Orientamento sessuale – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Orientamento sessuale: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/orientamento-sessuale-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Fri, 23 Sep 2016 12:40:17 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=5116 A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

La tutela giuridica dell’orientamento sessuale è molto recente: difficile è trovare carte costituzionali, trattati, convenzioni o leggi adottate prima dell’ultima decade del Novecento che facciano esplicito riferimento all’orientamento sessuale quale fattore di discriminazione vietato. L’esigenza di introdurre normative apposite volte a colmare le lacune nell’attuazione del principio di eguaglianza che avevano consentito il perpetuarsi di situazioni di svantaggio a danno della popolazione omosessuale si è manifestata con particolare evidenza sul finire dello scorso secolo ed è stata avvertita anche nelle democrazie occidentali consolidate.
Alcune di queste hanno addirittura scelto la via della revisione costituzionale, inserendo nelle proprie leggi fondamentali un riferimento espresso al divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale: è questo, ad esempio, il caso del Portogallo, la cui Costituzione, dopo la modifica intervenuta nel 2004, sancisce all’art. 13, comma II, che «nessuno può essere privilegiato, beneficiato, giudicato, privato di qualsiasi diritto o esonerato da qualsiasi dovere in ragione del suo orientamento sessuale», così seguendo l’esempio di diverse carte costituzionali latino-americane, africane e asiatiche[1].

L’espressione ‘orientamento sessuale’ fa la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione non costituzionale, bensì ordinaria, con l’entrata in vigore del D. lgs. n. 216 del 2003 attuativo della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale Direttiva ha imposto a tutti gli Stati membri dell’Unione europea l’adozione delle disposizioni necessarie a prevenire e reprimere le discriminazioni motivate da ragioni di età, disabilità, religione e orientamento sessuale, sia dirette che indirette (nonché quei fenomeni ritenuti rientranti nell’ampia categoria delle condotte discriminatorie, quali le molestie e l’ordine di discriminare), nell’ambito dell’impiego pubblico e privato, nell’accesso alla formazione professionale e nell’affiliazione a organizzazioni di lavoratori o datori di lavoro (Cfr. “Lavoro”).

La possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare misure volte a combattere le discriminazioni fondate su tutta una serie di fattori comprendente l’orientamento sessuale era stata riconosciuta dall’art. 13 del Trattato CE (ora art. 19 TFUE ) come emendato dal Trattato di Amsterdam del 1997 (in vigore nel 1999), che ha rappresentato una tappa fondamentale per lo sviluppo del diritto antidiscriminatorio europeo e, conseguentemente, domestico. La tutela dell’orientamento sessuale può quindi ritenersi oggi rientrante nelle funzioni dell’Unione europea ed è prevista nel suo c.d. diritto primario, di cui fanno parte anche le previsioni antidiscriminatorie contemplate nella “Carta dei diritti fondamentali dell’UE” approvata nel 2000 e divenuta giuridicamente vincolante nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
E’ da segnalarsi che la protezione dell’individuo dalle discriminazioni legate all’orientamento sessuale offerta dalla normativa europea è quanto mai ampia con riferimento al settore lavorativo, mentre non si estende ad altri aspetti assai rilevanti nella vita quotidiana quali l’istruzione, la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria, l’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura: la citata Direttiva 2000/78/CE non include, infatti, tali ambiti tra quelli in cui opera il divieto di discriminazione, a differenza di quanto prevedono invece altre direttive per le discriminazioni di sesso ed etnico-razziali. Merita peraltro osservare che il 2 luglio 2008 la Commissione europea ha presentato una proposta di nuova direttiva sulla parità di trattamento che estenderebbe la tutela dalle discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale anche ai suddetti ambiti: sebbene con la Risoluzione del 2 aprile 2009 sia stato al riguardo espresso parere favorevole da parte del Parlamento, il procedimento di approvazione non si è ad oggi concluso. Assai significativa pare invece l’attenzione rivolta dall’Unione europea alla tutela dell’orientamento sessuale dei cittadini di paesi terzi o apolidi. Nella Direttiva di rifusione 95/2011 sul riconoscimento dello status di rifugiato si chiarisce che gli Stati membri, nel valutare i motivi di persecuzione, debbano tenere conto anche dell’appartenenza di un individuo a un particolare gruppo sociale, che ben può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale (Cfr. “Identità e culture”).
L’esplicito divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale in settori diversi dall’occupazione non è previsto nemmeno dalla normativa italiana, dal momento che il D. lgs. 216/2003 non va oltre a quanto prescritto agli Stati membri dell’UE dalla direttiva vigente. Nell’ultimo decennio sono però state approvate diverse leggi regionali che, oltre a ribadire il principio di parità di trattamento nel settore occupazionale e della formazione professionale, mirano a estendere la tutela dalle discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale ad ambiti ulteriori quali, ad esempio, l’istruzione e/o le prestazioni sociali e sanitarie(legge della Regione Piemonte n. 5 del 2016; legge della Regione Liguria n. 52 del 2009; legge della Regione Toscana, n. 63 del 2004), oppure che contemplano la creazione di  organi per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni e l’assistenza alle vittime, come, ad esempio, la “Rete regionale contro le discriminazioni” della Regione Piemonte (legge della Regione Piemonte n. 5 del 2016, artt. 12 e 13), nonché forme di tutela non giurisdizionale del diritto all’eguaglianza dinanzi all’Autorità di Garanzia per il rispetto dei diritti di adulti e bambini (è questo il caso della Legge della Regione Marche n. 8 del 2010, come emendata dalla Legge regionale n. 8 del 2013).

