Identità

Identità
A cura del Prof. Lingiardi

L’identità di un individuo comprende una serie di elementi (psicologici, sociali, culturali) che contribuiscono a definire e caratterizzare le sue “specificità” e al tempo stesso le sue “appartenenze”. La consapevolezza di queste caratteristiche identitarie aiuta a rispondere alla domanda “chi sono”. Le aree che definiscono l’identità sono molteplici. L’identità professionale, per esempio, fa riferimento alle competenze acquisite e utilizzate in ambito lavorativo; l’identità etnica, per fare un altro esempio, si riferisce all’appartenenza a una determinata etnia. Potremmo continuare a lungo nell’elencare le dimensioni identitarie, in alcuni casi ben definite e in altri casi più sfumate e complesse. In questa sede ci occuperemo dell’orientamento sessuale (chi mi piace? gli uomini, le donne, entrambi?), dell’identità di genere (chi mi sento di essere? un uomo, una donna, né l’uno né l’altra?) e del ruolo di genere (come mi rappresento e vengo percepito/a rispetto alle categorie maschile-femminile? e come agiscono e influiscono su di me le aspettative sociali relative a mascolinità e femminilità?).

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Prima di proseguire, è bene chiarire che le definizioni e le tematiche legate all’orientamento sessuale (omosessualità, eterosessualità, bisessualità) sono distinte e non sovrapponibili a quelle legate all’identità di genere (cisgender, transgender – vedi oltre). Ed è bene sottolineare la distinzione fondamentale tra sesso e genere. Mentre il termine sesso si riferisce allo stato biologico di un individuo (femmina, maschio, intersessuale – quest’ultima condizione si riferisce a combinazioni atipiche di caratteri sessuali che possono riguardare i genitali esterni, gli organi riproduttivi, i cromosomi o gli ormoni sessuali), il termine genere indica l’identità e il ruolo0 di un soggetto in relazione alle categorie di “maschile” e “femminile”. Se dunque con il termine sesso si vuole denotare l’appartenenza a una categoria biologica e genetica (femmina/maschio), il concetto di genere sposta il riferimento sul piano dell’esperienza psicologica, sociale e culturale delle categorie di maschile e femminile.
Il senso soggettivo di appartenenza alle categorie di femminile e maschile è denominato identità di genere. Di solito si forma nei primi anni di vita e indica la percezione di sé come donna o come uomo e dunque porta l’individuo ad affermare, a seconda della propria identità di genere, “sono un bambino, un ragazzo, un uomo” oppure “sono una bambina, una ragazza, una donna”. Quando il sesso biologico di nascita non corrisponde alla percezione della propria identità di genere si parla di disforia di genere (vedi oltre).
Il modo in cui un individuo “impersona” e “comunica” il proprio genere in una determinata cultura, viene invece detto espressione di genere. Corrisponde all’espressione esteriore dell’identità di genere (per es., il modo di vestirsi, parlare, muoversi, ma anche i propri discorsi, interessi ecc.) che viene influenzata dal ruolo di genere, ossia le aspettative legate al contesto socioculturale di appartenenza (ciò che “viene considerato” maschile o femminile). La propria espressione di genere può ovviamente essere più o meno “compatibile” con il modo in cui i ruoli di genere vengono socialmente prescritti e attesi. Queste distinzioni sono importanti perché hanno permesso di mettere in luce gli aspetti culturali, sociali e psicologici implicati nella “costruzione” di ciò che intendiamo per mascolinità e femminilità.
Quando sesso biologico e identità di genere “corrispondono” si parla di persone cisgender. Quando tale corrispondenza non si realizza si parla di persone transgender.
