Diritti e Diritto – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Famiglie plurali: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/famiglie-plurali-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Fri, 23 Sep 2016 12:48:46 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=5118 A cura di Joëlle Long, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

Nell’ordinamento italiano manca una definizione giuridica unitaria di ‘famiglia’, cioè del nucleo i cui componenti hanno diritto a un trattamento particolare (tendenzialmente premiale) poiché le relazioni interne al gruppo sono ritenute meritevoli di tutela per il loro rilievo sociale.

L’analisi del diritto positivo mostra in effetti che i modelli di famiglia delineati dal legislatore sono plurimi e variano in relazione al contesto di riferimento. Le coppie eterosessuali di conviventi more uxorio possono per esempio accedere alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita (art. 5 legge 40/2004), ma sono escluse dall’adozione dei minorenni abbandonati (art. 6 legge n.184/1983)1. A seguito dell’introduzione delle cosiddette “unioni civili” (legge 20 maggio 2016 n.76, art. 1 c. 11 e ss.), le coppie dello stesso sesso possono godere di un trattamento simile a quello delle coppie coniugate nella relazione “orizzontale” tra i partner , ma non nei rapporti con la prole. Ai fini del ricongiungimento familiare sono considerati ‘familiari’ anche i figli minori del coniuge e i minori sotto tutela (art. 29 TU imm.). Una vecchia norma del codice civile, inoltre, include nella nozione di ‘famiglia’ ai fini dell’individuazione del contenuto del diritto reale di abitazione i prestatori di lavoro domestico conviventi con la famiglia, per esempio colf, tata, badante… (art. 1023 cod. civ.). Infine, nella nozione di ‘famiglia anagrafica’ rilevante per la determinazione della situazione economica di riferimento per l’accesso e la partecipazione ai costi degli interventi e dei servizi sociali (es. asili nido, assegnazione di una casa popolare) sono ricomprese tutte le persone che hanno la stessa residenza anagrafica e sono legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o anche solo da ‘vincoli affettivi’, autocertificati dagli interessati (art. 4 del DPR n. 223/89)2.

Con riferimento specifico alla relazione di coppia, si è sostenuto che la lettera dell’art. 29 comma 1° Cost. («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio») ancori in via esclusiva la nozione di famiglia all’istituto matrimoniale eterosessuale. Secondo l’interpretazione oggi prevalente, tuttavia, la norma ha l’unico effetto di impegnare il legislatore alla tutela dell’unione coniugale tra persone di sesso diverso, senza però precludere la possibilità di interventi legislativi a favore di altri nuclei sociali. Anzi: in forza dell’art. 2 Cost., lo Stato ha il dovere di attivarsi per proteggere i diritti individuali della persona all’interno delle ‘formazioni sociali’, e quindi anche della ‘famiglia’ così come l’individuo sceglie di viverla. In quest’ottica, come già accennato, il legislatore ha riconosciuto alle coppie dello stesso sesso il diritto di formalizzare la loro relazione mediante l’unione civile con conseguenze simili alla celebrazione del matrimonio, pur evitando di qualificare esplicitamente tale unione come “famiglia” (l’art. 1 c. 1 della legge 20 maggio 2016 n.76 la definisce infatti «specifica  formazione  sociale  ai  sensi  degli articoli 2  e  3  della  Costituzione»).Parla invece esplicitamente di vita familiare tra i partner dello stesso sesso la Corte di Cassazione, secondo cui «I componenti della coppia omosessuale… quali titolari del diritto alla ‘vita familiare’ e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche … possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di ‘specifiche situazioni’, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata» (Cass. 4184/2012)4.

Anche per quanto concerne la relazione verticale tra il minorenne e il genitore, la situazione è complessa ed incerta. La giurisprudenza è pacifica nell’affermare che, in forza del principio del migliore interesse del minore, contenuto in nuce nell’art.31 Cost. e poi canonizzato nell’art.3 Conv. ONU dir. infanzia, la condizione di omosessualità non esclude di per sé l’idoneità della persona a svolgere funzioni genitoriali (cfr. in materia di affidamento e diritto di visita a seguito della scissione della coppia genitoriale Cass. civ., sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601; Trib. Genova, 30 ottobre 2013; Trib. Nicosia, ord. 14 dicembre 2010; Trib. Firenze, ord. 10 aprile 2009; Trib. Bologna, decr. 15 luglio 2008). Anzi, una coppia dello stesso sesso è stata ritenuta una preziosa risorsa per l’affidamento familiare di un minore (Trib. min. Palermo, 4 dicembre 2013). Tuttavia, come già accennato, le coppie dello stesso sesso, indifferentemente unite da unione civile o conviventi di fatto, sono escluse dall’adozione dei minori abbandonati e dalla procreazione medicalmente assistita. Malgrado ciò, parte della giurisprudenza di merito, oggi con l’autorevole avallo della Cassazione, ha riconosciuto la genitorialità della coppia dello stesso sesso che abbia perseguito un progetto procreativo comune utilizzando quale strumento  l’istituto dell’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 lett. d legge n.184 del 1983, un tipo di adozione “minore” previsto dal legislatore in tutt’altre situazioni) (cfr. Trib. min. Roma, 30 luglio 2014,confermata da App. Roma, 23 dicembre 2015 e avallata dalla Cassazione con la sentenza n. 12962 del 22 giugno 2016; Trib. min. Roma 22 ottobre 2015 e Trib. min. Roma 23 dicembre 2015). Altri giudici hanno ammesso direttamente o la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero e che indicava i due partner  dello stesso sesso come genitori, conformemente al diritto locale (App. Torino, 29 ottobre 2014). Sempre il principio del migliore interesse del minore è stato poi invocato per garantire, dopo la rottura della relazione di coppia tra i genitori, la frequentazione tra una donna e i figli biologici della compagna che fino a quel momento erano stati cresciuti insieme dalle due donne (Trib. Palermo, 15 aprile 2015 e, sulla medesima vicenda, App. Palermo 31 agosto 2015 che solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 337bis cod. civ. nella parte in cui non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico). Proprio la frammentarietà e la disorganicità del diritto di origine nazionale impongono di prestare particolare attenzione al diritto internazionale, in particolare alla Conv. eur. dir. uomo, così come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo5. Nel corso degli anni, i giudici di Strasburgo hanno infatti delineato con sufficiente precisione la ‘vita familiare’ meritevole di tutela ai sensi dell’art. 8 Conv., nonché individuato un livello minimo di tale tutela. Sebbene la Corte europea tenda a evitare dichiarazioni di principio adottando un approccio casistico e sebbene la mancanza di consensus tra i diversi ordinamenti sulle relazioni di coppia idonee a costituire ‘famiglia’ abbiano indotto per lungo tempo alla cautela, con preferenza per il rinvio agli ordinamenti nazionali, negli ultimi quindici anni i giudici di Strasburgo hanno progressivamente ridotto l’autonomia degli ordinamenti nazionali nel riconoscimento di modelli familiari ‘altri’ rispetto a quello tradizionale della coppia coniugata eterosessuale con figli biologici di entrambi i partner.

Per quanto concerne la relazione di coppia, le ragioni di tale percorso devono essere individuate nell’interpretazione evolutiva del divieto di discriminazioni di cui all’art. 14 CEDU, in particolare sotto il profilo dell’orientamento sessuale6, nonché nella progressiva diffusione tra gli Stati membri del Consiglio d’Europea del diritto delle coppie dello stesso sesso di formalizzare la loro relazione di coppia mediante matrimonio o unione civile (cfr. da ultimo “Oliari c. Italia del 21 luglio 2015” che condanna il nostro Paese per il diniego alle coppie dello stesso sesso della possibilità di formalizzare la loro relazione al fine di fruire di un regime sostanzialmente analogo a quello del matrimonio). Esemplari in questo senso sono le sentenze “Karner c. Austria” (24 luglio 2003) e “X e altri c. Austria” (19 febbraio 2013) che hanno condannato l’Austria per aver trattato in modo ingiustificatamente diverso coppie conviventi omo ed eterosessuali con riferimento rispettivamente alla successione nel contratto di locazione intestato al defunto e all’accesso all’adozione del figlio del partner. La celebre pronuncia “Schalk and Kopf c. Austria” (24 giugno 2010), invece, ha per la prima volta incluso la relazione omosessuale nella vita familiare di cui all’art. 8 Conv. («Data quest’evoluzione [sociale e giuridica] la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione»).

In merito alla relazione verticale tra genitori e figli, il grimaldello per il riconoscimento di modelli familiari “nuovi” è quello, già illustrato con riferimento al diritto nazionale, del principio del migliore interesse del minore. Per esempio, nella controversa pronuncia “Paradiso e Campanelli c. Italia” (27 gennaio 2015) il nostro Paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo per l’allontanamento dalla coppia italiana committente del figlio avuto dalla stessa in Ucraina mediante il ricorso alla maternità surrogata (vietata in Italia) in considerazione del fatto che i ricorrenti erano stati giudicati genitori inidonei per il solo fatto di essersi procacciati il figlio all’estero in violazione delle norme interne sulla procreazione medicalmente assistita.

Infine, un contributo importante alla determinazione della nozione di famiglia viene dal diritto dell’Unione europea. La comune appartenenza all’Unione europea, infatti, impone di ripensare la nozione di ordine pubblico internazionale (che come noto vieta l’ingresso nello Stato del diritto straniero che rischi di produrre nell’ordinamento interno una violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento), anche alla luce della comune appartenenza alla comunità internazionale e soprattutto all’UE che presuppone la comunanza di valori e dei principi fondamentali tra gli Stati membri. Così, la Cassazione, pur negando la trascrivibilità dei matrimoni same sex celebrati all’estero da cittadini italiani, esclude che possa essere invocato il limite dell’ordine pubblico «sia perché altrimenti si determinerebbero effetti palesemente discriminatori in base all’orientamento sessuale, sia perché disposizioni comunitarie ed interne vietano esplicitamente discriminazioni fondate su tale orientamento» (Cassaz. 4184/2012). Isolate pronunce di merito hanno invece ammesso la trascrizione8 o comunque il rilascio del permesso di soggiorno al coniuge dello stesso sesso9. Oltre a ciò, assume rilievo il progressivo riconoscimento, nell’ottica della libertà di circolazione delle persone all’interno dell’Unione (riconosciuta dall’ art. 29 Trattato UE e dagli artt.34 e 45 Carta di Nizza) e per evitare la formazione di situazioni giuridiche claudicanti (cioè produttive di effetti in un ordinamento, ma invalide in un altro), della libertà di circolazione degli status familiari e dunque di un diritto individuale al riconoscimento della posizione giuridica soggettiva acquisita in virtù dei rapporti familiari intrattenuti, pur nel rispetto della competenza dei singoli Stati a definire presupposti e contenuto delle modalità di formalizzazione delle relazioni familiari (cfr. il Reg. n. 2201/2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, ma anche la Direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione delle persone che include tra i familiari «il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante»7).

 

Note:
[1] Un’interessante ricognizione dei diritti dei conviventi etero ed omosessuali è contenuta nel Vademecum dei diritti dei conviventi del Comune di Milano, Milano, 2013.

[2] La disciplina del nuovo ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), peraltro, prevede che il nucleo familiare rilevante ai fini dell’ISEE possa variare considerando anche persone esterne alla famiglia anagrafica (il coniuge che non abbia la stessa residenza anagrafica, i figli della persona non autosufficiente anche se non convivano con la stessa, il genitore non convivente nel nucleo, non coniugato con l’altro genitore e che abbia riconosciuto il figlio), salvo il caso in cui i servizi sociali attestino che tali soggetti sono estranei in termini di rapporti affettivi ed economici (DPCM 5 dicembre 2013 n. 159).

[3] In senso sostanzialmente analogo si esprime Corte cost. 170/2014.

[4] Conforme Cass. civ. 8097/2015 che – pronunciandosi sulla stessa vicenda di Corte cost. 170/2014 – parla di «nucleo affettivo e familiare» (corsivo aggiunto) con riferimento a una coppia di donne, sposatesi prima che una delle due intraprendesse il percorso per la rettificazione del sesso da maschile a femminile, che chiedevano di rimanere coniugate, malgrado il divorzio loro imposto ex lege in conseguenza della rettificazione.

