Famiglia, famiglie, diritti delle coppie omosessuali: principi costituzionali

di Marilisa D’Amico

 

1. Premessa

Nel momento storico attuale la visione “tradizionale” della famiglia fondata sul matrimonio, è più che mai in crisi. Già l’introduzione del divorzio avvenuta più di quarant’anni fa (l. n. 898 del 1970), ha contribuito al sorgere di forme diverse di famiglia (es. famiglie mono-genitoriali), ed  oggi assistiamo all’affermarsi e al diffondersi di forme nuove di convivenza, sia eterosessuali che omosessuali.

Nonostante il mutamento della realtà e della coscienza sociale le forme di convivenza “di fatto”, diverse dalla visione tradizionale, non hanno ancora trovato nel nostro ordinamento un riconoscimento organico per via legislativa.

“Il conflitto tra realtà sociale” e “legislazione vigente” è stato recentemente evidenziato e condannato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo che, con la pronuncia Oliari c. Italia, ha dichiarato l’urgenza di garantire un diritto, quello delle coppie conviventi, omosessuali in particolare, di vedersi riconosciute come famiglie; perché di “famiglia”, non ce n’è una sola, ma tante, e tutte, nelle loro diversità, titolari di un diritto fondamentale, quello di vivere liberamente la loro condizioni di coppia (cfr. Caso Oliari c. Italia e C. cost. sent. n. 138 del 2010).

Mentre per le coppie di fatto eterosessuali alcuni passi in avanti sono stati fatti, ad esempio mediante l’introduzione della legge n. 219 del 2012 “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”, le coppie omosessuali non trovano nel nostro ordinamento alcuna forma di riconoscimento. In Italia, infatti, le coppie omosessuali non possono né adottare, né avere accesso alle tecniche di procreazione artificiale di cui alla legge n. 40 del 2004, né, e questo vale anche per le coppie eterosessuali, stipulare contratti di maternità surrogata vietati a norma dell’art. 12, comma 6, L. n. 40 del 2004.

In assenza di risposte legislative, sono stati principalmente i giudici, a partire dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, a riconoscere i diritti delle famiglie di fatto e delle coppie omosessuali, nel tentativo di rispondere, sebbene parzialmente e con efficacia circoscritta al caso concreto, alle istanze di queste “nuove famiglie”.

2.      Famiglia o famiglie? Principi costituzionali a confronto

Per comprendere le ragioni del mancato riconoscimento delle c.d. nuove famiglie, non si può che partire dalla nozione di famiglia nel nostro ordinamento, e dunque dai principi costituzionali e dal significato ad essi attribuito dai nostri Costituenti.

In Assemblea costituente vi era chi era convito della necessità di inserire all’art. 29 della Costituzione una precisa definizione di famiglia, e chi diversamente preferiva un generico richiamo ai “diritti della famiglia”.

L’accordo in Assemblea si è trovato sulla definizione di famiglia come “società naturale”, locuzione che nell’idea dei Costituenti avrebbe evidenziato la preesistenza della famiglia rispetto allo Stato, evitando indebite ingerenze.  La famiglia come “società naturale” non rappresentava, dunque, secondo la maggior parte dei nostri costituenti un richiamo al diritto naturale, ma anzi essa avrebbe dovuto esprimere una concezione aperta ai cambiamenti storici e sociali.

Non si può negare, tuttavia, come la lettera dell’art. 29 Cost., ed in particolare il richiamo alla famiglia come “società naturale” “fondata sul matrimonio”, abbia determinato un’interpretazione riduttiva dell’articolo stesso, contribuendo a cristallizzare un favor  nei confronti della famiglia tradizionale, e ostacolando il riconoscimento di diverse forme di convivenza.

E così oggi è necessario confrontarsi con due diverse visioni di famiglia che si riflettono e si radicalizzano nella contrapposizione tra principi costituzionali: l’art. 29 della Costituzione garantisce e tutela la visione tradizionale di famiglia fondata sul matrimonio, quale nucleo fondante della società; l’art. 2 della Costituzione valorizza i diritti del singolo, prima di quelli della coppia, ad organizzarsi liberamente a livello familiare.