La condizione che i professionisti della salute mentale indicano come disforia di genere riguarda quei casi di marcata sofferenza psichica legata al vissuto di non corrispondenza tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato alla nascita in base al sesso biologico. La disforia di genere può presentarsi in varie fasi dello sviluppo, dall’infanzia alla terza età. Di solito sin dall’infanzia la persona con disforia di genere vive una sensazione di estraneità e sofferenza rispetto al proprio sesso biologico e al ruolo di genere assegnato (da cui la sensazione riportata più frequentemente dalle persone transessuali di essere “nate con il sesso sbagliato”). Per questi bambini e queste bambine, le trasformazioni corporee della pubertà diventano un momento critico per la definizione della propria identità di genere che può intraprendere diversi percorsi, da un complesso lavoro psicologico di integrazione delle proprie identificazioni di genere a una vera e propria richiesta di riassegnazione sessuale chirurgica (da femmina a maschio o da maschio a femmina). In Italia, la legge 164 del 14 aprile 1982 riconosce la condizione delle persone transessuali e legittima la loro aspirazione ad appartenere al sesso opposto, autorizzando, dopo una valutazione medico-psicologica e con una sentenza del Tribunale, la riassegnazione dei caratteri sessuali. In base al sesso “di partenza” (il loro sesso biologico) e al sesso “di arrivo” (il sesso corrispondente alla loro identità di genere), vengono distinte le persone transessuali FtoM (female to male) dalle transessuali MtoF (male to female).
Dei meccanismi alla base della disforia di genere sappiamo ancora ben poco. Si tratta di un territorio clinico e scientifico relativamente inesplorato, in cui sembrano confluire componenti di tipo genetico e biologico (a livello endocrino, neurofisiologico, anatomico), familiare e ambientale (le aspettative dei genitori, la relazione con i caregiver e il complesso intreccio delle identificazioni, esperienze ed elementi di carattere biografico), sociale e culturale. Al momento non esistono dati statisticamente attendibili sulla popolazione nazionale. In Europa, lo studio più importante sulla prevalenza del transessualismo è olandese, ma risale alla fine degli anni Novanta: riporta una prevalenza dello 0,01% (1 su 10.000) per le persone MtF e dello 0,003% (1 su 30.000) per le persone FtM. Negli Stati Uniti (fonte American Psychiatric Association) la prevalenza varia dallo 0,002 allo 0,003% per le persone FtM e dallo 0,005 allo 0,014% per le persone MtF.
È importante non confondere la disforia di genere con una semplice non conformità ai comportamenti e agli stereotipi del ruolo di genere – per esempio una bambina descritta dai familiari, dagli insegnanti o dai pari come un “maschiaccio”, un bambino descritto come una “femminuccia” – senza però che vi siano sofferenza, estraneità o disconoscimento rispetto al proprio sesso biologico e al genere assegnato alla nascita. Transessualismo e omosessualità sono concetti distinti. Mentre il primo riguarda, come abbiamo visto, l’identità di genere, il secondo riguarda l’orientamento sessuale, cioè gli oggetti della nostra attrazione erotico-affettiva: eterosessuale se rivolta verso l’altro sesso, omosessuale se rivolta verso il proprio stesso sesso, bisessuale se rivolta verso entrambi i sessi. L’esperienza soggettiva dell’orientamento sessuale viene denominata identità di orientamento sessuale (o, più semplicemente, identità sessuale). A seconda della propria identità sessuale, c’è chi può affermare “mi piacciono le donne”, “mi piacciono gli uomini” oppure “mi piacciono sia le donne sia gli uomini”. Nello specifico, si tratta di una dimensione identitaria costituita da almeno due componenti che possono interagire in vari modi: una più “personale” che riguarda il proprio orientamento sessuale e i relativi vissuti, e una “pubblica” che ha a che fare con le modalità attraverso le quali la persona dichiara (o non dichiara) il proprio orientamento.
Orientamento sessuale, identità sessuale, identità di genere, espressione e ruolo di genere sono quindi concetti diversi, spesso intrecciati, ma decisamente non sovrapponibili. Ciascuno di noi (eterosessuale, omosessuale o bisessuale che sia) può esprimere il proprio genere in molti modi, più o meno aderenti alle aspettative culturali e sociali di mascolinità-femminilità. Ci sono uomini omosessuali molto “maschili”, donne omosessuali molto “femminili”, uomini eterosessuali molto “femminili”, donne eterosessuali molto “maschili” … e così via. A volte, tuttavia (per esempio, secondo alcuni modelli psicoanalitici superati o alcune credenze popolari) orientamento sessuale e genere vengono erroneamente sovrapposti e confusi: un uomo che desidera un uomo è “una donna mancata” (e in quanto tale “sbagliato” e dunque stigmatizzato), una donna che desidera una donna è “un uomo mancato” (e come tale “sbagliata” e dunque stigmatizzata). Va detto, inoltre, che un approccio psicologicamente corretto suggerirebbe l’uso del plurale: le omosessualità sono molte e varie, così come lo sono anche le eterosessualità.
