servizi di sportello attivati da associazioni gay e lesbiche sono spesso competenti per le tematiche inerenti la transessualità. Infine, per maggiori informazioni, segnaliamo lo sportello aperto dall’associazione i Ken in collaborazione con la CGIL di Napoli, lo sportello Milk di Arcigay Napoli, lo sportello legale di DíGayProject a Roma e lo sportello L di Arcilesbica a Bologna. A Milano è inoltre attivo il Servizio Bussola dell’associazione ALA Onlus, che si occupa degli inserimenti lavorativi e/o formativi per persone a rischio di esclusione sociale, e collabora con lo Sportello Trans ALA.

]]>
Diversity management: tutela e indicatori di ‘differenza’ http://www.portalenazionalelgbt.it/diversity-management-tutela-e-indicatori-di-differenza/ Sat, 08 Nov 2014 09:55:44 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2788 A cura di Fabio Corbisiero, Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Nel mare magnum dei cosiddetti hate bias, ovvero di quei comportamenti dettati esclusivamente da pregiudizio cognitivo, lo stigma verso alcune categorie sociali, come le persone omosessuali e transessuali, è ancora molto avvertito. Negli ambienti di lavoro, per esempio, le ricerche sul tema ci mostrano che questo atteggiamento pregiudizievole non è ancora risolto (Levine e Leonard, 1984; Rinaldi, 2013). Studi statunitensi evidenziano che solo il 40% delle lavoratrici e dei lavoratori LGBT denuncia esperienze di trattamento discriminatorio sul posto di lavoro, mentre il 22% delle persone eterosessuali ha ammesso che si sentirebbe a disagio lavorando con colleghi/e omosessuali (Badgett et. al., 2007). A livello europeo, poi, lo stato delle cose non è diverso e l’indagine “EU LGBT survey” mostra alcuni punti critici relativi alla discriminazione delle persone LGBT. Nei diversi Paesi dell’UE una persona intervistata su due si sente discriminata o molestata a causa del proprio orientamento sessuale; una su tre ha subito discriminazioni nell’accesso a beni o servizi; una su quattro è stata aggredita fisicamente; una su cinque è stata discriminata in materia di occupazione o impiego. Altre autrici (Cimaglia M., “Orientamento sessuale e identità di genere nel diritto del lavoro”, in Corbisiero, 2013) avrebbero accertato che lavoratrici e lavoratori omosessuali e transessuali possono subire persino mobbing e licenziamento, nonostante la legge italiana con il decreto legislativo 216 del 2003 lo vieti. In Italia il 40,3% delle persone omosessuali ha dichiarato di essere stata discriminata nella ricerca di un lavoro (29,5%) o sul posto di lavoro (22,1%), a fronte di percentuali più ridotte relative agli eterosessuali, rispettivamente pari a 14,2% e 12,7% (Istat 2011). Alcuni studi e indagini empiriche mostrano che la disidentificazione nella ricerca di lavoro o sul luogo stesso di lavoro ha evidenti effetti negativi anche sulla socializzazione professionale, che vanno da una debole partecipazione della lavoratrice e del lavoratore alla vita aziendale (anche informale) alla piena condivisione degli obiettivi aziendali (Corbisiero, 2013; Gusmano, 2008; Sartori, 2011; Woods, 2011).

Data la rilevanza di tali processi, l’invisibilità dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT non solo costituisce un ostacolo alla loro piena affermazione professionale, ma è anche causa dell’assenza di persone omosessuali in diversi segmenti del mercato del lavoro o di una limitata mobilità aziendale. La scarsa partecipazione a reticoli relazionali informali o formali con colleghi/e o gruppi aziendali è infatti uno dei fattori di minore avanzamento di carriera o peggiore performance retributiva; si arriva ad una sorta di auto-discriminazione quando l’aspettativa di essere discriminati/e induce comportamenti non ottimali, come ad esempio non fare domanda di lavoro in certi settori o aziende. In Italia la situazione non è priva di criticità e, al contrario, la tutela di lavoratrici e lavoratori LGBT pare ancora parecchio debole. Poco più di dieci anni fa Barbagli e Colombo (2001) scrivevano:

È sul lavoro che le donne e gli uomini intervistati percepiscono i maggiori rischi di una reazione negativa. Essi possono infatti subire ostacoli ad avanzamenti di carriera, essere emarginati dai colleghi, ricevere aggressioni fisiche o verbali, essere oggetto di ricatti, a volte subire delle molestie, e in qualche caso estremo rischiare la sicurezza del posto di lavoro (p.85).