Per quanto concerne la  tutela dell’orientamento sessuale nell’ambito dei rapporti familiari, dopo anni in cui non sono mancati significativi interventi dei giudici ordinari, costituzionali ed europei volti a sollecitare l’adozione da parte del Parlamento di una normativa di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali[2], è di recente intervenuta la legge 20 maggio 2016 n. 76 che ha riconosciuto ai partners di una coppia dello stesso sesso il diritto di formalizzare la loro relazione mediante “unioni civili” da cui derivano diritti e doveri sostanzialmente analoghi a quelli spettanti alle coppie eterosessuali che contraggono matrimonio. Resta invece problematica  la trascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero: al riguardo, merita ricordare che la Corte di Cassazione, con la sentenza n.4184 del 2012 aveva stabilito l’impossibilità di trascrivere il matrimonio contratto all’estero tra individui dello stesso sesso, stante la sua inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano. L’affermazione nella medesima decisione della titolarità in capo ai componenti di una coppia omosessuale stabilmente convivente del «diritto a una vita familiare» e del «diritto di vivere liberamente una condizione di coppia» in quanto formazioni sociali ex art. 2 Cost. aveva però indotto il Tribunale di Grosseto, con ordinanza del 2014, ad accogliere il ricorso di una coppia omosessuale che aveva chiesto la trascrizione dell’atto del matrimonio contratto all’estero nei registri dello stato civile del comune di residenza: nonostante l’annullamento di tale pronuncia in sede di appello[3],e il successivo intervento del Consiglio di Stato che, con la pronuncia n. 4899 del 2015, ha riconosciuto la legittimità del potere dei prefetti di annullare le trascrizioni effettuate, la situazione di notevole incertezza presso gli uffici dello stato civile dei comuni italiani tuttora perdura e ha indotto diversi Consigli comunali a deliberare a sostegno dell’operato dei Sindaci favorevoli alla trascrizione[4].