La distinzione è importante, poiché se da un alto sancisce l’eterogeneità esistente nel nostro ordinamento tra famiglia tradizionale e famiglie di fatto, essa fornisce rilievo costituzionale, e quindi necessità di tutela, a forme di convivenza diverse da quella tradizionale.

Ciò è dimostrato dalla giurisprudenza costituzionale, la quale pur ritenendo un “punto fermo” “la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio” (C. cost. ord. n. 491 del 2000), non considera formazioni sociali diverse da quest’ultima irrilevanti sul piano costituzionali e individua nell’articolo 2 della Costituzione il fondamento costituzionale di una possibile regolamentazione giuridica delle medesime.

In questo senso è possibile richiamare, oltre alle sentenze relative ai diritti delle coppie omosessuali sulle quali si tornerà a breve, quelle sentenze che hanno riconosciuto il diritto del convivente di fatto a succedere nel contratto di locazione (C. cost. n. 404 del 1988) o nella posizione del convivente assegnatario dell’alloggio di edilizia residenziale (C.cost. n. 559 del 1989), quale garanzia del diritto fondamentale all’abitazione ex art. 2 Cost..

3. I diritti delle coppie omosessuali nella giurisprudenza costituzionale: le sentenze della Corte costituzionale nn. 138 del 2010 e 170 del 2014

Il tema della famiglia “tradizionale” e delle “famiglie di fatto” si è imposto nella giurisprudenza costituzionale, in particolare in due pronunce – la sent. 138 del 2010 e la sent. 170 del 2014 – in relazione al riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali.

La sentenza n. 138 del 2010 ha dichiarato inammissibile la questione, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di Appello di Trento in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost., relativa alle norme del codice civile che non consentono alle persone delle stesso sesso di contrarre matrimonio.

Anche in questa occasione, la Corte valorizza la distinzione tra la “famiglia tradizionale” che trova fondamento nell’art. 29 della Costituzione, e le diverse forme di convivenza tutelate all’art. 2 Cost.

Mediante un’affermazione di principio, la Corte costituzionale ha scelto di includere l’unione omosessuale, “intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, nel novero delle formazioni sociali protette dall’art. 2 della Costituzione.

L’art. 29 della Costituzione, invece, “non prende in considerazione le unioni omosessuali, bensì si riferisce al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto”. Secondo la Corte, infatti, l’interpretazione della appena citata norma costituzionale non può spingersi sino ad “includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”. I Costituenti infatti, “tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”.

E’ particolarmente significativo il fatto che la Corte si rivolga al Parlamento, con un monito rafforzato e rimasto sino ad oggi inascoltato, al fine di individuare “nell’esercizio della sua piena discrezionalità”, “le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omossessuali”.

I principi contenuti nella sentenza n. 138 del 2010 sono stati ribaditi dalla Corte nella sentenza n. 170 del 2014, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina che determina lo scioglimento del matrimonio in caso di rettificazione del sesso da parte di uno dei coniugi, senza prevedere laddove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con un’altra forma di convivenza registrata.

La Corte rivolge nuovamente un monito al legislatore e sulla stessa linea dell sent. n. 138 del 2010, afferma come sia “innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni ‘specifiche’ e ‘particolari’ di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore”.

In entrambe le pronunce dunque, la Corte costituzionale afferma e ribadisce il diritto fondamentale delle coppie omosessuali a vivere liberamente la loro condizione di coppia ex art. 2 Cost., invitando il legislatore a individuare forme di riconoscimento e garanzia di tale diritto.

4. La giurisprudenza comune in tema di riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali

Non solo la Corte costituzionale, ma anche i giudici comuni si sono mossi nella direzione di sopperire all’assenza di una disciplina legislativa in materia di convivenze more uxorio, eterosessuali e omosessuali. Anzi talvolta i giudici comuni si sono dimostrati meno restii nell’equiparare la famiglia “tradizionale” alle famiglie di fatto, facendo riferimento ad una evoluzione del contesto sociale, giurisprudenziale e normativo.