[5] Numerose altre fonti di origine extranazionale riconoscono agli individui «il diritto al rispetto della vita familiare»: l’art. 12 Dich. univ. dir. uomo; l’art. 17 Patto int. dir. civ. e pol.; l’art. 7 (che ricalca l’art. 8 CEDU) e l’art.33 (che protegge la famiglia «sul piano giuridico, economico e sociale») Carta di Nizza. Il particolare interesse per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è dato dell’efficace sistema di controllo e sanzione delle violazioni previsto dalla Convenzione stessa e, soprattutto, dal dinamismo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

[6] Secondo i giudici europei, le differenze motivate unicamente da considerazioni relative all’ orientamento sessuale sono inaccettabili e le differenze basate sull’orientamento sessuale devono essere giustificate da motivi impellenti o, altra formula utilizzata a volte, da «ragioni particolarmente solide e convincenti» in quanto il margine di apprezzamento degli Stati è limitato. Anche l’Unione europea è stata negli anni molto attiva sul fronte della lotta contro le discriminazioni sulla base del sesso, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere (vd. da ultimo il cosiddetto “Rapporto Lunacek”, che delinea una tabella di marcia «contro l’omofobia e la discriminazione, legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere», sollecitando la Commissione a lavorare per «il riconoscimento reciproco degli effetti di tutti gli atti di stato civile nell’Unione europea, compresi i matrimoni, le unioni registrate e il riconoscimento giuridico del genere, al fine di ridurre gli ostacoli discriminatori di natura giuridica e amministrativa per i cittadini e le relative famiglie che esercitano il proprio diritto di libera circolazione»). L’impatto del suo contributo alla rimeditazione della nozione di famiglia è stato tuttavia a oggi assai più limitato di quello della Corte europea dei diritti dell’uomo.

[7] In senso analogo si esprime la Direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare il cui art. 4 rimette agli Stati membri di consentire il ricongiungimento anche al ‘familiare’ che sia «partner non coniugato… che abbia una relazione stabile duratura debitamente comprovata… , o… legato… da una relazione formalmente registrata».

[8] Trib. Grosseto, ord. 3 aprile 2014.

[9] Trib. Pescara, ord. 15 gennaio 2013; Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012.

]]> Orientamento sessuale: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/orientamento-sessuale-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Fri, 23 Sep 2016 12:40:17 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=5116 A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

La tutela giuridica dell’orientamento sessuale è molto recente: difficile è trovare carte costituzionali, trattati, convenzioni o leggi adottate prima dell’ultima decade del Novecento che facciano esplicito riferimento all’orientamento sessuale quale fattore di discriminazione vietato. L’esigenza di introdurre normative apposite volte a colmare le lacune nell’attuazione del principio di eguaglianza che avevano consentito il perpetuarsi di situazioni di svantaggio a danno della popolazione omosessuale si è manifestata con particolare evidenza sul finire dello scorso secolo ed è stata avvertita anche nelle democrazie occidentali consolidate.
Alcune di queste hanno addirittura scelto la via della revisione costituzionale, inserendo nelle proprie leggi fondamentali un riferimento espresso al divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale: è questo, ad esempio, il caso del Portogallo, la cui Costituzione, dopo la modifica intervenuta nel 2004, sancisce all’art. 13, comma II, che «nessuno può essere privilegiato, beneficiato, giudicato, privato di qualsiasi diritto o esonerato da qualsiasi dovere in ragione del suo orientamento sessuale», così seguendo l’esempio di diverse carte costituzionali latino-americane, africane e asiatiche[1].

L’espressione ‘orientamento sessuale’ fa la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione non costituzionale, bensì ordinaria, con l’entrata in vigore del D. lgs. n. 216 del 2003 attuativo della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale Direttiva ha imposto a tutti gli Stati membri dell’Unione europea l’adozione delle disposizioni necessarie a prevenire e reprimere le discriminazioni motivate da ragioni di età, disabilità, religione e orientamento sessuale, sia dirette che indirette (nonché quei fenomeni ritenuti rientranti nell’ampia categoria delle condotte discriminatorie, quali le molestie e l’ordine di discriminare), nell’ambito dell’impiego pubblico e privato, nell’accesso alla formazione professionale e nell’affiliazione a organizzazioni di lavoratori o datori di lavoro (Cfr. “Lavoro”).

La possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare misure volte a combattere le discriminazioni fondate su tutta una serie di fattori comprendente l’orientamento sessuale era stata riconosciuta dall’art. 13 del Trattato CE (ora art. 19 TFUE ) come emendato dal Trattato di Amsterdam del 1997 (in vigore nel 1999), che ha rappresentato una tappa fondamentale per lo sviluppo del diritto antidiscriminatorio europeo e, conseguentemente, domestico. La tutela dell’orientamento sessuale può quindi ritenersi oggi rientrante nelle funzioni dell’Unione europea ed è prevista nel suo c.d. diritto primario, di cui fanno parte anche le previsioni antidiscriminatorie contemplate nella “Carta dei diritti fondamentali dell’UE” approvata nel 2000 e divenuta giuridicamente vincolante nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
E’ da segnalarsi che la protezione dell’individuo dalle discriminazioni legate all’orientamento sessuale offerta dalla normativa europea è quanto mai ampia con riferimento al settore lavorativo, mentre non si estende ad altri aspetti assai rilevanti nella vita quotidiana quali l’istruzione, la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria, l’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura: la citata Direttiva 2000/78/CE non include, infatti, tali ambiti tra quelli in cui opera il divieto di discriminazione, a differenza di quanto prevedono invece altre direttive per le discriminazioni di sesso ed etnico-razziali. Merita peraltro osservare che il 2 luglio 2008 la Commissione europea ha presentato una proposta di nuova direttiva sulla parità di trattamento che estenderebbe la tutela dalle discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale anche ai suddetti ambiti: sebbene con la Risoluzione del 2 aprile 2009 sia stato al riguardo espresso parere favorevole da parte del Parlamento, il procedimento di approvazione non si è ad oggi concluso. Assai significativa pare invece l’attenzione rivolta dall’Unione europea alla tutela dell’orientamento sessuale dei cittadini di paesi terzi o apolidi. Nella Direttiva di rifusione 95/2011 sul riconoscimento dello status di rifugiato si chiarisce che gli Stati membri, nel valutare i motivi di persecuzione, debbano tenere conto anche dell’appartenenza di un individuo a un particolare gruppo sociale, che ben può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale (Cfr. “Identità e culture”).
L’esplicito divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale in settori diversi dall’occupazione non è previsto nemmeno dalla normativa italiana, dal momento che il D. lgs. 216/2003 non va oltre a quanto prescritto agli Stati membri dell’UE dalla direttiva vigente. Nell’ultimo decennio sono però state approvate diverse leggi regionali che, oltre a ribadire il principio di parità di trattamento nel settore occupazionale e della formazione professionale, mirano a estendere la tutela dalle discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale ad ambiti ulteriori quali, ad esempio, l’istruzione e/o le prestazioni sociali e sanitarie(legge della Regione Piemonte n. 5 del 2016; legge della Regione Liguria n. 52 del 2009; legge della Regione Toscana, n. 63 del 2004), oppure che contemplano la creazione di  organi per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni e l’assistenza alle vittime, come, ad esempio, la “Rete regionale contro le discriminazioni” della Regione Piemonte (legge della Regione Piemonte n. 5 del 2016, artt. 12 e 13), nonché forme di tutela non giurisdizionale del diritto all’eguaglianza dinanzi all’Autorità di Garanzia per il rispetto dei diritti di adulti e bambini (è questo il caso della Legge della Regione Marche n. 8 del 2010, come emendata dalla Legge regionale n. 8 del 2013).

Per quanto concerne la  tutela dell’orientamento sessuale nell’ambito dei rapporti familiari, dopo anni in cui non sono mancati significativi interventi dei giudici ordinari, costituzionali ed europei volti a sollecitare l’adozione da parte del Parlamento di una normativa di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali[2], è di recente intervenuta la legge 20 maggio 2016 n. 76 che ha riconosciuto ai partners di una coppia dello stesso sesso il diritto di formalizzare la loro relazione mediante “unioni civili” da cui derivano diritti e doveri sostanzialmente analoghi a quelli spettanti alle coppie eterosessuali che contraggono matrimonio. Resta invece problematica  la trascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero: al riguardo, merita ricordare che la Corte di Cassazione, con la sentenza n.4184 del 2012 aveva stabilito l’impossibilità di trascrivere il matrimonio contratto all’estero tra individui dello stesso sesso, stante la sua inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano. L’affermazione nella medesima decisione della titolarità in capo ai componenti di una coppia omosessuale stabilmente convivente del «diritto a una vita familiare» e del «diritto di vivere liberamente una condizione di coppia» in quanto formazioni sociali ex art. 2 Cost. aveva però indotto il Tribunale di Grosseto, con ordinanza del 2014, ad accogliere il ricorso di una coppia omosessuale che aveva chiesto la trascrizione dell’atto del matrimonio contratto all’estero nei registri dello stato civile del comune di residenza: nonostante l’annullamento di tale pronuncia in sede di appello[3],e il successivo intervento del Consiglio di Stato che, con la pronuncia n. 4899 del 2015, ha riconosciuto la legittimità del potere dei prefetti di annullare le trascrizioni effettuate, la situazione di notevole incertezza presso gli uffici dello stato civile dei comuni italiani tuttora perdura e ha indotto diversi Consigli comunali a deliberare a sostegno dell’operato dei Sindaci favorevoli alla trascrizione[4].

Dal punto di vista dei rapporti tra genitori e figli è invece ormai pacifica l’illegittimità di ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nell’affidamento dei minori in caso di rottura della relazione di coppia dei genitori: è quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 601 del 2013 che ribadisce quanto stabilito negli anni precedenti sia dalla giurisprudenza di merito circa l’irrilevanza dell’omosessualità della madre o del padre del minore nella decisione relativa all’affidamento o all’individuazione della dimora della prole[5], sia dalla Corte europea dei diritti umani che con la decisione “E.B. c. Francia” la Corte ha accertato il carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’idoneità di un soggetto all’adozione di minori fondato su ragioni unicamente riconducibili all’orientamento sessuale. Diversa e più complessa è, invece, la questione dell’adozione coparentale di minori da parte da parte del genitore sociale all’interno delle famiglie omoparentali Anche tale questione è  stata affrontata dalla Corte europea dei diritti umani ma con una decisione  che pare priva di conseguenze immediate per l’ordinamento giuridico italiano. Con la pronuncia “X e altri c. Austria” del 2013 l’Austria è stata, infatti, condannata per l’esclusione delle coppie omosessuali dall’accesso all’adozione coparentale , ammessa invece per le coppie eterosessuali, anche se non sposate, rinvenendo in tale trattamento differenziato una violazione del principio di non discriminazione: violazione che non sussisterebbe in Italia dal momento che  normativa vigente consente questa peculiare forma di adozione solo alle coppie coniugate. La possibilità di adottare il figlio biologico della/del partner è stata però negli ultimi anni ripetutamente riconosciuta dai giudici di merito e, di recente, anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12962 del 2016 (Cfr. “Famiglie plurali”)

Il diritto a non subire discriminazioni in ragione del proprio orientamento sessuale ha, infine, ulteriori molteplici implicazioni elencate in maniera esaustiva, ad esempio, nei c.d. Principi di Yogyakarta adottati nel 2006 che hanno svolto un ruolo di persuasione non irrilevante nei confronti dei governi nazionali, insieme ad altri documenti sopranazionali rientranti nella categoria della c.d. soft law in ragione del loro carattere giuridicamente non vincolante, in cui si sottolinea come i diritti delle persone omosessuali debbano essere ricompresi nella più ampia categoria dei diritti umani (si pensi ad esempio, alla Risoluzione del Consiglio dei diritti umani dell’ONU del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” e alla successiva del 2014). Analoga valenza persuasiva e programmatica assumono le Raccomandazioni adottate in seno al Consiglio d’Europa, tra le quali merita almeno ricordare la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del 2010 che invita gli Stati ad approvare misure volte a rafforzare la tutela dalle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale in molteplici settori. Una delle aree di intervento indicate è quella della lotta all’omofobia, caldeggiata anche in diversi documenti dell’Unione europea, quali la Risoluzione del Parlamento Europeo sull’omofobia in Europa del 2007, preceduta e seguita da altre risoluzioni di analogo contenuto (Risoluzione del 2012 e Risoluzione del 2014). Tale lotta si è già avviata in diversi ordinamenti europei e non (tra i quali non vi è però ancora l’Italia) che hanno adottato apposite normative volte a combattere il fenomeno dell’omofobia sanzionando penalmente sia i crimini che i discorsi d’odio (Cfr. “Omofobia e transfobia”).

[1] La prima Costituzione al mondo ad aver introdotto l’espresso divieto di discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale è stata quella del Sudafrica entrata in vigore nel 1996, seguita pochi mesi dopo da quella delle isole Figi (1997) e da quella dell’Ecuador (1998).