Dal punto di vista dei rapporti tra genitori e figli è invece ormai pacifica l’illegittimità di ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nell’affidamento dei minori in caso di rottura della relazione di coppia dei genitori: è quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 601 del 2013 che ribadisce quanto stabilito negli anni precedenti sia dalla giurisprudenza di merito circa l’irrilevanza dell’omosessualità della madre o del padre del minore nella decisione relativa all’affidamento o all’individuazione della dimora della prole[5], sia dalla Corte europea dei diritti umani che con la decisione “E.B. c. Francia” la Corte ha accertato il carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’idoneità di un soggetto all’adozione di minori fondato su ragioni unicamente riconducibili all’orientamento sessuale. Diversa e più complessa è, invece, la questione dell’adozione coparentale di minori da parte da parte del genitore sociale all’interno delle famiglie omoparentali Anche tale questione è  stata affrontata dalla Corte europea dei diritti umani ma con una decisione  che pare priva di conseguenze immediate per l’ordinamento giuridico italiano. Con la pronuncia “X e altri c. Austria” del 2013 l’Austria è stata, infatti, condannata per l’esclusione delle coppie omosessuali dall’accesso all’adozione coparentale , ammessa invece per le coppie eterosessuali, anche se non sposate, rinvenendo in tale trattamento differenziato una violazione del principio di non discriminazione: violazione che non sussisterebbe in Italia dal momento che  normativa vigente consente questa peculiare forma di adozione solo alle coppie coniugate. La possibilità di adottare il figlio biologico della/del partner è stata però negli ultimi anni ripetutamente riconosciuta dai giudici di merito e, di recente, anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12962 del 2016 (Cfr. “Famiglie plurali”)

Il diritto a non subire discriminazioni in ragione del proprio orientamento sessuale ha, infine, ulteriori molteplici implicazioni elencate in maniera esaustiva, ad esempio, nei c.d. Principi di Yogyakarta adottati nel 2006 che hanno svolto un ruolo di persuasione non irrilevante nei confronti dei governi nazionali, insieme ad altri documenti sopranazionali rientranti nella categoria della c.d. soft law in ragione del loro carattere giuridicamente non vincolante, in cui si sottolinea come i diritti delle persone omosessuali debbano essere ricompresi nella più ampia categoria dei diritti umani (si pensi ad esempio, alla Risoluzione del Consiglio dei diritti umani dell’ONU del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” e alla successiva del 2014). Analoga valenza persuasiva e programmatica assumono le Raccomandazioni adottate in seno al Consiglio d’Europa, tra le quali merita almeno ricordare la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del 2010 che invita gli Stati ad approvare misure volte a rafforzare la tutela dalle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale in molteplici settori. Una delle aree di intervento indicate è quella della lotta all’omofobia, caldeggiata anche in diversi documenti dell’Unione europea, quali la Risoluzione del Parlamento Europeo sull’omofobia in Europa del 2007, preceduta e seguita da altre risoluzioni di analogo contenuto (Risoluzione del 2012 e Risoluzione del 2014). Tale lotta si è già avviata in diversi ordinamenti europei e non (tra i quali non vi è però ancora l’Italia) che hanno adottato apposite normative volte a combattere il fenomeno dell’omofobia sanzionando penalmente sia i crimini che i discorsi d’odio (Cfr. “Omofobia e transfobia”).

[1] La prima Costituzione al mondo ad aver introdotto l’espresso divieto di discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale è stata quella del Sudafrica entrata in vigore nel 1996, seguita pochi mesi dopo da quella delle isole Figi (1997) e da quella dell’Ecuador (1998).

[2] La Corte costituzionale, con la pronuncia n. 138 del 2010 (link alla banca dati), si era limitata a  rimettere alla discrezionalità del Parlamento il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali; in seguito, con la decisione n. 170 del 2014 (link alla banca dati), dichiarando l’incostituzionalità del c.d. “divorzio imposto” in caso di rettificazione di sesso di uno dei coniugi (cfr. “Identità di Genere”), aveva affidato al legislatore il compito di introdurre una forma di convivenza registrata per le coppie formate da persone dello stesso sesso. In ragione dell’assenza di una legislazione di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso, l’Italia era è stata poi condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la violazione della CEDU nel 2015, con la sentenza “Oliari e altri v. Italia” (reperibile al link https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?previsiousPage=mg_14_7&contentId=SDU1177280) e nel 2016 con la decisione “Taddeucci e McCall c. Italia” (reperibile in lingua francese al link http://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22languageisocode%22:[%22FRE%22],%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22itemid%22:[%22001-164201%22]}), in cui si è affermato che costituisce discriminazione diretta sulla base dell’orientamento sessuale nel godimento del diritto alla vita familiare la mancata concessione al partner dello stesso sesso non cittadino dell’Unione europea del permesso di soggiorno per motivi familiari.