A partire dal 1994, infatti, la Corte di cassazione ha affermato come il diritto non possa più ignorare l’esistenza e la diffusione della cosiddetta “famiglia di fatto”, ritenendo in ogni caso necessario verificare caso per caso la sussistenza di un rapporto stabile, di una comunanza di vita e della reciproca assistenza morale e materiale. Se inizialmente giurisprudenza comune e legittimità si sono occupate prevalente dalla famiglia di fatto eterosessuale, oggi esse hanno assunto un ruolo fondamentale anche nella garanzia dei diritti delle coppie omosessuali.

Emblematica in tal senso è la sentenza resa dalla Corte di Cassazione nel marzo del 2012, chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato da una coppia di cittadini italiani dello stesso sesso che intendevano ottenere la trascrizione in Italia dell’atto di matrimonio celebrato in Olanda. Richiamando ampiamente le pronunce della Corte costituzionale (sent. n. 138 del 2010) e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Schalk & Kopf c. Austria), la Suprema Corte ha affermato che i componenti della coppia omosessuale, nonostante non possano far valere il diritto a contrarre matrimonio in Italia e quello alla trascrizione del matrimonio concluso all’estero, sono tuttavia titolari del diritto alla vita familiare e del diritto inviolabile di vivere liberamente la loro condizione di coppia (Cass. Civ., sez. I, sentenza 15/03/2012, n° 4184).

Nonostante l’importanza delle affermazioni contenute nella decisione, va osservato che essa, in assenza di una previsione legislativa, nulla aggiunge dal punto di vista pratico ai diritti delle coppie dello stesso sesso.

Più incisive in tal senso sembrano essere le pronunce in tema di affido e adozione da parte delle coppie omossessuali. In particolare, la Corte di cassazione nel 2013 ha confermato l’affidamento esclusivo del minore alla madre, che conviveva intrattenendo una relazione omosessuale con un’altra donna, negando che la situazione in sé potesse essere considerata foriera di “un pericolo concreto per un sano e normale sviluppo psicofisico, morale ed educativo del minore”, costituendo al contrario un “mero pregiudizio la convinzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale” (C.  Cass., Sez. I, 11.01.2013, n. 601) . La pronuncia della cassazione ha aperto la strada ad un filone giurisprudenziale, incline ad includere nel novero dei “dei potenziali affidatari i singoli individui e quindi […] anche le coppie di fatto” (Tribunale di Bologna, decreto, 31 ottobre 2013; cfr. anche Tribunale di Genova, 30 ottobre 2013).

In questo quadro è importante richiamare le recenti pronunce in tema di adozione da parte delle coppie omossessuali. La prima pronuncia che merita di essere analizzata è la sentenza del 30 luglio del 2014 del Tribunale dei Minorenni di Roma, che ha accolto nell’interesse del minore, la richiesta di adozione presentata dalla donna convivente della madre biologica di una bambina concepita mediante procreazione assistita in Spagna. In particolare, il Tribunale consente l’adozione da parte della convivente, facendo leva sull’art. 44 della legge 184/1983, il quale “risponde all’intenzione del Legislatore di voler favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già si prendono cura del minore stesso”. Del resto, secondo il Tribunale una lettura diversa “sarebbe contraria alla ratio legis, al dato costituzionale nonché ai principi di cui alla Cedu di cui l’Italia è parte”. La pronuncia appena citata è stata confermata con sentenza del 23 dicembre 2015 dalla Corte di appello di Roma.

Analogamente merita di essere ricordata una pronuncia del 16 ottobre del 2015 della Corte di appello di Milano. In questo caso, la Corte di appello ha riconosciuto la validità e ordinato la trascrizione di un provvedimento spagnolo mediante la quale una donna italiana ha adottato in Spagna la figlia della coniuge (anche se poi divorziata), nata con fecondazione eterologa. La Corte di appello pur rigettando la domanda di trascrizione del matrimonio contratto in Spagna, e della successiva sentenza di divorzio, ha riconosciuto, facendo leva sull’interesse superiore del minore, che non può essere considerato “contrario all’ordine pubblico un provvedimento straniero che abbia statuito un rapporto di adozione piena tra una persona non coniugata e il figlio riconosciuto del partner, anche dello stesso sesso”. Decisiva nella ricostruzione operata dalla Corte di appello è la necessità di garantire il “diritto fondamentale” del minore “di continuare a godere dell’apporto materiale e affettivo delle due persone che da molti anni si sono assunte la responsabilità genitoriale nel suo interesse”. Le pronunce appena richiamate riconoscono in qualche modo e per la prima nel nostro ordinamento la c.d. step child adoption, istituto che consente di adottare il figlio del coniuge o del partner convivente, prevista dal disegno di legge sulle unioni civili attualmente in discussione in Parlamento. Sul punto siamo anche in attesa di una decisione della Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla questione, sollevata dal Tribunale di Bologna nel novembre del 2014, in relazione agli artt. 35 e 36 della legge 184 del 1983, nella parte in cui impediscono il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunziato l’adozione di un minore, figlio biologico di una donna, in favore della partner della stessa a lei unita in matrimonio.