[2] La Corte costituzionale, con la pronuncia n. 138 del 2010 (link alla banca dati), si era limitata a  rimettere alla discrezionalità del Parlamento il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali; in seguito, con la decisione n. 170 del 2014 (link alla banca dati), dichiarando l’incostituzionalità del c.d. “divorzio imposto” in caso di rettificazione di sesso di uno dei coniugi (cfr. “Identità di Genere”), aveva affidato al legislatore il compito di introdurre una forma di convivenza registrata per le coppie formate da persone dello stesso sesso. In ragione dell’assenza di una legislazione di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso, l’Italia era è stata poi condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la violazione della CEDU nel 2015, con la sentenza “Oliari e altri v. Italia” (reperibile al link https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?previsiousPage=mg_14_7&contentId=SDU1177280) e nel 2016 con la decisione “Taddeucci e McCall c. Italia” (reperibile in lingua francese al link http://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22languageisocode%22:[%22FRE%22],%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22itemid%22:[%22001-164201%22]}), in cui si è affermato che costituisce discriminazione diretta sulla base dell’orientamento sessuale nel godimento del diritto alla vita familiare la mancata concessione al partner dello stesso sesso non cittadino dell’Unione europea del permesso di soggiorno per motivi familiari.

[3] Sentenza della Corte di Appello di Firenze del 19 settembre 2014.

[4] Diversi sindaci, dopo la citata pronuncia del Tribunale di Grosseto, avevano infatti iniziato ad autorizzare le trascrizioni di matrimoni contratti all’estero, che però sono state ritenute illegittime dalla c.d. Circolare Alfano n. 10853 del 2014 con cui i prefetti sono stati invitati a ordinare ai sindaci la cancellazione delle trascrizioni già effettuate.

[5] Si vedano l’ordinanza del Tribunale di Nicosia del 2010 e quella del Tribunale di Firenze del 2009.

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Welfare: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/welfare-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Thu, 28 Jul 2016 10:28:02 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=5087 A cura di Daniela Izzi, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino

L’instaurazione di duraturi rapporti di convivenza tra partner same-sex genera da tempo, com’è comprensibile, significative istanze di tutela previdenziale: basti pensare, per citare un esempio economicamente molto rilevante, all’atteso godimento della pensione di reversibilità da parte del membro superstite di una coppia legata da una stabile unione. Aspettative di questo genere sono rimaste a lungo prive di fondamento giuridico nell’ordinamento italiano, ove le unioni civili tra persone del medesimo sesso sono state istituite solo di recente con la l. 20 maggio 2016, n. 76, che ha posto le premesse per il riconoscimento ai contraenti di tale unione degli stessi diritti attribuiti ai coniugi dalle disposizioni legislative, amministrative e contrattual-collettive (v. l’art. 1, comma 20), provvedendo finalmente alla protezione della vita familiare degli interessati (Cfr. “Orientamento sessuale”).

Fino al varo della l. n. 76/2016, la cui piena operatività (ai sensi dell’art. 1, comma 28) è condizionata ai d. lgs. da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore della stessa (cioè dal 5 giugno 2016), il principale punto di riferimento normativo era rappresentato dal d. lgs. n. 216 del 2003, che ha introdotto il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nei rapporti di lavoro (Cfr. “Lavoro”), non incidente però nella sfera della previdenza sociale. Questo limite invero caratterizzava già la fonte comunitaria di cui il richiamato d.lgs. costituisce attuazione, cioè la direttiva n. 2000/78, che ha escluso dal proprio campo d’applicazione i «pagamenti di qualsiasi genere, effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di protezione sociale» (così all’art. 3.3): ovvero (come si puntualizza nel tredicesimo considerando) i regimi «le cui prestazioni non sono assimilate ad una retribuzione»1.

Si tratta di una riduzione consistente del raggio d’azione della disciplina antidiscriminatoria, che ha posto gli Stati membri dell’Unione europea al riparo dalle rivendicazioni pensionistiche connesse a rapporti di stabile convivenza omosessuale, almeno ogniqualvolta le prestazioni previdenziali in questione non abbiano natura retributiva. Proprio per questa via, cioè attraverso l’interpretazione estensiva del concetto di «regimi professionali di sicurezza sociale» che erogano prestazioni con valenza retributiva, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha però ripetutamente assecondato le aspirazioni di tutela previdenziale riguardanti coppie same-sex che avevano formalizzato unioni equiparabili al matrimonio eterosessuale perché caratterizzate, in virtù del diritto nazionale, da diritti e doveri analoghi a quelli dei coniugi.

La rotta in questa direzione è stata inaugurata nel 2008 dalla sentenza “Maruko”, che ha considerato discriminatorio in base all’orientamento sessuale, in presenza di un contratto tedesco di unione solidale regolarmente registrato, il diniego al partner del lavoratore deceduto della pensione di reversibilità prevista da un regime previdenziale di categoria. La stessa linea è stata poi ribadita nel 2011 con la sentenza “Römer”, che ha censurato il metodo di calcolo della pensione complementare di vecchiaia spettante agli ex-dipendenti di un ente locale tedesco e ai loro superstiti, perché tale da avvantaggiare i beneficiari coniugati rispetto a quelli coinvolti in un’unione civile registrata.

Più agevole è stato per la Corte di Giustizia assicurare la tutela contro le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale con riguardo a benefici che, pur essendo considerabili in senso lato misure di welfare, fuoriescono dall’ambito previdenziale e ricadono dunque integralmente entro il campo d’applicazione della direttiva n. 2000/78. Va ricordata a questo proposito la sentenza “Hay” del 2013 che, marcando una netta distanza rispetto alla giurisprudenza comunitaria precedente l’entrata in vigore di detta direttiva2, ha ritenuto illegittima l’esclusione di un omosessuale, contraente del patto civile di solidarietà francese, dalla possibilità di fruire del congedo straordinario e del premio stipendiale concessi dal contratto collettivo – a lui applicabile – ai dipendenti che contraggono matrimonio.

Il presupposto di operatività della protezione antidiscriminatoria garantita dal diritto dell’Unione europea è, in tutti i casi, l’esistenza a livello nazionale di una forma di registrazione della convivenza tra partner same-sex produttiva di effetti giuridici e comparabile al matrimonio ai fini del godimento del beneficio controverso.

Il riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso avvenuto con la l. 76/2016, che ha recepito gli impulsi sempre più consistenti provenienti in tal senso dal diritto internazionale (Cfr. “Famiglie plurali”), rappresenta quindi il passo decisivo per il loro accesso alle misure di welfare. Alla copertura dei costi collegati agli «oneri di natura previdenziale e assistenziale» derivanti dalla recente svolta normativa sono destinate apposite risorse, la cui entità e le cui modalità di determinazione sono indicate nella stessa legge (all’art. 1, commi 66 e 67).

In precedenza, l’assenza di una presa di posizione del legislatore nazionale sulle unioni same-sex non aveva comunque impedito espliciti interventi a favore di queste in sede di contrattazione collettiva aziendale, ove è stato ad esempio stabilito l’allargamento ai «conviventi di fatto» anche dello stesso sesso della fruizione dei permessi dal lavoro previsti in caso di decesso di familiari3 oppure il godimento del congedo matrimoniale al membro di una coppia convivente che si è unita, eventualmente all’estero, in un matrimonio non trascritto nei registri dello stato civile italiano4.

Si sono inoltre registrate aperture giurisprudenziali come quella effettuata dalla Corte d’Appello di Milano con la decisione n. 7176 del 2012. Questa sentenza, interpretando la disposizione statutaria di una cassa mutualistica di categoria che includeva tra i beneficiari dell’assistenza sanitaria ivi regolata il «convivente more uxorio risultante dallo stato di famiglia», ha infatti affermato che «il significato dell’espressione “convivenza more uxorio” non può essere limitato alle sole convivenze eterosessuali, in quanto significato attribuitole in epoca ormai risalente», ma deve ormai includere anche «le unioni omosessuali cui il sentimento socialmente diffuso riconosce il diritto alla vita familiare propriamente intesa».

In materia sanitaria, oltre che in relazione agli altri servizi erogati a livello regionale (istruzione, formazione professionale e politiche attive del lavoro, promozione di eventi culturali, tutela dei diritti attraverso il difensore civico), va ancora ricordata la specifica attenzione rivolta alle esigenze delle persone omosessuali o transessuali da alcune leggi regionali all’avanguardia nella lotta alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Sia la legge della Toscana n. 63/2004 che la legge della Liguria n. 52/2009 riconoscono difatti, a chi ha compiuto la maggiore età, il diritto di designare una persona che abbia accesso alle strutture di ricovero e cura per prestare assistenza al malato in ogni fase della degenza e alla quale gli operatori delle strutture socio-assistenziali devono riferirsi per tutte le comunicazioni relative al suo stato di salute; attribuiscono inoltre alle aziende sanitarie locali il compito di attuare adeguati interventi di informazione, consulenza e sostegno per rimuovere gli ostacoli alla libera espressione e manifestazione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere di ciascuno. Su un’analoga lunghezza d’onda si colloca la legge regionale delle Marche n. 8/2010, che promuove tra l’altro l’attivazione di centri di ascolto per la prevenzione e la riduzione del disagio provocato dalle discriminazioni legate a queste caratteristiche.

Con riguardo alla transessualità, non trascurata dalla legislazione regionale appena richiamata, va infine evidenziata l’efficace tutela garantita dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea facendo leva sui divieti di discriminazione in base al sesso risultanti ora dalla direttiva sulla parità fra uomini e donne in materia d’occupazione n. 2006/54 (e, a livello nazionale, dal codice delle pari opportunità fra uomini e donne di cui al d.lgs. n. 198/2006). Accomunate da questa impostazione sono, in materia previdenziale, le sentenze “K.B.” del 2004 e “Richards” del 2006, dalle quali si evince che ai lavoratori transessuali devono essere riconosciuti gli stessi diritti previdenziali spettanti ai soggetti appartenenti sin dalla nascita al genere da essi acquisito a seguito dell’intervento di rettifica del sesso.

Note:
[1] Sempre nel tredicesimo considerando della direttiva n. 2000/78 si precisa che il termine retribuzione va inteso nell’accezione data allo stesso ai fini dell’applicazione del principio di parità retributiva tra uomini e donne oggi risultante dall’art. 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ove è chiarito che «per retribuzione si intende … il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo».
[2] Si fa riferimento alle sentenze rese dalla Corte di Giustizia nel caso “Grant” del 1998 e nel caso “D” del 2001, che avevano respinto le istanze avanzate da lavoratori conviventi con partner dello stesso sesso al godimento rispettivamente di un servizio aziendale a prezzo scontato previsto per i familiari dei dipendenti e di un assegno di famiglia.
[3] Così dispone il contratto collettivo di lavoro firmato con la Filcams Cgil del Trentino dalla società del settore grande distribuzione Orvea il 4 luglio 2012.
[4] In questo senso dispone l’accordo firmato tra Intesa Sanpaolo e le organizzazioni sindacali, in attuazione del Protocollo sull’inclusione e le pari opportunità nell’ambito del welfare del Gruppo Intesa Sanpaolo, il 24 luglio 2014.

 

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Identità di genere: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/identita-di-genere-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Tue, 28 Jun 2016 08:41:17 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2557 A cura di Anna Lorenzetti, Dipartimento Giurisprudenza, Università degli Studi di Bergamo.

La possibilità di modificare il sesso anatomico e anagrafico fu introdotta nel 1982 con la legge 164 “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, terza in Europa sulla materia. Questa normativa trovò la propria genesi nella necessità di regolarizzare la posizione di coloro che si erano sottoposti all’intervento di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali all’estero, ma che per l’assenza di una legge non potevano essere riconosciuti nella nuova identità in Italia.

Ovviamente, a distanza di trent’anni dall’approvazione della legge, si sono poste nuove istanze. Ad esempio, la disposizione che chiedeva l’intervento ‘quando’ e dunque ‘solo se’ necessario ha determinato alcuni quesiti, in particolare circa l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico e quindi circa la possibilità di modificare il proprio nome anche prescindendone. Inoltre, i giudici sono stati interpellati su quali siano i confini della ‘necessità’ e su quale tipo d’intervento chirurgico sia richiesto per concludere il percorso (deve riguardare i caratteri sessuali primari, con un impatto certamente più invasivo sulla salute della persona, o è sufficiente una modifica dei caratteri secondari, possibile anche con il solo trattamento ormonale?). Questi aspetti sono tutt’altro che marginali, in quanto l’interpretazione della legge 164 e le prassi in uso nelle strutture socio-sanitarie, di fatto, hanno considerato per lungo tempo come obbligatorio l’intervento chirurgico, anche qualora la persona interessata non lo desiderasse. Interrogata sul punto, la giurisprudenza di merito aveva richiesto – in larga maggioranza, e con poche eccezioni (Tribunale di Rovereto, 3 maggio 2013 et al.1) – l’effettuazione dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari, quale requisito indispensabile per concludere il percorso di cambiamento di sesso (Corte d’Appello di Bologna, 22 febbraio 2013 et al.2).