[3] Sentenza della Corte di Appello di Firenze del 19 settembre 2014.

[4] Diversi sindaci, dopo la citata pronuncia del Tribunale di Grosseto, avevano infatti iniziato ad autorizzare le trascrizioni di matrimoni contratti all’estero, che però sono state ritenute illegittime dalla c.d. Circolare Alfano n. 10853 del 2014 con cui i prefetti sono stati invitati a ordinare ai sindaci la cancellazione delle trascrizioni già effettuate.

[5] Si vedano l’ordinanza del Tribunale di Nicosia del 2010 e quella del Tribunale di Firenze del 2009.

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Orientamento sessuale: storia di un concetto moderno http://www.portalenazionalelgbt.it/storia-concetto-moderno/ http://www.portalenazionalelgbt.it/storia-concetto-moderno/#respond Tue, 03 Jun 2014 08:55:40 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=10 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

L’orientamento sessuale è una delle componenti dell’identità sessuale, insieme a sesso biologico, identità di genere e ruolo di genere. Questi elementi costituiscono la percezione che ogni individuo ha della propria identità come essere sessuato, di come considera se stesso e di come desidera essere considerato dall’esterno. Tale complessa rappresentazione della sessualità è però cambiata nel corso della storia, così come è cambiata la concezione di ciò che si ritiene ‘sessuale’, tanto che quello che intendiamo oggigiorno con l’espressione ‘orientamento sessuale’ risale solamente alla seconda metà dell’800: la stigmatizzazione dell’omosessualità, infatti, è servita per definire l’eterosessualità come forma data per scontata ed universale di sessualità. Forse non tutte e tutti sanno che i termini ‘omosessualità’ ed ‘eterosessualità’ si plasmano solo all’interno dei nascenti Stati-nazione, quando le scienze prendono il posto della religione nel condannare determinati comportamenti e nel definire i confini della normalità.
La prima apparizione su carta stampata della parola ‘omosessuale’ si attribuisce a Károly Mária Benkert, scrittore ungherese anche chiamato con il nome tedesco Karol-Maria Kertbeny, autore nel 1869 di un pamphlet anonimo contro la proposta di accogliere nell’ordinamento prussiano una legge anti-sodomia. Anche il termine ‘eterosessuale’ viene coniato in quel contesto per definire l’attrazione sessuale tra persone di sesso diverso. La diffusione dei termini ‘omosessuale’ e ‘eterosessuale’ tra gli esperti medici per indicare una netta divisione identitaria tra persone omosessuali ed eterosessuali si deve al libro del 1886 dello psichiatra e neurologo tedesco Richard von Krafft-Ebing, “Psychopathia sexualis” – in cui, peraltro, compare anche il termine ‘lesbica’. Bisognerà invece aspettare il volgere del secolo affinché anche il termine ‘bisessuale’, prima utilizzato per definire le persone ermafrodite, acquisisca il significato che gli attribuiamo ora di attrazione sia per il sesso femminile che per quello maschile.

Sebbene non sia facile ripercorrere i significati che nella storia occidentale sono stati dati al comportamento omosessuale, su un aspetto c’è piena condivisione: prima dell’800 non esisteva nel senso comune la concezione di ‘orientamento sessuale’, e il mondo non era nettamente diviso tra eterosessuali e omosessuali. Inoltre, per quel che riguarda le relazioni tra donne, è importante in primo luogo tenere in considerazione un dato di fatto fondamentale, ovvero che la Storia – della sessualità così come di tutti gli altri ambiti della vita – è stata scritta fino a tempi molto recenti solo dagli uomini e sugli uomini: questo fa sì che, ad oggi, sia ancora difficile rinvenire documenti che riportino narrazioni d’amore di donne per altre donne. Il neologismo ‘lesbian herstory’ definisce proprio lo sforzo fatto nell’ultimo mezzo secolo da storiche, teoriche femministe e attiviste per ricostruire le storie lesbiche del passato. L’eccezione più conosciuta a questa invisibilizzazione risale alla Grecia Antica, in particolare al VI secolo a.c., periodo in cui Saffo visse a Lesbo: dalla poetessa e dall’isola derivano infatti i due aggettivi più diffusi per definire le donne lesbiche che intraprendono rapporti saffici.