5. Il ruolo dei Comuni e dei registri delle unioni civili

Se in Italia continua a mancare a livello nazionale una disciplina che garantisca i diritti delle famiglie di fatto eterosessuali ed omosessuali, negli ultimi anni sono stati numerosissimi i Comuni (es. Empoli, Firenze, Torino, Pisa, Parma, Napoli, Milano e Palermo) che hanno scelto di adottare provvedimenti amministrativi tesi ad assicurare ai propri residenti conviventi una prima forma di riconoscimento della propria unione attraverso l’istituzione dei Registri delle unioni civili.

Le iniziative intraprese dai Comuni si distinguono in due principali tipologie: alcuni Comuni hanno previsto l’istituzione di un registro delle unioni civili ad hoc, demandandone all’ente locale la tenuta (es. Milano); altri, preferendo un approccio minimale, hanno riservato all’amministrazione il rilascio dell’attestazione di famiglia anagrafica senza procedere all’istituzione di un registro vero e proprio (es. Torino).

Dal punto di vista degli effetti e del valore dei registri comunali la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “[i]l registro comunale sulle unioni civili non è diretto a creare un nuovo status, ma ad assicurare a siffatte formazioni sociali, che sono un dato di fatto che non può essere ignorato, parità di trattamento rispetto alle tradizionali coppie di fatto o alle convivenze di varia natura […) nei limiti del rispetto dei principi derivanti dalla legislazione statale o regionale delle varie materie coinvolte” (T.A.R. Toscana, sez. I, 11 giugno 2001, n. 1041). Inoltre, nono si può negare come i registri delle unioni civili abbiano dato attuazione ai principi costituzionali, rappresentando la prima forma di riconoscimento delle unioni fondate su un vincolo affettivo e dando così seguito alla decisione della Corte costituzionale n. 138 del 2010.

Tra i Comuni che hanno optato per la forma più incisiva di riconoscimento, mediante l’istituzione del registro delle unioni civili, merita di essere segnalata l’esperienza del Comune di Milano. La delibera oltre conferire una formale attestazione di “unione anagrafica basata su vincolo affettivo” a coloro che, maggiorenni, eterosessuali oppure omosessuali, coabitando nello stesso Comune, risulta particolarmente apprezzabile poiché prevede l’equiparazione dell’iscritto nel registro delle unioni civili, al parente prossimo a fini assistenziali. Non è un caso, dunque, che la delibera milanese abbia ottenuto un grande successo, dal momento che nel giro di un anno sono state più di un migliaio le persone iscritte. Particolarmente importante è il fatto che, nel maggio del 2013 è stata consentita l’iscrizione nel registro delle unioni civili del Comune di Milano della civil partnership conclusa all’estero da una coppia di cittadini italiani dello stesso sesso, riconoscendo per la prima volta nell’ordinamento italiano la piena legittimità di unioni contratte all’estero.

Infine, è necessario ricordare come alcuni Sindaci, tra i quali i Sindaci di Milano e Roma, hanno deciso di farsi promotori in prima persona della garanzia dei diritti delle coppie omosessuali, trascrivendo matrimoni omosessuali, o civil partnership nei registri dello stato civile.

