Adolescenza e omosessualità in un’ottica evolutiva

Adolescenza e omosessualità in un’ottica evolutiva: coming out, compiti di sviluppo, fattori di protezione [1]

A cura di Vittorio Lingiardi  e Roberto Baiocco 

Come avviene la ‘scoperta’ della propria omosessualità? È un fulmine a ciel sereno o l’esito di una lunga serie di ‘indizi’? Avviene prima, durante o dopo l’adolescenza? Quante cose vissute ‘prima’ vengono comprese ‘dopo’? Ma prima e dopo cosa? C’è un momento in cui un/a adolescente dice “sono gay”, “sono lesbica”? Quali dubbi e certezze, tristezze e gioie, paure e curiosità accompagnano un ragazzo o una ragazza nel riconoscimento del proprio orientamento sessuale e nell’acquisizione di consapevolezza della propria identità? E poi, tempi e modi di questo percorso sono gli stessi per tutti e per tutte?

Questo contributo si propone di affrontare alcuni aspetti dello sviluppo dell’orientamento (omo)sessuale e dell’identità di genere in adolescenza, evidenziando alcune specificità che i percorsi formativi spesso trascurano.

Scrivere di omosessualità è sempre un problema perché si rischia di isolare questa dimensione nucleare dell’identità dall’esperienza umana generale. D’altra parte, non scrivendone, si rischia di tacere un elemento fondamentale della vita di molte persone. È necessaria perciò la capacità di mantenersi in equilibrio tra differenze e uguaglianze. Inoltre, le forme dell’omosessualità sono così tante che il tentativo di elaborare una teoria comprensiva dell’omosessualità è realizzabile solo al prezzo di una grave distorsione delle differenze che esistono tra le persone omosessuali. Infatti, molte e diverse sono le (etero-)(bi-)-(omo-)-sessualità, e sempre plasmate dai contesti culturali e di genere. Sappiamo ancora ben poco di come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l’uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione dell’individuo e alla costruzione della sua sessualità (LeVay, 2011). Eppure, per molti anni l’omosessualità è stata un argomento controverso, che ha impegnato psicologi e psicoanalisti nella ricerca di modelli esplicativi e nella costruzione di teorie che, anche se diversamente articolate, hanno a lungo confinato le persone omosessuali nel territorio della psicopatologia.

Non è da molto che la comunità psicoanalitica ha avviato una radicale revisione delle teorie che vedevano nell’omosessualità un esito patologico o comunque ‘non riuscito’ dello sviluppo. Tali teorie prendevano le mosse dal modello cosiddetto ‘psicosessuale’, che prevedeva l’esistenza di un’unica linea di sviluppo ‘sana’ e pressoché ‘invariabile’, che tendeva al raggiungimento di un culmine eterosessuale e assicurava la maturità e la salute mentale. Eventuali differenze dovute al genere erano tenute in scarsa o nessuna considerazione, e la possibilità di un orientamento omosessuale ‘normale’ neppure contemplata. L’omosessualità (per lo più maschile) era ‘spiegata’ ricorrendo a costellazioni familiari ‘tipiche’, come un rapporto troppo intimo con la madre o l’assenza della figura paterna (Lingiardi, 2016).

È solo dalla fine del secolo scorso che, in ambito psicoanalitico, prende consistenza e riceve considerazione una letteratura sull’omosessualità non gravata dal pregiudizio. Per la prima volta, psicoanalisti e studiosi omosessuali escono dalla clandestinità e prendono la parola (Drescher, 1998; Isay, 1989; Roughton, 2002). È l’inizio del cosiddetto processo di “depatologizzazione” dell’omosessualità.