Il tema del Diversity Management (DM) – strategia aziendale che nasce in ambito organizzativo come progetto per creare una maggiore inclusione di tutti gli individui nelle relazioni sociali informali e nei programmi aziendali formali – tocca solo recentemente le questioni legate al genere e all’orientamento sessuale (Basaglia, 2010). Grazie ad una sempre più diffusa e congrua presenza delle donne nel mercato del lavoro che ‘sostiene’, direttamente o indirettamente, la causa omosessuale e in virtù delle decennali rivendicazioni della comunità LGBT in tema di lavoro, sono diverse le aziende mondiali che hanno recepito l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi organizzativi ai fini dell’aumento della competitività dell’azienda. Sotto questa angolazione critica, la modalità prevalente di DM è quella che cerca di mettere tutte le persone, a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale, in condizioni di lavorare con le stesse regole.
È l’approccio fondato sulla creazione di pari opportunità che, con strumenti prevalentemente normativi e formativi delle minoranze portatrici di differenze, cerca di equiparare le differenze tra tutti i soggetti che partecipano al mercato del lavoro, investendoli di eguali diritti e di eguali opportunità. Un approccio che ha come obiettivo quello di sviluppare nei lavoratori e nelle lavoratrici delle ‘capacità simmetriche’, ovvero capacità di gestire gli stessi ruoli ma con competenze e abilità specifiche, legate al genere. Questo approccio risente, in verità, dei fondamenti della democrazia statunitense, basata sui diritti dell’individuo e su un concetto di società di eguali (discrimination and fairness paradigm).
Le motivazioni per cui una azienda decide di adottare e implementare una politica di DM sono numerose. La crescita delle multinazionali e la diffusione di accordi di collaborazione internazionali, per esempio, hanno avuto come conseguenza l’instaurarsi di un management interculturale che ha dovuto imparare a confrontarsi con culture organizzative differenti. In tal senso, sono aumentati i rapporti di scambio con aziende straniere e con culture sempre più distanti, quali quelle del mondo arabo o dell’est asiatico. Nel recepire l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi teorici, inoltre, le aziende che implementano il DM partono dalla consapevolezza che le diversità esistenti in ciascuna risorsa umana sono funzionali all’organizzazione nel conseguire il vantaggio competitivo.
Ciò consente, per esempio, di ridurre i costi derivanti dal mancato rispetto delle prescrizioni normative sulle pari opportunità lavorative, i costi della selezione e formazione del personale, con particolare riguardo al turn-over del personale con caratteristiche diverse (come nel caso di un lavoratore omosessuale), nonché i costi connessi con la salute e l’assenteismo delle risorse umane.
Per quanto concerne i riflessi sulle persone derivanti da un’efficace gestione delle differenze occorre tener presente che la relazione individuo/lavoro ha subìto un radicale e acuto cambiamento, in forza del quale le risorse umane sono sempre meno interessate ai meri aumenti retributivi, aspirando piuttosto a incarichi fortemente personalizzati, capaci di condurre all’autorealizzazione e al benessere personale. Crescono, in sostanza, le aspettative che le persone riversano nel contesto lavorativo. Attese a spinta individuale, che sono dettate da esigenze motivazionali e dal desiderio di reali prospettive di carriere, piuttosto che dalle sole condizioni economiche. Anche l’atteggiamento dei collaboratori e delle collaboratrici che vivono una condizione di diversità per orientamento sessuale cambia nel momento in cui percepiscono l’interesse che l’organizzazione ha nei loro confronti. Gli/le stessi/e saranno spontaneamente indotti/e a migliorare la performance individuale e di gruppo, con conseguente incremento del risultato economico dell’azienda. IBM USA, che è stata tra le prime aziende a introdurre nel 1984 l’orientamento sessuale nell’ambito delle proprie politiche contro le discriminazioni, ha esteso, fin dagli anni Novanta, la propria politica di DM non solo ai/alle partner dei/delle propri/e lavoratori e lavoratrici LGBT, ma anche ad altre dimensioni della comunità omosessuale, sponsorizzando eventi e manifestazioni come le “Gay Pride Parade” (in cui i/le dipendenti omosessuali di IBM espongono una bandiera a barre colorate dalla scritta “Think IBM”) o finanziando borse di studio per studenti e studentesse LGBT. Nel 2010 IBM ha ottenuto il punteggio massimo dell’indice americano “Corporate Equality Index” (Human Rights Campaign), è giunta al primo posto nello “Stonewall Workplace Equality Index” (Associazione Stonewall) e nell’ “International Business Equality Index” (ILGA Europe – employment), sviluppato da IGLCC (International Gay & Lesbian Chamber of Commerce). Risultati raggiunti attraverso la combinazione di una strategia top-down (ossia, pieno supporto dell’alta direzione) e bottom-up (ossia, attivismo delle lavoratrici e dei lavoratori).
In questo caso, come in molti altri, il bilanciamento tra vita privata e professionale viene considerato una condizione essenziale per il benessere dei lavoratori e delle lavoratrici, i/le quali sono incentivati/e a fare coming out e a vivere la propria biografia con ‘naturalezza’. Studi sul coming out in luoghi di lavoro hanno dimostrato un impegno organizzativo e una soddisfazione professionale superiore nei lavoratori e nelle lavoratrici omosessuali, così come una sensibile riduzione dell’ansia da lavoro, conflitti di ruolo o conflitti lavoro-casa (Day e Schoenrade, 1997; Griffith e Hebl, 2002). Per questi motivi sono sempre più numerose oggi le aziende che dichiarano di ricercare e attingere talenti dalla comunità omosessuale (come recentemente il famoso brand americano Starbucks), di servirsi di prodotti e servizi provenienti da fornitori gay e lesbiche, e di distribuire i propri articoli ad amministratori, dirigenti e consumatori di orientamento sessuale omosex.