Le trascrizioni dei matrimoni omosessuali da parte dei Sindaci hanno scatenato dapprima l’intervento delle prefetture, che hanno decretato l’annullamento delle trascrizioni effettuate, e in secondo luogo l’intervento dello stesso Ministero dell’Interno, che mediante una circolare ha invitato i prefetti ad annullare le trascrizioni illegittimamente disposte, ribadendo la competenza esclusiva del legislatore nazionale in punto di equiparazione tra matrimonio eterosessuale ed omosessuale.

La posizione del Ministero dell’Interno è stata tuttavia inizialmente smentita da tre decisioni del giudice amministrativo, il quale ritiene che spettai “esclusivamente all’Autorità giudiziaria l’eventuale annullamento delle dette trascrizioni”,

La questione è, infine, giunta dinanzi al Consiglio di Stato che, con sentenza del 26 ottobre 2015, ha riaffermato che in Italia non esiste alcun diritto alla trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero, poiché nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale il matrimonio presuppone sempre “l’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi”.

La vicenda appare, quindi, ancora una volta, testimonianza tangibile di quella discordanza tra esigenze sociali e quadro normativo di riferimento.

6. La vita familiare nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e il caso Oliari c. Italia

Anche a livello sovranazionale, grazie soprattutto all’opera svolta dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, si è assistito alla progressiva evoluzione della nozione di famiglia, che non sembra più radicarsi sulla sola concezione tradizionale, né richiedere necessariamente la diversità di sesso dei nubendi.

La pronuncia da cui è necessario prendere le mosse è quella che ha riguardato il caso Schalk & Kopf c. Austria del 2010, in cui la Corte europea ha interpretato per la prima volta in modo innovativo gli artt. 8 e 12 CEDU, che sanciscono rispettivamente il diritto alla vita privata e familiare e il diritto al matrimonio. La Corte europea, pur escludendo la violazione dei principi convenzionali invocati da parte ricorrente – nelle more del giudizio, infatti, l’Austria aveva approvato una legge in tema di riconoscimento delle coppie conviventi –, ha però riconosciuto che anche le coppie composte da persone dello stesso sesso godono del diritto al rispetto della vita familiare e non soltanto di quello al rispetto della vita privata.

Inoltre, in relazione al diritto al matrimonio, la Corte si è espressa in favore di una lettura evolutiva dell’art. 12 CEDU, precisando che, pur a fronte del tenore letterale della norma, non può ritenersi preclusa l’estensione del diritto al matrimonio anche alle unioni omosessuali, rimettendone, però, ogni determinazione alla piena discrezionalità degli Stati contraenti.

L’evoluzione della giurisprudenza europea in materia di famiglia ha finito per coinvolgere direttamente anche l’Italia, condannata, nel luglio del 2015, per l’omessa definizione di tutele per le coppie conviventi dello stesso sesso, con la sentenza Oliari e altri c. Italia.

La Corte di Strasburgo osserva non solo come dall’esame del contesto italiano emerga “l’esistenza di un conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti che prevalentemente vivono in Italia la loro relazione apertamente, e la legislazione che non fornisce loro alcun riconoscimento ufficiale sul territorio”, ma anche come le pronunce delle massime autorità giudiziarie italiane, Corte costituzionale e Corte di cassazione, che “hanno dato ampio risalto all’esigenza di riconoscere e tutelare tali relazioni”, siano rimaste inascoltate dal legislatore.

Proprio l’assenza totale di una regolamentazione organica e l’inerzia del legislatore a fronte delle pronunce giurisdizionali inducono la Corte europea a sancire la violazione dell’art. 8 CEDU, dal quale discende un obbligo positivo in capo agli Stati di riconoscere una qualche forma di riconoscimento alle unioni omossessuali. Sulla stessa linea della giurisprudenza precedente, la Corte esclude la violazione del diritto al matrimonio di cui all’art. 12 CEDU in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, ribadendo la natura non convenzionalmente imposta del diritto al matrimonio, la cui introduzione è rimessa alle scelte discrezionali degli Stati contraenti.

In definitiva, la sentenza ha imposto allo Stato italiano di provvedere all’introduzione di una forma di regolamentazione delle unioni stabili tra persone dello stesso sesso in ottemperanza ad un obbligo internazionale che oggi segue i moniti, purtroppo rimasti inascoltati negli ultimi anni.