 Sul piano della pratica clinica avvengono cambiamenti sostanziali. Gli approcci terapeutici, fino a quel momento caratterizzati da modelli che consideravano l’omosessualità un disturbo da curare (e che daranno vita alle cosiddette ‘terapie riparative’, inefficaci e dannose) cedono il posto a una visione dell’omosessualità come normale variante non patologica della sessualità umana. Finalmente, sul finire del secolo scorso, le ripercussioni negative della stigmatizzazione/discriminazione sociale sui percorsi evolutivi delle persone gay e lesbiche iniziano a essere riconosciute. La ricerca sull’omosessualità inizia così a cedere il passo alla ricerca sull’omofobia. La domanda non è più “perché lei è omosessuale?” (domanda destinata a rimanere senza risposta), ma “perché lei ha ostilità, paura, disgusto verso l’omosessualità e gli omosessuali?” (Lingiardi, Nardelli, 2014).

Una prospettiva evolutiva

All’incirca a partire dai due anni, i bambini mostrano una chiara preferenza per il gioco con bambini dello stesso genere. Se interagiscono con bambini di genere differente, generalmente fanno un gioco parallelo oppure si limitano a osservare il gioco dell’altro.

La scuola primaria è uno dei luoghi dove vengono ‘prodotte’ specifiche pratiche di genere. Anche i libri tradizionali di favole veicolano stereotipi, rafforzando i ruoli di genere e la contrapposizione maschile vs. femminile: per esempio, le principesse sono solitamente buone e fragili e vengono salvate da principi forti e coraggiosi. Fin dalla primissima infanzia i bambini associano al ‘maschile’ caratteristiche quali assertività, forza e coraggio e al ‘femminile’ aspetti come dipendenza, emotività e cura per gli altri. Già a partire dai tre-quattro anni, i ruoli e i comportamenti tendono a venire determinati dal genere d’appartenenza e ogni forma di atipicità viene giudicata negativamente e ostacolata, sia dal gruppo dei pari sia dagli adulti (Baumgartner, 2010).

 I bambini e le bambine tra i quattro e i sei anni sembrano cogliere con chiarezza le ‘differenze’ tra uomini e donne; inoltre, per assimilazione, possono annettere un significato negativo alle parole ‘gay’ e ‘lesbica’, anche quando non ne conoscono con precisione il significato. Mentre le bambine sembrano più portate a interessarsi anche ai giochi ‘da maschi’, i bambini cercano di evitare i giochi ‘da femmine’ (Martin, Fabes, Hanish, Leonard, Dinella, 2011). Queste modalità diverse di interazione spesso portano i maschietti alla chiusura e alla segregazione e, di conseguenza, anche le bambine iniziano a incontrare difficoltà e così hanno scarse possibilità di partecipare al gioco dei compagni maschi.

A scuola, tra i sette i dieci anni, possono comparire i primi comportamenti vessatori verso chi è percepito come ‘diverso’. I bambini, in particolare i maschi, iniziano a usare parole offensive nei confronti dei gay e dell’omosessualità (Rivers, 2011; Toomey et al., 2010). Generalmente la segregazione di genere è massima tra gli 11 e i 12 anni. Il difficile cammino per la ‘conquista’ della propria identità spinge molti ragazzi a rifiutare la diversità e i comportamenti non conformi al genere d’appartenenza. Così, i ragazzi che si discostano dai ruoli di genere mediamente attesi spesso vengono stigmatizzati e isolati.

 Anche senza volerlo, genitori e insegnanti propongono stereotipi e pregiudizi di genere, finendo per rinforzare la segregazione sessuale. Inoltre, spesso tendono a far coincidere l’orientamento sessuale con i comportamenti non conformi al genere di appartenenza (per esempio, un bambino che gioca con le bambole è ‘destinato’ a diventare gay). Tali dimensioni, entrambe connesse all’identità sessuale, non sono invece né obbligatoriamente né univocamente correlate.