Sono diversi e oramai sempre più diffusi i metodi di misurazione dei comportamenti e delle azioni gay-friendly o di inclusione delle persone LGBT delle aziende che applicano norme e dispositivi di DM, come si è visto prima nel caso di IBM. Si tratta perlopiù di indici sintetici che misurano attività e performances di aziende, gruppi di lavoro, società multinazionali in relazione alle politiche di DM rispetto alle persone LGBT e che includono indicatori principali quali l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Uno degli esempi più significativi è l’ “International Business Equality Index” (IBEI). Si tratta di un indice, di tipo algebrico eventualmente ponderato sul tipo di azienda o sul numero di dipendenti, che rileva e valuta le strategie di policies legate alla dimensione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere dei/delle propri/e dipendenti, dei fornitori e degli stessi consumatori, attraverso la misurazione dell’impegno aziendale (commitment) nei confronti della comunità LGBT a livello globale. In questo modo è possibile avere un’idea del progresso avvenuto e dei traguardi raggiunti nell’area in esame dalle diverse organizzazioni su scala internazionale. L’aspetto innovativo dell’IBEI è quello di essere stato il primo indice ad analizzare i fattori di virtuosità e di criticità del DM aziendale a livello mondiale, andando oltre il contributo fornito da indicatori come il “Corporate Equality Index” (CEI) negli Stati Uniti e il “Workplace Equality Index” dell’Associazione Stonewall in Inghilterra, che operano solamente sul territorio nazionale. Il vantaggio che ne consegue è quello di poter comparare il grado di implementazione delle proprie politiche all’interno dei Paesi in cui l’azienda ha sede e di compararlo altresì a quello di altri competitor. Al di là di specificità legate alla metodologia, l’IBEI e perlopiù tutti gli altri indici che misurano il trattamento delle differenze nelle politiche di DM hanno il pregio di essere incentrati su indicatori che rilevano l’ampiezza dell’inclusività LGBT, dentro e fuori l’azienda.

Gli indicatori che servono a calcolare gli indici includono:

  • Politiche e regolamenti di non discriminazione basati sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e l’espressione di genere;
  • L’inclusione delle dimensioni dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e dell’espressione di genere nella formazione e nell’aggiornamento delle lavoratrici e dei lavoratori;
  • Parità nella distribuzione dei benefits aziendali, anche legati all’accesso al welfare;
  • Adeguata e rispettosa comunicazione nella pubblicità per la comunità LGBT;
  • Prestazioni di assicurazione sanitaria transgender – inclusive;
  • Rifiuto di ogni attività che comprometterebbe l’obiettivo della parità di diritti per le persone LGBT.