Gli studi storici e antropologici occidentali hanno suddiviso l’interpretazione delle relazioni omoerotiche in tre momenti che si sovrappongono, dato che la divisione ha una finalità prettamente analitica ma i passaggi storici sono molto più graduali e lenti rispetto alle date simboliche che vengono scelte per fissarli, e alcuni modelli permangono nel tempo a seconda della cultura di riferimento o della classe sociale di appartenenza.

Il primo modello di relazione omoerotica individua come discrimine l’età. Ad esempio nell’antica Grecia, i rapporti sessuali omoerotici facevano parte dell’iniziazione alla vita adulta dei giovani maschi e costituivano un rito di passaggio nell’acquisizione della virilità: avvenivano tra un uomo adulto libero, che ricopriva il ruolo penetrativo, quindi considerato attivo, e un adolescente libero nel ruolo ricettivo, quindi considerato passivo. Tali rapporti prevedevano una forte disparità di potere e di prestigio, confermata anche dalla differenza di ruoli che segnalava la diseguaglianza sociale: in questo periodo storico, dunque, l’opposizione non era tanto tra persone omosessuali ed eterosessuali (concetti che all’epoca non esistevano), quanto tra una sessualità attiva, esercitata da uomini adulti e liberi, e una sessualità passiva, espressa da soggetti considerati inferiori quali donne e adolescenti. Anche nella Firenze rinascimentale riscontriamo il tipo di relazione omoerotica caratterizzata da una forte disparità di età: le fonti storiche ci trasmettono frequenti relazioni nel campo delle arti tra maestro adulto e giovane allievo.

Il secondo modello di relazione omoerotica, che si afferma nel discorso pubblico a partire dalla seconda metà dell’800, è il paradigma dell’inversione di genere come malattia e come perversione. La novità di questo paradigma risiede nell’interpretazione dell’inversione in quanto malattia mentre, in altri periodi storici e contesti geografici, l’inversione di genere è considerata legittima e dà luogo a soggetti riconosciuti socialmente: alcuni esempi sono i Berdache nell’America settentrionale, i Ciukci nella Siberia settentrionale e i Daiacchi nel Borneo, ovvero giovani uomini che rivestono il ruolo sociale di donna e ricoprono a volte ruoli di prestigio. Questo paradigma segna un cambio epocale di prospettiva in cui il soggetto omosessuale inizia a essere considerato una specie a sé stante su cui la società può agire forme di controllo al fine di ricondurre dentro ai rigidi confini di genere i soggetti considerati malati. Esso permane ancora oggi, quando si confonde l’orientamento sessuale con l’identità di genere, o quando si associano all’omosessualità caratteristiche che nulla hanno a che fare con l’orientamento sessuale, come ad esempio la predisposizione alla perversione e alla menzogna per ambo i sessi, la sensibilità e la dolcezza negli uomini omosessuali, la scontrosità nelle donne lesbiche.
Prima della seconda metà dell’800, il diritto canonico e le leggi colpevolizzavano gli atti omosessuali attraverso le definizioni di ‘peccato‘ e ‘reato‘ che comportavano sanzioni e punizioni corporali nei confronti di chi si macchiava di tale atto. Le scienze che si affermano in questo periodo (pedagogia, medicina e psicologia), tuttavia, vanno oltre la condanna di un mero comportamento, fino a quel momento considerato accidentale nella vita di qualunque individuo, e intraprendono il tentativo di classificare le persone considerate intrinsecamente devianti: attraverso la patologizzazione e la ricerca dell’origine di quella che viene considerata una vera e propria malattia avviene il passaggio da ‘comportamenti’ a ‘soggetti’ devianti.
In questo periodo si afferma l’idea che non è solo la sessualità non finalizzata alla riproduzione che deve essere condannata, ma che particolare attenzione deve essere prestata proprio all’oggetto del desiderio, ovvero a chi prova desiderio per persone del proprio stesso sesso, in quanto è attraverso questo desiderio che vengono messi in discussione i rigidi confini di genere e i ruoli nella società. Prende forma un’interpretazione della relazione omoerotica che ricalca il modello eterosessuale, in cui quindi gli uomini omosessuali vengono considerati non solo invertiti in quanto effeminati, ma malati in quanto rinunciano al proprio potere e ricoprono un ruolo passivo all’interno della coppia. Allo stesso modo, le donne che intraprendono relazioni con donne vengono considerate mascoline (e dunque malate) in quanto osano sottrarsi al potere maschile che le vuole subordinate nello spazio domestico, votate alla famiglia e alla maternità e assenti nello spazio pubblico. All’interno di una relazione omoerotica, dunque, solo uno dei due componenti viene considerato perverso, ovvero quello che disconosce i confini di genere: l’uomo effeminato (ma non l’uomo attivo), da un lato, e la donna mascolina (ma non la donna passiva), dall’altro.