Molti adulti gay e lesbiche fanno risalire all’età di 4-5 anni i primi ricordi della ‘sensazione’ di essere ‘diversi’ o ‘diverse’ dai propri coetanei rispetto alle preferenze nei giochi e alla scelta dei propri compagni, ad aspetti del carattere o a un comportamento ‘atipico’ rispetto alla visione convenzionale del genere d’appartenenza; per esempio, bambine che prediligono giochi d’azione e bambini che prediligono giochi sociali e appaiono più ‘sensibili’ (Lingiardi, Carone, 2016).

In giovani gay e lesbiche l’amicizia infrange più facilmente la segregazione di genere: scelgono infatti come amici o ‘amici del cuore’ un bambino o una bambina non del proprio genere (Baiocco, Di Pomponio, Nigito, Laghi, 2012). Al tempo stesso, l’adolescente può scegliere interessi e amici in modo ‘conformistico’ come effetto della pressione esercitata dalla socializzazione con i coetanei. In particolare, il timore di essere scambiati per gay o lesbiche spinge la maggioranza dei ragazzi, indipendentemente dall’orientamento sessuale, a modellare il proprio comportamento in funzione più delle aspettative (interne e esterne) di genere che delle proprie preferenze e attitudini personali.

Nell’infanzia, il sentimento predominante può invece essere quello di sentirsi diversi senza comprenderne i motivi. In questo caso il processo di individuazione non rafforza un’idea di sé come soggetto unico e degno di valore, ma spesso come individuo strano e non assimilabile al gruppo dei coetanei. In adolescenza, o quando si diventa adulti, tali differenze possono essere attribuite in particolare all’orientamento sessuale, che può essere visto, anche soggettivamente, come una tra le possibili spiegazioni delle difficoltà provate nell’infanzia.

È importante sottolineare che queste linee evolutive, sebbene ricorrenti, non rappresentano la storia di tutti i giovani gay e lesbiche. Come le eterosessualità, anche le omosessualità sono molte, e molti, dunque, i modi in cui possono essere vissute. Meglio dunque parlarne al plurale: le omosessualità (le bisessualità, le eterosessualità). Alcuni, per esempio, sono diventati consapevoli del proprio orientamento sessuale solo da adulti, magari dopo i trent’anni e varie esperienze di tipo eterosessuale. Altri raccontano di essersi sempre sentiti ‘diversi’ dalla maggior parte dei propri coetanei, ma di aver dato un nome a tale ‘diversità’ attraverso le parole degli altri che, per primi, li hanno ‘identificati’ come gay o lesbiche, spesso purtroppo chiamandoli con appellativi offensivi. Anche le reazioni a queste scoperte possono variare in modo sostanziale: fonte di turbamento per alcuni, semplice fastidio limitato a poche esperienze negative per altri; spunti di resilienza e affermazione di sé per alcuni, elementi traumatici destinati a segnare l’intero corso della vita per altri.

Lo sviluppo dell’identità

Alcuni autori differenziano il concetto di formazione dell’identità da quello di integrazione dell’identità. Con il primo si intende lo sviluppo della consapevolezza del proprio orientamento sessuale, iniziare a domandarsi se si è gay oppure bisessuali, conoscere e frequentare contesti nei quali incontrare altre persone omosessuali. L’integrazione dell’identità si riferisce invece all’accettazione della propria identità omosessuale, alla risoluzione dell’omofobia interiorizzata (assimilare il pregiudizio sociale anti-omosessuale e rivolgerlo contro se stessi o se stesse), alla valorizzazione degli aspetti positivi della propria identità, al sentirsi privatamente e pubblicamente a proprio agio con il fatto che gli altri possano ‘conoscere’ o ‘intuire’ il proprio orientamento sessuale, all’essere in grado di comunicare senza problemi e imbarazzi la propria omosessualità (Rosario et al., 2006). Ovviamente la formazione e l’integrazione dell’identità sono due processi intimamente connessi.