È importante distinguere tra comportamenti sessuali omosessuali e identità omosessuale. Alcune persone hanno comportamenti omosessuali (più o meno occasionali e/o legati al contesto) ma si definiscono eterosessuali (e viceversa). A proposito di definizioni, oggi si tende a usare i termini gay e lesbica per indicare un modo nuovo e storicamente determinato di essere omosessuali che esprime una combinazione di orientamento sessuale, visibilità sociale e rivendicazione di diritti e rispetto.
I percorsi di sviluppo possono variare da individuo a individuo e da contesto a contesto. Poiché l’eterosessualità viene di solito “data per scontata” (dai genitori, dagli insegnanti, dagli amici, dalla società in generale), le persone omosessuali, una volta “riconosciuta” la propria omosessualità, devono sempre “dichiarare” prima a se stessi e poi agli altri che “non sono eterosessuali”. Anche la corrispondenza tra sesso biologico e identità di genere viene “data per scontata” e dunque, seppure con tematiche e itinerari diversi, anche le persone transgender devono affrontare un percorso, psicologico e sociale, di “differenziazione” dal genere a cui sono state assegnate alla nascita.
Per le persone lesbiche, gay e bisessuali il processo di coming out inizia quando fantasie, desideri omoerotici e sentimenti connessi vengono man mano riconosciuti e integrati a livello identitario. Questo processo mette l’individuo nella condizione di comunicare il proprio orientamento sessuale agli altri, uscendo dal “nascondiglio” della segretezza. Il termine coming out è infatti l’abbreviazione di “coming out of the closet”, un’espressione che letteralmente vuol dire “uscire dal ripostiglio” e, figurativamente, “rivelare il proprio orientamento agli altri”. Alcune persone omosessuali e bisessuali rimangono a lungo “nel closet” perché hanno difficoltà o paura a riconoscere e/o comunicare agli altri ciò che sono. Scegliere se rivelarsi o no agli altri è una dinamica che si presenta continuamente e può avere un “costo psicologico” perché richiede un monitoraggio continuo della propria “sicurezza” (psicologica, relazionale e talvolta anche fisica) nel contesto. Una motivazione che spinge al coming out è legata al desiderio di essere sinceri e autentici con i propri genitori, gli insegnanti, gli amici, i colleghi e, in definitiva, con se stessi, ma non di rado la paura di deludere, disattendere le aspettative o procurare un dispiacere è molto forte. Per poter fare coming out nel proprio contesto familiare, affettivo e sociale, è necessario averlo già fatto con se stessi. Pertanto si tratta di un vero e proprio compito di sviluppo specifico per gli adolescenti omosessuali. In definitiva, il coming out è al tempo stesso un processo e un atto: un processo che mette l’individuo nella condizione di compiere in maniera volontaria l’atto di svelare la propria identità sessuale.
Purtroppo ancora oggi, anche se per fortuna sempre meno, lo sviluppo psicologico delle persone omosessuali è spesso segnato da una dimensione di stress continuativo, conseguenza di ambienti ostili o indifferenti, episodi di stigmatizzazione, casi di violenza. Inoltre, a differenza di altre minoranze (etniche, religiose ecc.), le persone gay e lesbiche non possono sempre contare sul riconoscimento e il sostegno della famiglia che, al contrario, spesso si configura come fonte ulteriore di disagio e stress. L’insieme dei disagi psicologici che ne derivano è denominato minority stress e si compone di tre dimensioni: a) l’interiorizzazione, più o meno inconsapevole, del pregiudizio che porta a vivere in modo conflittuale il proprio orientamento sessuale fino a volerlo negare o contrastare (omofobia interiorizzata); b) stigma percepito, per cui quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto maggiori saranno la sensibilità all’ambiente, il livello di vigilanza relativo alla paura di essere “identificati” come gay o lesbiche, il ricorso a strategie difensive inadeguate; c) esperienze vissute di discriminazione e violenza, con caratteristiche traumatiche acute e/o croniche.
Naturalmente le esperienze dell’autoriconoscimento e del coming out, e purtroppo anche le minacce della transfobia e del minority stress, appartengono, con altri itinerari e specificità, alle vite e alle costruzioni delle identità delle persone transessuali (o, più in generale, transgender).

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