Si tratta di uno degli aspetti più controversi della legge, sul quale sono state chiamate ad esprimersi sia la Corte di Cassazione, sia la Corte costituzionale che hanno riconosciuto come è rimessa al giudice, con il supporto del sanitario, e da effettuare caso per caso, la valutazione circa la necessità o meno dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari ai fini della conclusione del ‘transito’3.
Recentemente, la legge 164/1982 è stata modificata, nell’ambito di una riforma volta alla semplificazione dei riti processuali (d.lgs. 150/2011), con un appesantimento nel percorso giudiziale di cambiamento del sesso, un allungamento dei tempi e un aggravio di costi. Secondo la nuova disciplina, le ‘controversie’ che riguardano la riassegnazione del sesso seguono il rito ordinario di cognizione, al giudizio partecipa il pubblico ministero e l’atto introduttivo del giudizio è divenuto un atto di citazione, che va notificato al coniuge e ai figli dell’attore (art. 31, D. Lgs. 150/2011).

Ponendo ora attenzione all’ambito lavorativo, si deve rilevare che nell’ordinamento italiano è assente una disciplina chiara e univoca che tuteli contro le discriminazioni in ragione dell’identità di genere, al pari di quanto accade, ad esempio, per l’orientamento sessuale con il decreto legislativo 216 del 2003. Questo appare significativo non soltanto in quanto all’accesso al lavoro o alla stabilità lavorativa è legata un’indipendenza economica che scongiura la marginalità sociale, ma anche perché si tratta di un ambito segnalato come particolarmente critico dalle persone transessuali che subiscono discriminazioni all’ingresso nel mondo del lavoro e nel mantenimento del posto di lavoro. Rispetto alla dimensione problematica della questione, i casi giunti nelle aule dei tribunali sono piuttosto ridotti numericamente e riguardano vicende di travestitismo, e principalmente licenziamenti a causa di un abbigliamento ritenuto non consono allo svolgimento delle mansioni assegnate.
Allargando il campo anche agli ordinamenti sovranazionali (internazionale ed euro-comunitario), una serie di significative pronunce – prima tra queste la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea “P contro S e Cornwall County Council”4ha contribuito ad estendere le tutele previste per le discriminazioni fondate sul sesso anche verso chi abbia cambiato sesso, senza però considerare la condizione di coloro che stanno ancora vivendo il ‘transito’ (ossia il passaggio da un sesso all’altro) o non intendano sottoporsi all’intervento.

L’ultima direttiva del Parlamento europeo in materia di contrasto alle discriminazioni uomo/donna in ambito lavorativo (n. 54 del 2006) ha ‘accolto’ i risultati delle pronunce della Corte di Lussemburgo, senza però imporre agli Stati membri l’obbligo di estendere le tutele per le discriminazioni di genere ai casi di transessualismo o transgenderismo. Questa posizione è stata interpretata come un significativo rafforzamento delle tutele, peraltro avallata da una serie di documenti normativi, di soft law, orientati nel senso di una maggiore garanzia in numerosi ambiti, tra i quali occupazione, sanità, istruzione (Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014; Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri). Da ultimo, si veda la Risoluzione 2048 (2015) che invita gli Stati membri ad attivarsi per conseguire il pieno riconoscimento di diritti e libertà per le persone transessuali e transgender.

Anche la Corte europea dei diritti umani si è occupata a più riprese della condizione giuridica delle persone transessuali, a partire dal leading case“Christine Goodwin contro Regno Unito”, decisione dell’11 luglio 2001 – in cui è stato riconosciuto il diritto della persona che ha cambiato sesso di coniugarsi con una persona di sesso opposto a quello acquisito.
Rispetto all’ambito familiare, in Italia la condizione transessuale non è ostativa al matrimonio con una persona del sesso opposto a quello acquisito con la riassegnazione anagrafica, né all’adozione di un minore o al mantenimento di rapporti affettivi con la prole avuta prima del cambiamento di sesso. Recentemente, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 170 del 2014, ha deciso circa il caso di sopravvivenza del matrimonio regolarmente contratto prima di sottoporsi all’intervento chirurgico e divenuto same-sex dopo l’intervento chirurgico di uno dei coniugi. Alla luce della necessità di tutelare un legame validamente sorto, ma considerando altresì che in Italia il matrimonio presuppone l’unione di un uomo e una donna, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della norma che impone lo scioglimento automatico del vincolo in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi. Tuttavia, ha rimesso al legislatore la definizione di un modello di regolamentazione, comunque diverso dal matrimonio, in grado di fornire una tutela alla coppia. Di recente, la questione è stata decisa dalla Corte di Cassazione che, sulla base di quanto affermato dalla Consulta, ha affermato la necessità di mantenere valido il matrimonio divenuto fra due persone dello stesso sesso, fino a quando il legislatore non consenta alla coppia di dare vita ad altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti e obblighi (Corte di Cassazione, 21 aprile 2015, n. 8097). La recente approvazione del testo di legge sulle unioni civili, cd. Legge Cirinnà ha previsto che “La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” (art. 1, co. 26, L. 76/2016) e che “Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile” (art. 1, co. 27, L. 76/2016).

La vicenda dei migranti merita una segnalazione peculiare, posto che l’Italia considera la condizione transessuale come possibile motivo di richiesta e riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 8, co. 1, lett. d, D. Lgs. 251/2007, come modificato dal D. Lgs. 18/2014), mentre non è prevista una normativa di contrasto alla transfobia.

Occorre infine ricordare che l’espressione ‘identità di genere’ ha fatto la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione regionale. Con la legge n. 63 del 2004, la Regione Toscana, seguita qualche anno dopo da Liguria e Marche ha, infatti, menzionato espressamente l’identità di genere tra i fattori di discriminazione vietati. Recentemente, la Regione Piemonte ha approvato la legge regionale 5 del 2016 (“Norme di attuazione del divieto di ogni forma di discriminazione e della parità di trattamento nelle materie di competenza regionale”), in cui è esplicitamente vietata ogni forma di discriminazione anche in ragione dell’identità di genere. Di identità di genere si trova inoltre menzione in alcune leggi regionali di settore che riguardano il contrasto alla violenza5 e l’ambito socio-sanitario6.

Note:
[1] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono Tribunale di Messina, 4 novembre 2014; Tribunale di Genova, 5 marzo 2015.
[2] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono: Tribunale di Roma, 18 luglio 2014, n. 34.525; Tribunale Vercelli, 12 dicembre 2014, n. 159; Tribunale di Catanzaro, 30 aprile 2014; Tribunale di Potenza, 20 febbraio 2015.
[3] Corte di Cassazione 15138/2015; Corte costituzionale 221/2015; Anche la Corte europea dei diritti umani, nel caso Y.Y. c. Turchia (appl. 14793/08, sentenza 10 marzo 2015), è intervenuta sul tema, dichiarando l’irragionevolezza della normativa interna che richiedeva la preventiva sterilizzazione della persona che intendeva sottoporsi all’intervento chirurgico. Peraltro, l’attualità del tema è attestata dalla recente approvazione della legge maltese (“Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act”) che afferma il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, allo sviluppo della persona in accordo all’identità di genere, ma soprattutto all’autodeterminazione sulla scelte che riguardano il proprio corpo, di cui è garantita l’integrità. In particolare, viene sancito che il riconoscimento dell’identità di genere e della possibilità di modifica anagrafica non può essere subordinato all’intervento chirurgico, né alla terapia ormonale o psichiatrica (art. 3, par. 4).

[4] Tra le altre pronunce si ricorda il caso C-117/01, “K.B. – National Health Service Pensions Agency, Secretary of State for Health”, deciso il 7 gennaio 2004.

[5] Così, ad es. art. 4, L.R. Piemonte 16/2009 del Piemonte sui Centri antiviolenza.

[6] Ad esempio, la L.R. Puglia 23/2008, che ha approvato il Piano regionale salute 2008-2010.

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Famiglia, famiglie, diritti delle coppie omosessuali: principi costituzionali http://www.portalenazionalelgbt.it/famiglia-famiglie-diritti-delle-coppie-omosessuali-principi-costituzionali/ Tue, 02 Feb 2016 16:36:39 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=4553 di Marilisa D’Amico

 

1. Premessa

Nel momento storico attuale la visione “tradizionale” della famiglia fondata sul matrimonio, è più che mai in crisi. Già l’introduzione del divorzio avvenuta più di quarant’anni fa (l. n. 898 del 1970), ha contribuito al sorgere di forme diverse di famiglia (es. famiglie mono-genitoriali), ed  oggi assistiamo all’affermarsi e al diffondersi di forme nuove di convivenza, sia eterosessuali che omosessuali.

Nonostante il mutamento della realtà e della coscienza sociale le forme di convivenza “di fatto”, diverse dalla visione tradizionale, non hanno ancora trovato nel nostro ordinamento un riconoscimento organico per via legislativa.

“Il conflitto tra realtà sociale” e “legislazione vigente” è stato recentemente evidenziato e condannato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo che, con la pronuncia Oliari c. Italia, ha dichiarato l’urgenza di garantire un diritto, quello delle coppie conviventi, omosessuali in particolare, di vedersi riconosciute come famiglie; perché di “famiglia”, non ce n’è una sola, ma tante, e tutte, nelle loro diversità, titolari di un diritto fondamentale, quello di vivere liberamente la loro condizioni di coppia (cfr. Caso Oliari c. Italia e C. cost. sent. n. 138 del 2010).

Mentre per le coppie di fatto eterosessuali alcuni passi in avanti sono stati fatti, ad esempio mediante l’introduzione della legge n. 219 del 2012 “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”, le coppie omosessuali non trovano nel nostro ordinamento alcuna forma di riconoscimento. In Italia, infatti, le coppie omosessuali non possono né adottare, né avere accesso alle tecniche di procreazione artificiale di cui alla legge n. 40 del 2004, né, e questo vale anche per le coppie eterosessuali, stipulare contratti di maternità surrogata vietati a norma dell’art. 12, comma 6, L. n. 40 del 2004.

In assenza di risposte legislative, sono stati principalmente i giudici, a partire dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, a riconoscere i diritti delle famiglie di fatto e delle coppie omosessuali, nel tentativo di rispondere, sebbene parzialmente e con efficacia circoscritta al caso concreto, alle istanze di queste “nuove famiglie”.

2.      Famiglia o famiglie? Principi costituzionali a confronto

Per comprendere le ragioni del mancato riconoscimento delle c.d. nuove famiglie, non si può che partire dalla nozione di famiglia nel nostro ordinamento, e dunque dai principi costituzionali e dal significato ad essi attribuito dai nostri Costituenti.

In Assemblea costituente vi era chi era convito della necessità di inserire all’art. 29 della Costituzione una precisa definizione di famiglia, e chi diversamente preferiva un generico richiamo ai “diritti della famiglia”.

L’accordo in Assemblea si è trovato sulla definizione di famiglia come “società naturale”, locuzione che nell’idea dei Costituenti avrebbe evidenziato la preesistenza della famiglia rispetto allo Stato, evitando indebite ingerenze.  La famiglia come “società naturale” non rappresentava, dunque, secondo la maggior parte dei nostri costituenti un richiamo al diritto naturale, ma anzi essa avrebbe dovuto esprimere una concezione aperta ai cambiamenti storici e sociali.

Non si può negare, tuttavia, come la lettera dell’art. 29 Cost., ed in particolare il richiamo alla famiglia come “società naturale” “fondata sul matrimonio”, abbia determinato un’interpretazione riduttiva dell’articolo stesso, contribuendo a cristallizzare un favor  nei confronti della famiglia tradizionale, e ostacolando il riconoscimento di diverse forme di convivenza.

E così oggi è necessario confrontarsi con due diverse visioni di famiglia che si riflettono e si radicalizzano nella contrapposizione tra principi costituzionali: l’art. 29 della Costituzione garantisce e tutela la visione tradizionale di famiglia fondata sul matrimonio, quale nucleo fondante della società; l’art. 2 della Costituzione valorizza i diritti del singolo, prima di quelli della coppia, ad organizzarsi liberamente a livello familiare.

La distinzione è importante, poiché se da un alto sancisce l’eterogeneità esistente nel nostro ordinamento tra famiglia tradizionale e famiglie di fatto, essa fornisce rilievo costituzionale, e quindi necessità di tutela, a forme di convivenza diverse da quella tradizionale.

Ciò è dimostrato dalla giurisprudenza costituzionale, la quale pur ritenendo un “punto fermo” “la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio” (C. cost. ord. n. 491 del 2000), non considera formazioni sociali diverse da quest’ultima irrilevanti sul piano costituzionali e individua nell’articolo 2 della Costituzione il fondamento costituzionale di una possibile regolamentazione giuridica delle medesime.

In questo senso è possibile richiamare, oltre alle sentenze relative ai diritti delle coppie omosessuali sulle quali si tornerà a breve, quelle sentenze che hanno riconosciuto il diritto del convivente di fatto a succedere nel contratto di locazione (C. cost. n. 404 del 1988) o nella posizione del convivente assegnatario dell’alloggio di edilizia residenziale (C.cost. n. 559 del 1989), quale garanzia del diritto fondamentale all’abitazione ex art. 2 Cost..