Le condizioni sociali che hanno permesso l’affermarsi di un sistema teso a disciplinare il soggetto omosessuale sono da ricondurre ai grandi cambiamenti comportati dai processi di industrializzazione e urbanizzazione: la presenza maschile nell’arena pubblica viene messa in discussione dall’entrata nel mondo del lavoro delle donne. Di fronte a questo cambiamento, il potere che in quell’epoca si era sempre retto su una divisione netta tra i generi (e tra gli spazi che maschi e femmine occupavano) si sente minacciato, e corre ai ripari: sono da condannare sia l’uomo che rinuncia al proprio privilegio comportandosi da ‘femmina’, sia qualunque donna che osi sfidare il controllo maschile comportandosi da uomo. Da notare che le donne che hanno relazioni con altre donne vengono rappresentate non solo come virili, ma anche come prostitute (in quanto provano piacere nell’avere relazioni erotiche): non era al tempo concepibile, infatti, che una donna volesse provare piacere, per di più con un’altra donna, motivo per cui si pensava che dovesse avere delle disfunzioni che le facevano provare un desiderio maschile (cioè un desiderio sessuale verso una donna) in un corpo femminile; non a caso, spesso queste donne vestivano abiti maschili per poter vivere le proprie relazioni al di fuori delle mura domestiche (e per poter occupare uno spazio pubblico che altrimenti sarebbe stato loro negato).

Il terzo modello di relazione omoerotica fa riferimento alle relazioni egualitarie, in cui non vi è differenziazione di ruoli ma uno status sociale simile tra le/i partner (in cui quindi non vi è gerarchia all’interno della coppia). Benché la storia ci consegni diffuse testimonianze di relazioni egualitarie, è nella seconda metà del ‘900 che si affermano alcuni cambiamenti culturali, storici ed economici che comportano la legittimità sociale delle relazioni egualitarie, tanto tra le persone eterosessuali che tra quelle omosessuali: l’innalzamento del livello di istruzione, il boom economico, l’aumento del tasso di lavoro retribuito delle donne, l’affermarsi di valori anti-autoritari e, soprattutto, la messa in discussione della rigidità dei ruoli di genere (e quindi il venir meno del cosiddetto binarismo di genere).
Questo punto di svolta viene portato allo scoperto da un interessante quanto controverso studio condotto nell’America degli anni ’50 da Alfred Kinsey. Kinsey, biologo che inizia a interessarsi di sessuologia, conduce in quegli anni la prima ricerca empirica su larga scala sul comportamento sessuale umano, facendo emergere dati rispetto alle pratiche sessuali non finalizzate alla riproduzione, tanto inaspettati per l’epoca quanto statisticamente e culturalmente rilevanti. Attraverso migliaia di interviste a uomini e donne di diverse classi sociali statunitensi, Kinsey e la sua équipe hanno messo in luce come pratiche sessuali quali la masturbazione, la sessualità al di fuori del matrimonio o le esperienze omosessuali, non siano atti compiuti da persone malate e perverse, ma siano presenti nella vita della maggior parte degli individui. Rispetto all’orientamento sessuale, il rapporto Kinsey è il primo a mettere in discussione la rigidità della dicotomia ‘omosessuale’ / ‘eterosessuale’ e ad allargare i confini di due prototipi che venivano interpretati come vicendevolmente escludenti: dalla ricerca emerge come la maggior parte delle persone intervistate si collochi lungo un continuum i cui estremi (il comportamento esclusivamente eterosessuale e quello esclusivamente omosessuale) non sono tanto abitati quanto le sfumature che intercorrono tra questi estremi (la famosa ‘scala di Kinsey’). Evidenziando la continuità tra omosessualità ed eterosessualità emersa dalle interviste, Kinsey apre dunque la strada alla depatologizzazione dell’omosessualità che troverà riscontro nella decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di rimuovere l’omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie il 17 maggio 1990. La data, per il suo portato simbolico di cambiamento, viene ricordata ogni anno attraverso la “Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia” (IDAHOT)