Ma quali potrebbero essere, anche nel nostro Paese, i benefici derivanti dalla diffusione delle politiche di DM? Attraverso l’adozione di queste pratiche le aziende possono trarre benefici diretti (sulle prestazioni e sul clima organizzativo) e benefici indiretti (contribuendo a migliorare gli ambienti di lavoro). In termini generali, gli impatti positivi delle politiche di DM si possono sviluppare su tre differenti livelli:

  • a livello macro, ossia a livello di società e di sistema economico, hanno un impatto positivo sulla creatività, sull’innovazione e sulla crescita economica. L’indice di creatività di Florida (2002) mostra come la presenza di un’ampia comunità LGBT in contesti territoriali abbia una ricaduta positiva anche a livello economico;
  • a livello meso, ossia a livello di singola azienda, hanno un impatto positivo sulle prestazioni aziendali (in termini di valore dell’indice azionario, di fatturato, di quota di mercato, di risultato economico) (Wang e Schwarz, 2010);
  • a livello micro, ossia a livello di gruppo di lavoro e/o di singolo lavoratore o singola lavoratrice, riducendo il minority stress (Lingiardi, 2007) si crea una relazione positiva tra livello di commitment e soddisfazione lavorativa del personale LGBT. Inoltre, tale relazione si rafforza nel caso in cui le politiche antidiscriminatorie siano supportate esplicitamente dal top management.

In linea con questo approccio la diversità legata al genere e all’orientamento sessuale nella gestione delle relazioni di lavoro rappresenta un processo ancora da implementare in Italia, soprattutto un universo ancora da governare efficacemente dal punto di vista delle politiche aziendali e delle relazioni industriali, ma anche da quello specificamente di carattere culturale: ci si riferisce alla necessità di far evolvere la cultura organizzativa, quella imprenditoriale e gestionale, ma anche quella più propriamente politica.
La ricerca scientifica e la sperimentazione di metodologie di misurazione delle politiche e delle strategie di DM mostrate dall’esperienza statunitense introducono un nuovo modo di fare lavoro. Un modello basato sul potenziamento relazionale, su quello individuale e finanche su quello familiare, tendente a ridurre gli ostacoli alla mobilità sociale ex ante piuttosto che riparare i danni ex post. Tutto questo è realizzabile con l’identificazione e la misurazione delle migliori politiche e prassi esistenti in Europa e di quelle, rarissime, avviate in Italia, come dimostra la ricerca condotta da Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford per conto di UNAR nel 2011-2012 (Gusmano e Lorenzetti, 2014).

Bibliografia

]]>
Lavoro: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/lavoro-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Thu, 06 Nov 2014 11:53:43 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1936 A cura di Tiziana Vettor, Dipartimento dei Sistemi Giuridici, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

In ambito lavorativo la tutela delle persone omosessuali è stata introdotta nell’ordinamento italiano dal d.lgs. n. 216 del 2003 con cui il legislatore ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, intesa come «assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale» (art. 1 d.lgs. 216/2003). Per effetto della trasposizione della direttiva europea, modificata dalla l. n. 101 del 2008 di conversione del d.l. n. 59 del 2008, a seguito una procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea contro l’Italia (n. 2006/2441), lo Statuto dei Lavoratori è stato integrato (art. 2 d.lgs. n. 216/2003) con un espresso divieto di discriminazione di cui all’art. 15 della l. n. 300 del 1970 alle ipotesi di atti o patti diretti a fini di discriminazione basata sull’orientamento sessuale e la “Disciplina dei licenziamenti individuali” di cui alla l. n. 108 del 1990, con la previsione della nullità del licenziamento discriminatorio anche in ragione dell’orientamento sessuale (art. 3 d.lgs. n. 216/2003).

Il decreto legislativo ha determinato l’introduzione nel nostro ordinamento delle nozioni di discriminazione, ‘diretta’, «quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga» (art. 2, 1° co. lett.a, d.lgs. n. 216 del 2003) e ‘indiretta’, «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (art. 2, 1° co. lett.b, d.lgs. n. 216 del 2003).

Tra i comportamenti discriminatori rientrano, per espressa previsione, sia le molestie, intese come quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 del 2003), sia le eventuali istruzioni discriminatorie (ordini) impartite dal datore di lavoro (art. 2, 4° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