3. I diritti delle coppie omosessuali nella giurisprudenza costituzionale: le sentenze della Corte costituzionale nn. 138 del 2010 e 170 del 2014

Il tema della famiglia “tradizionale” e delle “famiglie di fatto” si è imposto nella giurisprudenza costituzionale, in particolare in due pronunce – la sent. 138 del 2010 e la sent. 170 del 2014 – in relazione al riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali.

La sentenza n. 138 del 2010 ha dichiarato inammissibile la questione, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di Appello di Trento in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost., relativa alle norme del codice civile che non consentono alle persone delle stesso sesso di contrarre matrimonio.

Anche in questa occasione, la Corte valorizza la distinzione tra la “famiglia tradizionale” che trova fondamento nell’art. 29 della Costituzione, e le diverse forme di convivenza tutelate all’art. 2 Cost.

Mediante un’affermazione di principio, la Corte costituzionale ha scelto di includere l’unione omosessuale, “intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, nel novero delle formazioni sociali protette dall’art. 2 della Costituzione.

L’art. 29 della Costituzione, invece, “non prende in considerazione le unioni omosessuali, bensì si riferisce al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto”. Secondo la Corte, infatti, l’interpretazione della appena citata norma costituzionale non può spingersi sino ad “includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”. I Costituenti infatti, “tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”.

E’ particolarmente significativo il fatto che la Corte si rivolga al Parlamento, con un monito rafforzato e rimasto sino ad oggi inascoltato, al fine di individuare “nell’esercizio della sua piena discrezionalità”, “le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omossessuali”.

I principi contenuti nella sentenza n. 138 del 2010 sono stati ribaditi dalla Corte nella sentenza n. 170 del 2014, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina che determina lo scioglimento del matrimonio in caso di rettificazione del sesso da parte di uno dei coniugi, senza prevedere laddove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con un’altra forma di convivenza registrata.

La Corte rivolge nuovamente un monito al legislatore e sulla stessa linea dell sent. n. 138 del 2010, afferma come sia “innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni ‘specifiche’ e ‘particolari’ di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore”.

In entrambe le pronunce dunque, la Corte costituzionale afferma e ribadisce il diritto fondamentale delle coppie omosessuali a vivere liberamente la loro condizione di coppia ex art. 2 Cost., invitando il legislatore a individuare forme di riconoscimento e garanzia di tale diritto.

4. La giurisprudenza comune in tema di riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali

Non solo la Corte costituzionale, ma anche i giudici comuni si sono mossi nella direzione di sopperire all’assenza di una disciplina legislativa in materia di convivenze more uxorio, eterosessuali e omosessuali. Anzi talvolta i giudici comuni si sono dimostrati meno restii nell’equiparare la famiglia “tradizionale” alle famiglie di fatto, facendo riferimento ad una evoluzione del contesto sociale, giurisprudenziale e normativo.

A partire dal 1994, infatti, la Corte di cassazione ha affermato come il diritto non possa più ignorare l’esistenza e la diffusione della cosiddetta “famiglia di fatto”, ritenendo in ogni caso necessario verificare caso per caso la sussistenza di un rapporto stabile, di una comunanza di vita e della reciproca assistenza morale e materiale. Se inizialmente giurisprudenza comune e legittimità si sono occupate prevalente dalla famiglia di fatto eterosessuale, oggi esse hanno assunto un ruolo fondamentale anche nella garanzia dei diritti delle coppie omosessuali.

Emblematica in tal senso è la sentenza resa dalla Corte di Cassazione nel marzo del 2012, chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato da una coppia di cittadini italiani dello stesso sesso che intendevano ottenere la trascrizione in Italia dell’atto di matrimonio celebrato in Olanda. Richiamando ampiamente le pronunce della Corte costituzionale (sent. n. 138 del 2010) e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Schalk & Kopf c. Austria), la Suprema Corte ha affermato che i componenti della coppia omosessuale, nonostante non possano far valere il diritto a contrarre matrimonio in Italia e quello alla trascrizione del matrimonio concluso all’estero, sono tuttavia titolari del diritto alla vita familiare e del diritto inviolabile di vivere liberamente la loro condizione di coppia (Cass. Civ., sez. I, sentenza 15/03/2012, n° 4184).

Nonostante l’importanza delle affermazioni contenute nella decisione, va osservato che essa, in assenza di una previsione legislativa, nulla aggiunge dal punto di vista pratico ai diritti delle coppie dello stesso sesso.

Più incisive in tal senso sembrano essere le pronunce in tema di affido e adozione da parte delle coppie omossessuali. In particolare, la Corte di cassazione nel 2013 ha confermato l’affidamento esclusivo del minore alla madre, che conviveva intrattenendo una relazione omosessuale con un’altra donna, negando che la situazione in sé potesse essere considerata foriera di “un pericolo concreto per un sano e normale sviluppo psicofisico, morale ed educativo del minore”, costituendo al contrario un “mero pregiudizio la convinzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale” (C.  Cass., Sez. I, 11.01.2013, n. 601) . La pronuncia della cassazione ha aperto la strada ad un filone giurisprudenziale, incline ad includere nel novero dei “dei potenziali affidatari i singoli individui e quindi […] anche le coppie di fatto” (Tribunale di Bologna, decreto, 31 ottobre 2013; cfr. anche Tribunale di Genova, 30 ottobre 2013).

In questo quadro è importante richiamare le recenti pronunce in tema di adozione da parte delle coppie omossessuali. La prima pronuncia che merita di essere analizzata è la sentenza del 30 luglio del 2014 del Tribunale dei Minorenni di Roma, che ha accolto nell’interesse del minore, la richiesta di adozione presentata dalla donna convivente della madre biologica di una bambina concepita mediante procreazione assistita in Spagna. In particolare, il Tribunale consente l’adozione da parte della convivente, facendo leva sull’art. 44 della legge 184/1983, il quale “risponde all’intenzione del Legislatore di voler favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già si prendono cura del minore stesso”. Del resto, secondo il Tribunale una lettura diversa “sarebbe contraria alla ratio legis, al dato costituzionale nonché ai principi di cui alla Cedu di cui l’Italia è parte”. La pronuncia appena citata è stata confermata con sentenza del 23 dicembre 2015 dalla Corte di appello di Roma.

Analogamente merita di essere ricordata una pronuncia del 16 ottobre del 2015 della Corte di appello di Milano. In questo caso, la Corte di appello ha riconosciuto la validità e ordinato la trascrizione di un provvedimento spagnolo mediante la quale una donna italiana ha adottato in Spagna la figlia della coniuge (anche se poi divorziata), nata con fecondazione eterologa. La Corte di appello pur rigettando la domanda di trascrizione del matrimonio contratto in Spagna, e della successiva sentenza di divorzio, ha riconosciuto, facendo leva sull’interesse superiore del minore, che non può essere considerato “contrario all’ordine pubblico un provvedimento straniero che abbia statuito un rapporto di adozione piena tra una persona non coniugata e il figlio riconosciuto del partner, anche dello stesso sesso”. Decisiva nella ricostruzione operata dalla Corte di appello è la necessità di garantire il “diritto fondamentale” del minore “di continuare a godere dell’apporto materiale e affettivo delle due persone che da molti anni si sono assunte la responsabilità genitoriale nel suo interesse”. Le pronunce appena richiamate riconoscono in qualche modo e per la prima nel nostro ordinamento la c.d. step child adoption, istituto che consente di adottare il figlio del coniuge o del partner convivente, prevista dal disegno di legge sulle unioni civili attualmente in discussione in Parlamento. Sul punto siamo anche in attesa di una decisione della Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla questione, sollevata dal Tribunale di Bologna nel novembre del 2014, in relazione agli artt. 35 e 36 della legge 184 del 1983, nella parte in cui impediscono il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunziato l’adozione di un minore, figlio biologico di una donna, in favore della partner della stessa a lei unita in matrimonio.

5. Il ruolo dei Comuni e dei registri delle unioni civili

Se in Italia continua a mancare a livello nazionale una disciplina che garantisca i diritti delle famiglie di fatto eterosessuali ed omosessuali, negli ultimi anni sono stati numerosissimi i Comuni (es. Empoli, Firenze, Torino, Pisa, Parma, Napoli, Milano e Palermo) che hanno scelto di adottare provvedimenti amministrativi tesi ad assicurare ai propri residenti conviventi una prima forma di riconoscimento della propria unione attraverso l’istituzione dei Registri delle unioni civili.

Le iniziative intraprese dai Comuni si distinguono in due principali tipologie: alcuni Comuni hanno previsto l’istituzione di un registro delle unioni civili ad hoc, demandandone all’ente locale la tenuta (es. Milano); altri, preferendo un approccio minimale, hanno riservato all’amministrazione il rilascio dell’attestazione di famiglia anagrafica senza procedere all’istituzione di un registro vero e proprio (es. Torino).

Dal punto di vista degli effetti e del valore dei registri comunali la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “[i]l registro comunale sulle unioni civili non è diretto a creare un nuovo status, ma ad assicurare a siffatte formazioni sociali, che sono un dato di fatto che non può essere ignorato, parità di trattamento rispetto alle tradizionali coppie di fatto o alle convivenze di varia natura […) nei limiti del rispetto dei principi derivanti dalla legislazione statale o regionale delle varie materie coinvolte” (T.A.R. Toscana, sez. I, 11 giugno 2001, n. 1041). Inoltre, nono si può negare come i registri delle unioni civili abbiano dato attuazione ai principi costituzionali, rappresentando la prima forma di riconoscimento delle unioni fondate su un vincolo affettivo e dando così seguito alla decisione della Corte costituzionale n. 138 del 2010.

Tra i Comuni che hanno optato per la forma più incisiva di riconoscimento, mediante l’istituzione del registro delle unioni civili, merita di essere segnalata l’esperienza del Comune di Milano. La delibera oltre conferire una formale attestazione di “unione anagrafica basata su vincolo affettivo” a coloro che, maggiorenni, eterosessuali oppure omosessuali, coabitando nello stesso Comune, risulta particolarmente apprezzabile poiché prevede l’equiparazione dell’iscritto nel registro delle unioni civili, al parente prossimo a fini assistenziali. Non è un caso, dunque, che la delibera milanese abbia ottenuto un grande successo, dal momento che nel giro di un anno sono state più di un migliaio le persone iscritte. Particolarmente importante è il fatto che, nel maggio del 2013 è stata consentita l’iscrizione nel registro delle unioni civili del Comune di Milano della civil partnership conclusa all’estero da una coppia di cittadini italiani dello stesso sesso, riconoscendo per la prima volta nell’ordinamento italiano la piena legittimità di unioni contratte all’estero.

Infine, è necessario ricordare come alcuni Sindaci, tra i quali i Sindaci di Milano e Roma, hanno deciso di farsi promotori in prima persona della garanzia dei diritti delle coppie omosessuali, trascrivendo matrimoni omosessuali, o civil partnership nei registri dello stato civile.

Le trascrizioni dei matrimoni omosessuali da parte dei Sindaci hanno scatenato dapprima l’intervento delle prefetture, che hanno decretato l’annullamento delle trascrizioni effettuate, e in secondo luogo l’intervento dello stesso Ministero dell’Interno, che mediante una circolare ha invitato i prefetti ad annullare le trascrizioni illegittimamente disposte, ribadendo la competenza esclusiva del legislatore nazionale in punto di equiparazione tra matrimonio eterosessuale ed omosessuale.

La posizione del Ministero dell’Interno è stata tuttavia inizialmente smentita da tre decisioni del giudice amministrativo, il quale ritiene che spettai “esclusivamente all’Autorità giudiziaria l’eventuale annullamento delle dette trascrizioni”,

La questione è, infine, giunta dinanzi al Consiglio di Stato che, con sentenza del 26 ottobre 2015, ha riaffermato che in Italia non esiste alcun diritto alla trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero, poiché nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale il matrimonio presuppone sempre “l’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi”.

La vicenda appare, quindi, ancora una volta, testimonianza tangibile di quella discordanza tra esigenze sociali e quadro normativo di riferimento.

6. La vita familiare nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e il caso Oliari c. Italia

Anche a livello sovranazionale, grazie soprattutto all’opera svolta dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, si è assistito alla progressiva evoluzione della nozione di famiglia, che non sembra più radicarsi sulla sola concezione tradizionale, né richiedere necessariamente la diversità di sesso dei nubendi.

La pronuncia da cui è necessario prendere le mosse è quella che ha riguardato il caso Schalk & Kopf c. Austria del 2010, in cui la Corte europea ha interpretato per la prima volta in modo innovativo gli artt. 8 e 12 CEDU, che sanciscono rispettivamente il diritto alla vita privata e familiare e il diritto al matrimonio. La Corte europea, pur escludendo la violazione dei principi convenzionali invocati da parte ricorrente – nelle more del giudizio, infatti, l’Austria aveva approvato una legge in tema di riconoscimento delle coppie conviventi –, ha però riconosciuto che anche le coppie composte da persone dello stesso sesso godono del diritto al rispetto della vita familiare e non soltanto di quello al rispetto della vita privata.