Il coming out può configurarsi quindi come un vero e proprio compito di sviluppo specifico per gli adolescenti omosessuali e rappresenta per molti giovani gay e lesbiche un “crocevia esistenziale” (Pietrantoni, 1999) che sancisce un ‘prima’ e un ‘dopo’ per diventare, in seguito, un processo decisionale che viene attivato tutte le volte che la situazione interpersonale lo richiede (Chiari, 2006). Anche molti genitori ricordano il momento in cui il proprio figlio o la propria figlia ha parlato con loro del suo orientamento sessuale come un momento fondamentale della loro vita e del loro modo di essere genitori: una frattura, ma anche una possibilità di rinascita come ‘genitori’. Due volte genitori è appunto il titolo di un bel documentario (Cipelletti, 2008) realizzato con la collaborazione dell’AGEDO cioè dell’Associazione Genitori di Omosessuali (http://www.agedonazionale.org).

Uno dei modelli più conosciuti per spiegare lo sviluppo dell’identità di giovani gay e lesbiche è quello proposto da Vivienne Cass (1979). Secondo tale modello la persona ha un ruolo attivo nell’acquisizione dell’identità omosessuale attraverso un’interazione continua con l’ambiente. Sebbene nei processi di socializzazione vi siano differenze legate al genere, il modello può essere applicato nel caso sia di ragazzi sia di ragazze. Si tratta di un modello a sei stadi: 1) pre-coming out, relativa confusione, scarsa consapevolezza (può esserci consapevolezza della propria ‘differenza’ rispetto a ragazzi/e non-gay, ma una certa incapacità a cogliere il motivo di tale differenza); 2) iniziale coming out o confronto dell’identità (maggiore consapevolezza dei propri sentimenti e affetti; viene colto il significato delle differenze con ragazzi non-gay e inizia il coming out prima con se stesso/a, poi con gli amici); 3) esplorazione dell’identità (inizia la sperimentazione sociale e sessuale; ricerca di contesti supportivi dove potersi esprimere con maggiore libertà e dove è possibile fare, con se stessi e con gli altri, affermazioni del tipo: “credo di essere gay”); 4) accettazione dell’identità (maggiore capacità di gestire e stabilire relazioni con persone sia etero sia omosessuali); 5) orgoglio (attribuzione di valore alla propria identità omosessuale); 6) sintesi dell’identità (la propria omosessualità è vissuta in modo sereno, senza paura e dinamiche reattive).

Un modello successivo (McCarn e Fassinger, 1996) riprende il modello di Cass, ma individua due dimensioni separate nello sviluppo dell’identità omosessuale: una riguarda gli aspetti individuali e l’altra comprende le dinamiche legate al gruppo d’appartenenza. Entrambe le dimensioni sono caratterizzate da quattro stadi progressivi: a) consapevolezza o sensibilizzazione; b) esplorazione; c) impegno; d) sintesi o integrazione dell’identità. Pur interagendo, le due dimensioni, individuali e di gruppo, possono procedere a velocità diverse, per cui un giovane può trovarsi nello stadio dell’impegno per la dimensione individuale e nello stadio della consapevolezza rispetto alle dinamiche relative al gruppo d’appartenenza.

Tali modelli sono stati criticati, non del tutto a torto, in quanto eccessivamente ‘lineari’ o troppo rigidi nel determinare gli stadi di sviluppo dell’identità. Approcci teorici più recenti pongono maggiore attenzione al contesto sociale e ai processi di costruzione psicosociale delle identità omosessuali, considerando non solo il ruolo svolto dalla persona nell’interpretare la realtà, ma anche le influenze del contesto politico, giuridico, economico e socioculturale.

[1] Questo contributo è tratto da: Lingiardi, V., Baiocco, R. (2015). “Adolescenza e omosessualità in un’ottica evolutiva: coming out, compiti di sviluppo, fattori di protezione”. In E. Quagliata, D. Di Ceglie (a cura di). L’identità sessuale e l’identità di genere. Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma (pp. 127 – 149).

 

 

Riferimenti bibliografici

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