L’ambito di applicazione comprende sia il settore privato che il pubblico impiego, e riguarda tutte le fasi in cui si articola il rapporto di lavoro, dall’accesso all’impiego, alle condizioni di lavoro, alla retribuzione, al licenziamento (art. 3 d.lgs. n. 216 del 2003). La tutela giurisdizionale è stata innovata dall’art. 34, 34° co., del d.lgs. n. 150 del 2011 che ha ricondotto tutte le controversie in materia di discriminazione (comprese quelle di cui all’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, all’art. 4 del d. lgs. n. 215 del 2003, all’articolo 3 della l. n. 67 del 2006 e all’articolo 55-quinquies del d.lgs. n. 198 del 2006) nell’ambito del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis, 702-ter, 702-quater c.p.c. (art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011). La disciplina, riguardante la semplificazione dei riti, è inoltre intervenuta a modificare il sistema probatorio previgente, introducendo una parziale inversione dell’onere probatorio, con la conseguenza che spetta ora al convenuto, e non alla presunta vittima, dimostrare l’insussistenza della discriminazione, anche in relazione alla utilizzabilità, ai fini della presunzione della discriminazione, di dati di carattere statistico (art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011). Quanto ai rimedi, sempre ai sensi del d. lgs. 150 del 2011 (art. 28), con l’ordinanza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Il giudice, con il provvedimento ed entro il termine ivi fissato, accertata la condotta discriminatoria può ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate che, nel caso di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente. Invero il d.lgs. n. 216 del 2003, in questo modificato dalla legge n. 101 del 2008, ha esteso il novero dei soggetti legittimati ad agire in giudizio consentendo la rappresentanza, oltre alle organizzazioni sindacali, anche alle associazioni e alle organizzazioni che a diverso titolo si occupano della tutela delle persone discriminate (art. 5, 1° co., d.lgs. n. 216 del 2003) e prevedendo la possibilità di intervenire anche nei casi in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, co. 2° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

Infine, la normativa impone al giudice di tener conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero una ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento.

Lo specifico strumento normativo previsto a tutela delle persone omosessuali ha avuto una scarsa applicazione in sede giudiziale, tanto che risulta reperibile un’unica pronuncia resa dal giudice del lavoro di Bergamo1, confermata in sede d’appello2, con la quale, previo accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese da un noto avvocato italiano, consistenti nell’avere affermato, nel corso di un programma radiofonico, di non voler assumere nel proprio studio avvocati, collaboratori o lavoratori omosessuali, è stata disposta la condanna del medesimo al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla ricorrente Associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford ed a pubblicare l’ordinanza a proprie spese su uno dei principali quotidiani del Paese. Il Tribunale di Bergamo ha ritenuto punibile a norma della direttiva, anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisca o renda maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, richiamando le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (causa “C-81/12 Associatia Accept”, nonché causa “C-54/07 Feryn NV”), chiarendo come sul piano concreto le dichiarazioni possano avere verosimilmente ostacolato o potranno verosimilmente ostacolare in futuro la stessa presentazione di curricula all’avvocato resistente da parte di aspiranti avvocati, collaboratori o dipendenti omosessuali.

La tutela antidiscriminatoria nei confronti dei lavoratori è completata dalla previsione di cui all’art. 21 della l. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato Lavoro) che ha apportato modifiche agli artt. 1, 7 e 57 del d.lgs. n. 165 del 2001. Con essa si prevede che le PP.AA. adottino al proprio interno un “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”, formato da un/a componente designato/a da ciascuna delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello di amministrazione e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione. La novità, costituita dalla previsione normativa di un organismo che assume – unificandole – tutte le funzioni che la legge, i contratti collettivi e altre disposizioni attribuiscono ai Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing da tempo operanti nella Pubblica Amministrazione risiede nell’ampliamento delle garanzie, oltre che alle discriminazioni legate al genere, anche ad ogni altra forma di discriminazione, diretta ed indiretta, che possa discendere da tutti quei fattori di rischio richiamati dalla legislazione comunitaria: età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e lingua, estendendola all’accesso, al trattamento e alle condizioni di lavoro, alla formazione, alle progressioni in carriera e alla sicurezza. Il Comitato ha tuttavia solamente compiti propositivi, consultivi e di verifica e si pone nell’ottica di una ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico. Le modalità di funzionamento dei Comitati unici di garanzia sono disciplinate da linee guida contenute nella Direttiva governativa del 4 marzo 2011 emanata di concerto dal Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Pubblicata, G.U. 11.6.2011, n. 134.

Infine, si potrà accedere a una tutela giuridica anche per colpire trattamenti penalizzanti in ambito lavorativo legati all’identità sessuale, e cioè quando sussista un conflitto tra identità di genere e sesso fisico. È questo quanto ha affermato la Corte di giustizia dell’Unione europea (“P contro S e Cornwall County Council”), la quale ha infatti ricondotto le discriminazioni nei confronti delle persone transessuali nell’ambito delle discriminazioni di sesso (Cfr. “Identità di genere”).

Note:
[1] Tribunale Bergamo, sez. lavoro, ord. 6/8/2014 n. 791
[2] Corte d’Appello Brescia, sez. lavoro, sent. 23/1/2015 n. 529

]]>