Inoltre, in relazione al diritto al matrimonio, la Corte si è espressa in favore di una lettura evolutiva dell’art. 12 CEDU, precisando che, pur a fronte del tenore letterale della norma, non può ritenersi preclusa l’estensione del diritto al matrimonio anche alle unioni omosessuali, rimettendone, però, ogni determinazione alla piena discrezionalità degli Stati contraenti.

L’evoluzione della giurisprudenza europea in materia di famiglia ha finito per coinvolgere direttamente anche l’Italia, condannata, nel luglio del 2015, per l’omessa definizione di tutele per le coppie conviventi dello stesso sesso, con la sentenza Oliari e altri c. Italia.

La Corte di Strasburgo osserva non solo come dall’esame del contesto italiano emerga “l’esistenza di un conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti che prevalentemente vivono in Italia la loro relazione apertamente, e la legislazione che non fornisce loro alcun riconoscimento ufficiale sul territorio”, ma anche come le pronunce delle massime autorità giudiziarie italiane, Corte costituzionale e Corte di cassazione, che “hanno dato ampio risalto all’esigenza di riconoscere e tutelare tali relazioni”, siano rimaste inascoltate dal legislatore.

Proprio l’assenza totale di una regolamentazione organica e l’inerzia del legislatore a fronte delle pronunce giurisdizionali inducono la Corte europea a sancire la violazione dell’art. 8 CEDU, dal quale discende un obbligo positivo in capo agli Stati di riconoscere una qualche forma di riconoscimento alle unioni omossessuali. Sulla stessa linea della giurisprudenza precedente, la Corte esclude la violazione del diritto al matrimonio di cui all’art. 12 CEDU in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, ribadendo la natura non convenzionalmente imposta del diritto al matrimonio, la cui introduzione è rimessa alle scelte discrezionali degli Stati contraenti.

In definitiva, la sentenza ha imposto allo Stato italiano di provvedere all’introduzione di una forma di regolamentazione delle unioni stabili tra persone dello stesso sesso in ottemperanza ad un obbligo internazionale che oggi segue i moniti, purtroppo rimasti inascoltati negli ultimi anni.

Se il legislatore non interverrà celermente Oliari e altri c. Italia rischia di essere solo una prima condanna nei confronti dell’Italia. Le difficoltà riscontrate sul piano dell’intervento legislativo di livello nazionale hanno, infatti, indotto negli ultimi anni molte altre coppie italiane a rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo al fine di ottenere il riconoscimento per le unioni omosessuali del diritto al matrimonio, come in Oliari, ovvero del diritto alla trascrizione del matrimonio o dell’unione civile registrata conclusi all’estero all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.

7. L’atteso intervento legislativo: il ddl c.d. Cirinnà

La sentenza della Oliari c. Italia ha accesso ulteriormente il dibatto relativo alla necessaria introduzione per via legislativa di una forma di riconoscimento delle coppie omossessuali.

Non sono mancati nel corso degli anni proposte di legge volte ad introdurre una regolamentazione organica delle c.d. famiglie “di fatto” o “nuove famiglie”, eterosessuali ed omosessuali, tutte naufragate a causa delle opposizioni di principio emerse all’interno del Parlamento.

I primi e più noti tentativi sono stati quelli confluiti nel disegno di legge sui c.d. DICO (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) e nella proposta di legge sui c.d. CUS (Contratti di unione solidale), entrambi volti ad introdurre un riconoscimento delle coppie di fatto, sia eterosessuali che omosessuali.

Il disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento, (Proposta A.S. n. 2081 Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze cd. Ddl Cirinnà) , introduce l’unione civile solo a favore  delle coppie omosessuali.

Quanto ai contenuti, la proposta di legge prevede che la coppia omosessuale maggiorenne possa costituire un’unione civile mediante una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni. L’ufficiale di stato civile provvederà poi alla registrazione degli atti di unione civile nell’archivio dello stato civile. La norma elenca le cause impeditive per la costituzione dell’unione civile stessa. La costituzione dell’unione civile comporta il rilascio di un documento attestante lo stato dell’unione civile tra i due componenti (art. 2). Dal punto di vista della normativa applicabile all’unione civile, la proposta rinvia a buona parte della disciplina dettata dal codice civile con riferimento al matrimonio, sopperendo così all’irragionevolezza delle disparità di trattamento riscontrabili tra coppie coniugate e coppie omosessuali con particolare riferimento all’assistenza, sanitaria e penitenziaria e alla materia successoria (art. 3 e 4).

Uno dei punti più discussi durante l’Iter parlamentare riguarda la previsione della c.d. stepchild adoption, istituto che consente l’adozione del figlio naturale del partner (art. 5). Come visto, la stepchild adoption è stata riconosciuta dalla giurisprudenza comune e sul punto si attende una pronuncia della Corte costituzionale.

La stessa proposta si preoccupa anche di disciplinare, al Capo II, le convivenze di fatto, specificando che che si intendono “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile (art. 11). I conviventi possono regolare i relativi rapporti patrimoniali con un vero e proprio contratto di convivenza (art. 19, 20) che può si risolversi per accordo delle parti, per recesso unilaterale o in caso di matrimonio o unione civile tra i conviventi e un’altra persona (art. 21). Il testo del disegno di legge riconosce ai conviventi gli stessi diritti del coniuge per quanto riguarda l’assistenza nelle carceri e negli ospedali, garantendo la possibilità di rappresentanza per le decisione da assumere nei casi di malattie che comportino l’incapacità di intendere e volere, e nei casi di morte (art. 12). Più in generale il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno (art. 17). Ancora con riferimento ai casi, di morte, il ddl prevede la possibilità di successione nei contratti di locazione (art. 13) e, qualora la morte sia causata da un fatto illecito di un terzo, il diritto al risarcimento del danno (art. 18). Ai conviventi verrebbe riconosciuta la possibilità di inserimento nelle graduatorie pe l’assegnazione di edilizia popolare.

La proposta quindi è volta fornire un riconoscimento alle c.d. nuove famiglie e alle coppie omossessuali, garantendo nel solco della giurisprudenza costituzionale ed europea il diritto alla vita privata familiare (art. 8 CEDU) e a vivere liberamente la condizione di coppia (art. 2 Cost.).

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I diritti universali devono essere effettivamente fruiti da tutti http://www.portalenazionalelgbt.it/i-diritti-universali-devono-essere-effettivamente-fruiti-da-tutti/ Tue, 02 Feb 2016 11:42:39 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=4548 di Gianludovico de Martino

Per quanto concerne il rispetto dei diritti fondamentali per le persone LGBTI (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender e Intersex), esso è stato sancito a livello internazionale nei sistemi intergovernativi delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. L’obiettivo primario  è quello di tutelare dalle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’l’identità di genere.

L’evoluzione del quadro giuridico internazionale è andata di pari passo con il cambiamento degli atteggiamenti  sociali che, in modo particolarmente significativo, hanno abbracciato e perorato le cause delle persone LGBTI, per l’introduzione di unioni civili e matrimoni tra persone dello stesso  sesso. Negli ultimi anni numerosi paesi  hanno depenalizzato le relazioni omosessuali consensuali riformando le loro leggi anti- discriminazione.

 

Tra i momenti più importanti ricordiamo:

–  nel 2011, il Consiglio Diritti Umani  delle Nazioni Unite ha approvato la prima risoluzione sull’uguaglianza dei diritti a prescindere dall’orientamento sessuale attraverso la quale sono state condannate le violazioni dei diritti umani delle persone LGBT. La risoluzione mette in risalto il ruolo del Consiglio Diritti Umani  nella promozione universale dei diritti umani, a prescindere dalle caratteristiche personali degli esseri umani.

–  il 7 marzo 2012, in un dibattito in riunione plenaria del Consiglio alla presenza di oltre 1000 delegati provenienti dai 193 Stati-membri delle Nazioni Unite, l’Alto Commissario per i Diritti Umani, Navy Pillay, ha sottolineato come tutti i diritti della Dichiarazione Universale debbano essere applicati integralmente alle persone LGBTI; ha chiesto di sviluppare cinque aree tematiche: abrogazione di norme discriminatorie; divieto di discriminazione; garanzie giudiziarie, protezione e prevenzione, in linea con il  consolidato quadro normativo internazionale, comprensivo di strumenti vincolanti – quali il Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966)  – e non vincolanti, tra i quali particolare rilievo assumono i  “Principi di Yogyakarta” del 2007, per l’applicazione delle normative internazionali sui diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e l’identità di genere.

–  il 26 settembre 2013 l’impegno internazionale sul tema è stato rafforzato,  a margine dell’Assemblea Generale ONU, in occasione del primo incontro ministeriale (“Ministerial Meeting”) sulle persone LGBTI, da cui è scaturita una dichiarazione dei Ministri del “LGBT Core Group” delle Nazioni Unite. La dichiarazione ribadisce come  lo strumento chiave per proteggere i diritti delle persone LGBTI sia  la piena ed effettiva applicazione dei trattati internazionali sui diritti. Il “Core Group” ha fatto appello a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite affinché abroghino le normative discriminatorie esistenti, migliorino le risposte contro la violenza causata dall’odio e assicurino adeguata e appropriata protezione legale dalla discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.

–  il 24 giugno 2013 sono state adottate le “Linee – guida dell’Unione Europea per assistere le persone LGBTI nell’affermazione dei loro diritti umani”. In particolare, secondo la definizione contenuta nelle Linee – guida “l’acronimo LGBTI descrive un gruppo di persone che non si conforma alle nozioni convenzionali o tradizionali, corrispondenti al genere femminile e maschile”. Con le “Linee-guida” l’UE ha voluto “favorire la decriminalizzazione e lottare contro politiche e leggi discriminatorie; promuovere l’uguaglianza e la non discriminazione; e soprattutto combattere contro fobie e violenze in danno delle persone LGBTI”.

–  Negli ultimi anni, nel contesto della Revisione Periodica Universale (UPR)  degli Stati al Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite si è affermata una crescente consapevolezza a sostegno delle azioni  volte a tutelare i diritti delle persone LGBTI. Per quanto concerne l’Italia, la Revisione Periodica Universale Secondo Ciclo si è conclusa il 18 marzo 2015 con la accettazione di 186 raccomandazioni di cui cinque (94-98) sul tema dell’orientamento sessuale e dei diritti LGBT (vedi www.cidu.esteri.it).

 

In attuazione degli impegni assunti dall’Italia a livello internazionale è quanto mai importante introdurre nel nostro ordinamento specifiche garanzie giuridiche contro la discriminazione e per l’uguaglianza  delle persone LGBTI.

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Lavoro: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/lavoro-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Thu, 06 Nov 2014 11:53:43 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1936 A cura di Tiziana Vettor, Dipartimento dei Sistemi Giuridici, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

In ambito lavorativo la tutela delle persone omosessuali è stata introdotta nell’ordinamento italiano dal d.lgs. n. 216 del 2003 con cui il legislatore ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, intesa come «assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale» (art. 1 d.lgs. 216/2003). Per effetto della trasposizione della direttiva europea, modificata dalla l. n. 101 del 2008 di conversione del d.l. n. 59 del 2008, a seguito una procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea contro l’Italia (n. 2006/2441), lo Statuto dei Lavoratori è stato integrato (art. 2 d.lgs. n. 216/2003) con un espresso divieto di discriminazione di cui all’art. 15 della l. n. 300 del 1970 alle ipotesi di atti o patti diretti a fini di discriminazione basata sull’orientamento sessuale e la “Disciplina dei licenziamenti individuali” di cui alla l. n. 108 del 1990, con la previsione della nullità del licenziamento discriminatorio anche in ragione dell’orientamento sessuale (art. 3 d.lgs. n. 216/2003).

Il decreto legislativo ha determinato l’introduzione nel nostro ordinamento delle nozioni di discriminazione, ‘diretta’, «quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga» (art. 2, 1° co. lett.a, d.lgs. n. 216 del 2003) e ‘indiretta’, «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (art. 2, 1° co. lett.b, d.lgs. n. 216 del 2003).