Se il legislatore non interverrà celermente Oliari e altri c. Italia rischia di essere solo una prima condanna nei confronti dell’Italia. Le difficoltà riscontrate sul piano dell’intervento legislativo di livello nazionale hanno, infatti, indotto negli ultimi anni molte altre coppie italiane a rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo al fine di ottenere il riconoscimento per le unioni omosessuali del diritto al matrimonio, come in Oliari, ovvero del diritto alla trascrizione del matrimonio o dell’unione civile registrata conclusi all’estero all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.

7. L’atteso intervento legislativo: il ddl c.d. Cirinnà

La sentenza della Oliari c. Italia ha accesso ulteriormente il dibatto relativo alla necessaria introduzione per via legislativa di una forma di riconoscimento delle coppie omossessuali.

Non sono mancati nel corso degli anni proposte di legge volte ad introdurre una regolamentazione organica delle c.d. famiglie “di fatto” o “nuove famiglie”, eterosessuali ed omosessuali, tutte naufragate a causa delle opposizioni di principio emerse all’interno del Parlamento.

I primi e più noti tentativi sono stati quelli confluiti nel disegno di legge sui c.d. DICO (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) e nella proposta di legge sui c.d. CUS (Contratti di unione solidale), entrambi volti ad introdurre un riconoscimento delle coppie di fatto, sia eterosessuali che omosessuali.

Il disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento, (Proposta A.S. n. 2081 Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze cd. Ddl Cirinnà) , introduce l’unione civile solo a favore  delle coppie omosessuali.

Quanto ai contenuti, la proposta di legge prevede che la coppia omosessuale maggiorenne possa costituire un’unione civile mediante una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni. L’ufficiale di stato civile provvederà poi alla registrazione degli atti di unione civile nell’archivio dello stato civile. La norma elenca le cause impeditive per la costituzione dell’unione civile stessa. La costituzione dell’unione civile comporta il rilascio di un documento attestante lo stato dell’unione civile tra i due componenti (art. 2). Dal punto di vista della normativa applicabile all’unione civile, la proposta rinvia a buona parte della disciplina dettata dal codice civile con riferimento al matrimonio, sopperendo così all’irragionevolezza delle disparità di trattamento riscontrabili tra coppie coniugate e coppie omosessuali con particolare riferimento all’assistenza, sanitaria e penitenziaria e alla materia successoria (art. 3 e 4).

Uno dei punti più discussi durante l’Iter parlamentare riguarda la previsione della c.d. stepchild adoption, istituto che consente l’adozione del figlio naturale del partner (art. 5). Come visto, la stepchild adoption è stata riconosciuta dalla giurisprudenza comune e sul punto si attende una pronuncia della Corte costituzionale.

La stessa proposta si preoccupa anche di disciplinare, al Capo II, le convivenze di fatto, specificando che che si intendono “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile (art. 11). I conviventi possono regolare i relativi rapporti patrimoniali con un vero e proprio contratto di convivenza (art. 19, 20) che può si risolversi per accordo delle parti, per recesso unilaterale o in caso di matrimonio o unione civile tra i conviventi e un’altra persona (art. 21). Il testo del disegno di legge riconosce ai conviventi gli stessi diritti del coniuge per quanto riguarda l’assistenza nelle carceri e negli ospedali, garantendo la possibilità di rappresentanza per le decisione da assumere nei casi di malattie che comportino l’incapacità di intendere e volere, e nei casi di morte (art. 12). Più in generale il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno (art. 17). Ancora con riferimento ai casi, di morte, il ddl prevede la possibilità di successione nei contratti di locazione (art. 13) e, qualora la morte sia causata da un fatto illecito di un terzo, il diritto al risarcimento del danno (art. 18). Ai conviventi verrebbe riconosciuta la possibilità di inserimento nelle graduatorie pe l’assegnazione di edilizia popolare.

La proposta quindi è volta fornire un riconoscimento alle c.d. nuove famiglie e alle coppie omossessuali, garantendo nel solco della giurisprudenza costituzionale ed europea il diritto alla vita privata familiare (art. 8 CEDU) e a vivere liberamente la condizione di coppia (art. 2 Cost.).

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