Tra i comportamenti discriminatori rientrano, per espressa previsione, sia le molestie, intese come quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 del 2003), sia le eventuali istruzioni discriminatorie (ordini) impartite dal datore di lavoro (art. 2, 4° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

L’ambito di applicazione comprende sia il settore privato che il pubblico impiego, e riguarda tutte le fasi in cui si articola il rapporto di lavoro, dall’accesso all’impiego, alle condizioni di lavoro, alla retribuzione, al licenziamento (art. 3 d.lgs. n. 216 del 2003). La tutela giurisdizionale è stata innovata dall’art. 34, 34° co., del d.lgs. n. 150 del 2011 che ha ricondotto tutte le controversie in materia di discriminazione (comprese quelle di cui all’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, all’art. 4 del d. lgs. n. 215 del 2003, all’articolo 3 della l. n. 67 del 2006 e all’articolo 55-quinquies del d.lgs. n. 198 del 2006) nell’ambito del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis, 702-ter, 702-quater c.p.c. (art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011). La disciplina, riguardante la semplificazione dei riti, è inoltre intervenuta a modificare il sistema probatorio previgente, introducendo una parziale inversione dell’onere probatorio, con la conseguenza che spetta ora al convenuto, e non alla presunta vittima, dimostrare l’insussistenza della discriminazione, anche in relazione alla utilizzabilità, ai fini della presunzione della discriminazione, di dati di carattere statistico (art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011). Quanto ai rimedi, sempre ai sensi del d. lgs. 150 del 2011 (art. 28), con l’ordinanza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Il giudice, con il provvedimento ed entro il termine ivi fissato, accertata la condotta discriminatoria può ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate che, nel caso di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente. Invero il d.lgs. n. 216 del 2003, in questo modificato dalla legge n. 101 del 2008, ha esteso il novero dei soggetti legittimati ad agire in giudizio consentendo la rappresentanza, oltre alle organizzazioni sindacali, anche alle associazioni e alle organizzazioni che a diverso titolo si occupano della tutela delle persone discriminate (art. 5, 1° co., d.lgs. n. 216 del 2003) e prevedendo la possibilità di intervenire anche nei casi in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, co. 2° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

Infine, la normativa impone al giudice di tener conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero una ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento.

Lo specifico strumento normativo previsto a tutela delle persone omosessuali ha avuto una scarsa applicazione in sede giudiziale, tanto che risulta reperibile un’unica pronuncia resa dal giudice del lavoro di Bergamo1, confermata in sede d’appello2, con la quale, previo accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese da un noto avvocato italiano, consistenti nell’avere affermato, nel corso di un programma radiofonico, di non voler assumere nel proprio studio avvocati, collaboratori o lavoratori omosessuali, è stata disposta la condanna del medesimo al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla ricorrente Associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford ed a pubblicare l’ordinanza a proprie spese su uno dei principali quotidiani del Paese. Il Tribunale di Bergamo ha ritenuto punibile a norma della direttiva, anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisca o renda maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, richiamando le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (causa “C-81/12 Associatia Accept”, nonché causa “C-54/07 Feryn NV”), chiarendo come sul piano concreto le dichiarazioni possano avere verosimilmente ostacolato o potranno verosimilmente ostacolare in futuro la stessa presentazione di curricula all’avvocato resistente da parte di aspiranti avvocati, collaboratori o dipendenti omosessuali.

La tutela antidiscriminatoria nei confronti dei lavoratori è completata dalla previsione di cui all’art. 21 della l. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato Lavoro) che ha apportato modifiche agli artt. 1, 7 e 57 del d.lgs. n. 165 del 2001. Con essa si prevede che le PP.AA. adottino al proprio interno un “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”, formato da un/a componente designato/a da ciascuna delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello di amministrazione e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione. La novità, costituita dalla previsione normativa di un organismo che assume – unificandole – tutte le funzioni che la legge, i contratti collettivi e altre disposizioni attribuiscono ai Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing da tempo operanti nella Pubblica Amministrazione risiede nell’ampliamento delle garanzie, oltre che alle discriminazioni legate al genere, anche ad ogni altra forma di discriminazione, diretta ed indiretta, che possa discendere da tutti quei fattori di rischio richiamati dalla legislazione comunitaria: età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e lingua, estendendola all’accesso, al trattamento e alle condizioni di lavoro, alla formazione, alle progressioni in carriera e alla sicurezza. Il Comitato ha tuttavia solamente compiti propositivi, consultivi e di verifica e si pone nell’ottica di una ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico. Le modalità di funzionamento dei Comitati unici di garanzia sono disciplinate da linee guida contenute nella Direttiva governativa del 4 marzo 2011 emanata di concerto dal Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Pubblicata, G.U. 11.6.2011, n. 134.

Infine, si potrà accedere a una tutela giuridica anche per colpire trattamenti penalizzanti in ambito lavorativo legati all’identità sessuale, e cioè quando sussista un conflitto tra identità di genere e sesso fisico. È questo quanto ha affermato la Corte di giustizia dell’Unione europea (“P contro S e Cornwall County Council”), la quale ha infatti ricondotto le discriminazioni nei confronti delle persone transessuali nell’ambito delle discriminazioni di sesso (Cfr. “Identità di genere”).

Note:
[1] Tribunale Bergamo, sez. lavoro, ord. 6/8/2014 n. 791
[2] Corte d’Appello Brescia, sez. lavoro, sent. 23/1/2015 n. 529

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Omofobia e transfobia: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/omofobia-e-transfobia-guida-alle-normative/ Fri, 18 Jul 2014 10:42:53 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2530 A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

Il termine omofobia fa la sua prima comparsa durante la seconda metà del secolo scorso nel linguaggio delle scienze psicologiche ma il suo utilizzo si estende presto all’ambito giuridico, quando, tanto a livello nazionale che europeo e internazionale, inizia a manifestarsi con forza l’esigenza di tutelare l’orientamento sessuale e l’identità di genere (Cfr. “Orientamento sessuale” e “Identità di genere”). Al fine di cogliere il significato di tale neologismo vale la pena prendere a prestito la definizione offerta dal Parlamento dell’Unione europea nella sua “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006 in cui, al considerando B, l’omofobia viene descritta come «una paura e un’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio ed analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». Ciò che più rileva al fine di comprendere la normativa e la giurisprudenza in materia è il fatto che tale peculiare paura si esplica attraverso comportamenti pregiudizievoli per la comunità omosessuale e transessuale. Riportando ancora le parole del Parlamento europeo utilizzate nella Risoluzione appena citata, nonché, con formulazioni quasi identiche, in altri documenti più recenti, quali la “Risoluzione sulla lotta all’omofobia in Europa” del 24 maggio 2012 e la “Risoluzione sulla tabella di marcia dell’UE contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere” del 4 febbraio 2014, essa «si manifesta nella sfera pubblica e in quella privata sotto forme diverse, come le dichiarazioni inneggianti all’odio e l’istigazione alla discriminazione, la ridicolizzazione, la violenza verbale, psicologica e fisica così come la persecuzione e l’omicidio, la discriminazione in violazione del principio di parità, nonché le limitazioni ingiustificate e irragionevoli dei diritti».1

Fermo appare dunque il rifiuto delle molteplici modalità di manifestazione dell’omofobia e della transfobia da parte dell’Unione europea, ma non solo: anche il Consiglio d’Europa, attraverso la Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri nel 2010 ha invitato gli Stati membri ad adottare misure idonee a prevenire e combattere gli episodi di omofobia e transfobia, così come, nell’ambito delle Nazioni Unite, la Risoluzione del Consiglio per i diritti umani del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” contiene un esplicito riferimento alla necessità di contrastare gli atti di violenza motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. L’obiettivo di reprimere i fenomeni legati all’omofobia e alla transfobia occupa quindi da qualche tempo un posto non irrilevante nell’agenda politica internazionale ed europea e, di conseguenza, in quella della maggior parte degli ordinamenti democratici del mondo: tutt’altro che agevole si sta però rivelando la decisione su quali siano le misure normative che il raggiungimento di tale obiettivo richiede di adottare.

Sono ormai diverse le legislazioni penali nazionali che, contemplando i c.d. crimini d’odio, prevedono che la motivazione omotransfobica alla base di un reato costituisca una circostanza aggravante nella determinazione della pena e che sanzionano i c.d. discorsi d’odio, ovvero quelle espressioni, in forma orale o scritta, che incitano, incoraggiano o giustificano la discriminazione e l’ostilità nei confronti della popolazione omosessuale o transessuale.
Il legislatore italiano non è ancora intervenuto in tal senso ma è attualmente in esame al Senato il Disegno di legge S-1052 (c.d. Disegno di legge Scalfarotto) recante “Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia” approvato dalla Camera dei Deputati il 19 settembre 2013 che, integrando la Legge n. 654 del 1975 (c.d. Legge Reale, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite nel 1966) e la Legge n. 205 del 1993 (c.d. Legge Mancino), punisce l’istigazione a commettere o la commissione di atti di discriminazione e di violenza motivati da omofobia o transfobia ed estende ai reati fondati sull’omofobia o transfobia l’aggravante della pena fino alla metà già prevista per i per i crimini commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’introduzione di una disciplina penalistica per contrastare gli episodi legati a omofobia e transfobia, peraltro già tentata a più riprese nel corso della XVI legislatura, ha suscitato e continua a suscitare un vivace dibattito non solo politico, ma anche giuridico, soprattutto in ragione della compressione del diritto fondamentale di manifestare il proprio pensiero che la sanzione del discorso d’odio andrebbe a determinare. La questione relativa al delicato bilanciamento tra libertà di espressione e diritto a non subire discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale è stata affrontata dalla Corte europea diritti umani che, con la decisione “Vejdeland e altri c. Svezia” del 2012, ritenendo non lesiva dell’art. 10 della CEDU la condanna penale dei ricorrenti, responsabili della distribuzione di volantini omofobi in una scuola, ha ammesso che l’esercizio della libertà di espressione può subire restrizioni volte alla tutela della reputazione e dei diritti della comunità omosessuale. Tuttavia, pare importante sottolineare che i giudici di Strasburgo non hanno sancito alcun obbligo in capo agli Stati membri del Consiglio d’Europa di vietare le dichiarazioni pubbliche omofobe o transfobe, anzi è ribadito il dovere dei singoli ordinamenti che adottano o mantengono normative volte a reprimere i discorsi d’odio di dimostrare che l’esigenza di limitare la libertà fondamentale di espressione è dettata da «bisogni sociali pressanti» (§ 51 della sentenza) e che le misure previste si rivelino «proporzionate» (§ 52 della sentenza) rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere. Inoltre, non può evincersi dalla pronuncia che sia conforme alla CEDU la repressione penale di qualunque espressione o condotta omofoba a prescindere dal contesto in cui si verifica: particolare attenzione viene, infatti, rivolta dai giudici di Strasburgo al fatto che i volantini censurati erano stati depositati negli armadietti personali degli alunni, avessero come destinatari individui «impossibilitati a rifiutarli» e che, in ragione della giovane età, erano da ritenersi fortemente «sensibili e impressionabili» (§ 56 della sentenza).

Merita infine segnalare come l’assenza di una normativa specifica volta al contrasto dell’omofobia non abbia impedito ad alcuni giudici italiani di attribuire rilevanza penale ad alcune manifestazioni di odio omofobico. Ad esempio, il Tribunale di Busto Arsizio ha di recente ritenuto sussistente l’esimente della provocazione ex art. 599 c.p. ove la condotta sia stata determinata dall’altrui fatto ingiusto consistente nell’affermazione per cui l’omosessualità è un’aberrazione genetica contro natura, mentre il Tribunale di Torino, in funzione di giudice d’appello, ha confermato la pronuncia del Giudice di Pace che ha condannato un uomo per lesioni personali e ingiurie ai danni di un collega perchè omosessuale, riconoscendo ed evidenziando il contenuto omofobico delle espressioni cui ripetutamente era stata esposta la vittima.
Anni prima, del resto, la Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 10248 del 2010, aveva già chiarito che l’utilizzo del termine ‘gay’ configura il reato di ingiuria qualora venga «riferito a precisi fatti ritenuti disdicevoli, focalizzati come tali con inequivoco intento denigratorio e che esprimono riprovazione per le tendenze omosessuali del soggetto a cui si rivolge l’offesa».

Note:
[1] Considerando B della “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006.

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L’iter di transizione : l’esperienza del SAT del Circolo Pink di Verona http://www.portalenazionalelgbt.it/liter-di-transizione-dello-sportello-sat-servizio-accoglienza-trans-del-circolo-pink-di-verona/ Thu, 26 Jun 2014 07:06:55 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1064 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

In Italia esistono diversi consultori per persone transessuali e transgender gestiti dalle associazioni di volontariato: dopo il primo consultorio avviato dal MIT (Movimento Identità Transessuale) a Bologna nel 1994, nel corso degli anni si sono sviluppate altre esperienze e ad oggi sono sette i consultori autogestiti presenti sul territorio nazionale.
Accanto al Consultorio del MIT ci sono infatti: a Torino lo Sportello Trans Spo.T del Gruppo Luna; a Milano lo Sportello Trans ALA Milano Onlus; a Verona il SAT (Servizio Accoglienza Trans/Transgender) del Circolo Pink; a Torre del Lago (Lucca) il Consultorio Transgenere; a Firenze il Consultorio della Salute dell’Associazione IREOS; a Roma lo Sportello dell’Associazione Libellula.

In questo articolo intendiamo approfondire l’esperienza del SAT, il Servizio Accoglienza Trans/Transgender del Circolo Pink di Verona che in questi anni è diventato un punto di riferimento del Triveneto, sviluppando in modo sistematico – anche attraverso l’avvio di specifiche convenzioni e la formazione di volontari/e – quel lavoro di rete con i servizi e l’associazionismo del territorio che caratterizza l’attività di questa tipologia di consultori. La descrizione delle attività del SAT è anche occasione per presentare come si svolge il percorso di transizione in tutte le sue diverse fasi.
Il SAT nasce con lo specifico intento di dare risposte ai tanti bisogni delle persone transessuali e transgender del Triveneto: in seguito, infatti, alle numerose richieste ricevute da parte di persone transessuali/transgender e constatata l’assenza di servizi pubblici sul territorio veronese specificatamente dedicati a questa tematica, il Circolo Pink (associazione GLBTQE attiva a Verona dal 1985) decide di creare il SAT nel novembre 2011. I principi fondanti del Servizio sono gli stessi che hanno ispirato la più che ventennale attività del Circolo Pink: non solo il riconoscimento dei diritti, nel caso specifico il diritto di essere se stessi/se stesse, ma anche la possibilità di avere un luogo di riferimento, di incontro, di discussione su una condizione, quella delle persone con identità di genere non conforme al proprio sesso biologico, difficile da vivere con serenità nella nostra società. La paura della condanna sociale e religiosa, del rifiuto familiare, della perdita del lavoro, della discriminazione, costringono molte persone transessuali a vivere una condizione di auto-emarginazione, di isolamento e di infelicità.

Per supportare la fase di transizione, il SAT-Pink ha quindi aperto uno sportello di accoglienza e ha attivato diverse collaborazioni con i servizi del territorio: presso il SAT è infatti possibile iniziare attivamente il percorso di transizione, grazie alla presenza e alla collaborazione di specialisti e professionisti quali due psicologhe, un medico endocrinologo per la terapia ormonale e un avvocato per l’assistenza legale (si tratta di collaborazioni formalizzate attraverso la firma di convenzioni sottoscritte da entrambe le parti). L’intervento principale del SAT è stato ed è quello di accogliere gli utenti in un ambiente protetto, non giudicante e rispettoso, dove si possano sentire a proprio agio ed esprimere bisogni e necessità. Tale accoglienza si è anche concretizzata attraverso il gruppo di auto-mutuo-aiuto, uno spazio di confronto tra persone che condividono la stessa esperienza, nonché un’occasione per condividere anche gli aspetti pratici e legati alle dimensioni socio-relazionali. Il gruppo inizialmente è stato facilitato da due volontarie, le quali hanno notato un divario rispetto alla dimensione dell’età e del tipo di transizione (FtM molto giovani con problematiche più legate al vivere con i genitori, alla scuola e al rapporto tra pari; MtF generalmente più adulte con problematiche connesse al lavoro e ad eventuali matrimoni e figli precedenti la transizione), motivo per cui si è valutata la possibilità di formare due gruppi più omogenei rispetto alle tipologie di situazioni da affrontare. Inoltre, il SAT offre un servizio di mentoring, ovvero la possibilità per l’utenza di confrontarsi con chi ha già affrontato il percorso di transizione, in maniera tale da avere supporto da una figura non professionale con la quale si condivide un vissuto e che, dunque, gode di una competenza esperienziale diretta.
Il SAT propone, pertanto, un percorso personalizzato, cercando di rispondere alle richieste e alle singole esigenze: molte di queste persone sono transessuali e transgender che hanno chiesto un aiuto e un supporto concreto per intraprendere l’iter di transizione, ma anche tante/i che cercavano e cercano di capirsi meglio, nonché i loro genitori, amici e parenti. Internet e i contatti personali si rivelano essere la principale fonte di conoscenza del servizio, seguiti dall’invio da parte di altre associazioni sul territorio nazionale.

Da novembre 2011 a novembre 2013, 49 persone si sono rivolte al SAT (a cui si aggiungono 23 accessi da novembre 2013 a maggio 2014), mettendo in evidenza come tale servizio sia un punto di riferimento non solo per la regione: la maggior parte provengono dal Veneto, diverse persone da Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna; le restanti da altre regioni quali Sicilia, Puglia, Liguria e Piemonte. Una delle iniziative recenti del SAT, su stimolo proprio del circolo Pink, riguarda la mappatura e la messa in rete dei servizi che si rivolgono alle persone LGBTI del Veneto al fine di creare dei percorsi preferenziali di invio dell’utenza al SAT.
Delle 49 persone accolte sino a novembre 2013, 16 sono le persone giovani sotto i 25 anni, spesso accompagnate dai genitori. Su tali 49 accessi, 27 risultano presi in carico dal SAT, dove per ‘presa in carico’ si intende un percorso che può prevedere un supporto psicologico o l’inizio dell’iter di transizione e/o della terapia ormonale, la partecipazione al gruppo di auto-aiuto, la consulenza dell’avvocato. Nello specifico, un totale di 11 persone è attualmente seguito per l’iter di transizione, di cui 10 stanno svolgendo il percorso endocrinologico, mentre 5 si sono avvalse della consulenza del legale che collabora con il Servizio. Vediamo ora nel dettaglio qual è l’iter di transizione attivato dal SAT-PINK, ovvero l’applicazione nella città di Verona dello standard sui programmi di adeguamento della disforia di genere fornito da ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere).

1. Analisi della domanda e valutazione dell’eleggibilità

Il SAT, in quanto consultorio autogestito e basato sull’attività volontaria, offre una prima accoglienza per dare ascolto alle problematiche di coloro che si rivolgono al Servizio, garantendo rispetto e privacy. Il SAT è gestito da persone provenienti da vari contesti culturali e con diversi percorsi di studio e di lavoro, e i volontari e le volontarie sono stati/e preparati/e a tale compito grazie ad un corso di formazione della durata di tre mesi. Bisogna riconoscere il ruolo del SAT anche nel fornire informazioni rispetto a persone che si interrogano rispetto al proprio orientamento sessuale o alla propria identità di genere: lo Sportello, infatti, ha valenza di filtro riguardo alle richieste, perché non tutta l’utenza ha la necessità di arrivare alla consulenza psicologica ma, a volte, necessita semplicemente di essere indirizzata rispetto ad esigenze individuali. Il SAT, infatti, offre:

  • informazioni e orientamento (ad esempio, sui centri medici italiani in cui è possibile effettuare la transizione, le associazioni sul territorio che lavorano in questo ambito, locali e o circoli di aggregazione, negozi e centri estetici friendly);
  • ascolto telefonico;
  • incontri con genitori/amici e partner di persone transessuali;
  • gruppo di auto-mutuo-aiuto;
  • momenti di incontro e confronto con persone transessuali e transgender, anche attraverso il servizio di mentoring;
  • informazione legale.

Per poter accedere all’iter di transizione, invece, è necessaria una diagnosi di transessualismo da parte di uno/a psicologo/a, un/a sessuologo/a o uno/a psichiatra, ed esami clinici completi. Per questa ragione, come accennato prima, il SAT ha attivato due collaborazioni con altrettante psicologhe convenzionate con il SSN.

2. Terapia ormonale

In seguito alla diagnosi di transessualismo e ad un adeguato percorso psicologico, specifico caso per caso, si può poi accedere alla terapia ormonale: un/a endocrinologo/a prescrive una terapia farmacologica con ormoni del sesso desiderato con lo scopo di adeguare il più possibile le sembianze fisiche al proprio vissuto psicologico. Si tratta dell’inizio del percorso ‘esteriore’, quello percepito dagli ‘altri’, il cui risultato complessivo è molto soggettivo e dipende dall’età con cui si inizia il percorso di transizione. In questa fase, non viene modificata la struttura ossea, non viene eliminata la barba né cambia il tono di voce nelle donne MtF, e non si elimina il seno negli uomini FtM: al di là quindi della valenza medica o dei risultati conseguiti, la terapia ormonale ha sicuramente degli effetti psicologici in quanto sancisce l’inizio del cambiamento.
Il SAT-Pink ha avviato una collaborazione con un medico endocrinologo che riceve sia in Ospedale, quindi in regime di SSN, sia privatamente. L’accesso all’ambulatorio di endocrinologia (sia pubblico che privato) per l’inizio del trattamento ormonale è successivo e conseguente all’accesso al SAT e al percorso psico-diagnostico, che prevede la formulazione della diagnosi di Disforia di Genere. La prima visita prevede, di norma, la valutazione medico-sanitaria dello stato attuale di salute della persona e la prescrizione degli esami necessari per l’eventuale avvio del trattamento ormonale. Contestualmente alla terapia ormonale, la persona in transizione inizia il periodo chiamato ‘test di vita reale’ nel genere vissuto come più vicino rispetto al proprio interno sentire. Si tratta di un periodo di tempo variabile in cui la persona vive nel genere scelto, confrontandosi con le sfide dettate dall’ambiente esterno e dalla propria percezione di sé.

3. Iter legale – Fase 1

Possiamo suddividere l’iter legale in 2 fasi, una precedente e una successiva alla riassegnazione chirurgica, in cui l’utente è seguito/a da un/a legale, grazie a una convenzione sottoscritta dal SAT con i/le professionisti/e.

Autorizzazione all’operazione chirurgica

Per ottenere l’autorizzazione all’intervento chirurgico, ai sensi della Legge 164 del 14 aprile 1982, si fa ricorso al Tribunale di residenza della persona che sta affrontando l’iter di transizione presentando le relazioni di psicologo/a – psichiatra ed endocrinologo/a: questo compito è interamente svolto dal/la consulente legale. Il Tribunale può accettare le relazioni, o nominare dei periti d’ufficio (a carico dell’utente). Ad oggi, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Una sentenza della Corte Costituzionale, nel 2014, ha però dichiarato l’incostituzionalità della norma che impone lo scioglimento automatico del vincolo matrimoniale in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi. Tale pronuncia è stata confermata dalla Corte di Cassazione, con una sentenza del 21 aprile 2015 (Cfr. “Identità di genere”).

4. Riassegnazione Chirurgica del Sesso (RCS)

La riassegnazione o riconversione chirurgica del sesso, a cui è possibile accedere solo in seguito all’autorizzazione del Tribunale, prevede percorsi diversi per le donne MtF e per gli uomini FtM. Nel caso di soggetti MtF, è possibile accedere alla mastoplastica additiva e, in seguito all’intervento demolitivo, alla vaginoplastica: la prima operazione, considerata estetica, è interamente a carico dell’utente, mentre la seconda può essere effettuata attraverso il SSN. Nel caso di soggetti FtM, invece, l’intervento di mastectomia prevede sia l’asportazione di ghiandole mammarie e seni che il rimodellamento del torace. Per quel che riguarda gli organi sessuali primari, si procede inizialmente all’istero-annessiectomia (asportazione di utero e ovaie), a cui seguono gli interventi ricostruttivi che possono essere di diverso tipo, dalla falloplastica (costruzione del neofallo attraverso l’asportazione di altre parti del corpo del paziente) alla clitoridoplastica (modellamento della clitoride in seguito all’ipertrofia provocata dalla terapia ormonale).

5. Iter legale – Fase 2

Autorizzazione al cambio anagrafico

Con le cartelle cliniche della struttura sanitaria dove è stata effettuata la riconversione, si fa ricorso al Tribunale di residenza per ottenere la rettifica anagrafica, ai sensi della Legge 164 del 14 aprile 1982 e relativi aggiornamenti. Anche in questo caso il Tribunale può accettare la cartella clinica o nominare dei periti d’ufficio (a carico dell’utente). Il Tribunale, con sentenza, ratifica l’avvenuta conversione e ordina all’ufficiale di stato civile di apportare le opportune rettifiche all’atto di nascita.
È bene precisare che solo a fronte del riconoscimento da parte del Tribunale dell’avvenuta modificazione dei caratteri sessuali è possibile ottenere l’adeguamento dei documenti di stato civile, con l’indicazione del nuovo nome e sesso. In questi ultimi anni alcune sentenze hanno però messo in discussione questo principio, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Rovereto (Cfr. “Identità di genere”).

6. Follow up

A garanzia della salute della persona, intesa come benessere complessivo dal punto di vista sia psicofisico che sociale, i/le predetti/e operatori/operatrici si impegnano a garantire la continuità del percorso integrato di sostegno.
Il follow up ha la finalità di verificare le condizioni psico-fisiologiche e l’inserimento socio-relazionale connessi con gli adeguamenti effettuati, e di aiutare la persona ad affrontare i complessi vissuti emozionali conseguenti al percorso di adeguamento. Per quel che concerne la terapia ormonale, è importante sottolineare come sia necessario proseguirla per l’intero arco di vita, motivo per cui la persona dovrà sottoporsi a controlli periodici.
Al momento, tutti i soggetti seguiti dal SAT intendono sottoporsi alla RCS ma, negli intenti dello Sportello, non si esclude la possibilità di progettare un follow up anche per gli/le utenti che desiderano fermarsi alla terapia ormonale nell’ottica, appunto, di un riconoscimento di un percorso e di una affermazione della propria identità di genere indipendentemente dalla RCS.

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