Un’altra data simbolica che contribuisce a ridefinire il concetto di orientamento sessuale in termini positivi è il 28 giugno 1969, giorno di inizio a New York della rivolta di Stonewall, momento a cui si ascrive la nascita dei movimenti lesbici, gay e trans. L’orientamento sessuale inizia a essere pubblicamente visibile, ed emerge la differenza tra le specificità: il termine ‘gay’ diviene un marchio di orgoglio, grazie anche al suo significato di ‘gaio’; allo stesso tempo, la parola ‘lesbica’ inizia a essere utilizzata per esplicitare la differenza con l’esperienza gay maschile.

In conclusione, da questa rapida panoramica emerge chiaramente come sia il contesto culturale e storico di riferimento che assegna, di volta in volta, diverse accezioni e diverse sanzioni all’orientamento sessuale: cambiando il modello di riferimento, di conseguenza cambiano anche il peso discriminatorio e il potenziale liberatorio insiti nella rappresentazione sociale delle esperienze sessuali, identitarie e affettive degli individui.

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La visibilità dell’orientamento sessuale: coming out e outing http://www.portalenazionalelgbt.it/visibilita-orientamento/ Mon, 02 Jun 2014 12:07:35 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=144 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

L’espressione coming out (letteralmente ‘uscire allo scoperto’ o ‘uscir fuori’) definisce il processo che porta una persona a definire il proprio desiderio come omosessuale o lesbico, accettarlo in quanto tale e dichiararlo agli/alle altri/e. Il termine deriva dall’espressione inglese ‘to come out of the closet‘, traducibile in italiano con ‘uscire dall’armadio’, per indicare un momento di rottura rispetto a una condizione di segretezza, oppressione o invisibilità.
Il coming out viene dunque definito come ‘processo’ per due ragioni decisive:

  • è preceduto da varie fasi di riflessione e presa di consapevolezza degli individui a proposito del proprio orientamento sessuale;
  • non avviene una volta per tutte, ma è reiterato nel tempo, a seconda delle situazioni che si vivono, e nei diversi spazi sociali, a seconda dei contesti che si attraversano.

Come esseri sociali, viviamo all’interno di un continuo relazionarci con le altre persone, fatto di incontri, rapporti, conversazioni ed esperienze: ciò rende evidente come il coming out sia un processo continuo e mai concluso. Nella vita quotidiana, infatti, persone lesbiche e gay devono decidere ad ogni nuovo incontro se rendere noto o meno il proprio orientamento sessuale alla persona con cui si stanno relazionando. Una persona può, ad esempio, iniziare a definirsi omosessuale durante l’adolescenza, momento in cui prende forma la propria identità sessuale, ma le capiterà numerose volte nel corso della propria vita di doverlo comunicare e, in ogni nuova situazione, si troverà a chiedersi: «Faccio o meno coming out?».
Nella vita delle persone non eterosessuali, dunque, la decisione o meno di fare coming out ha una centralità preponderante: che esse lo affrontino o meno, in ogni caso si trovano a doverlo prendere in considerazione ogni volta che attraversano uno qualunque degli ambienti in cui si trovano a vivere, dato che in tutti gli ambiti si dà per scontato che l’orientamento delle persone sia eterosessuale: famiglia, scuola, sport, lavoro, amicizie, tempo libero, attivismo, ambito socio-sanitario, uffici pubblici. L’importanza di tale momento viene ricordata l’11 ottobre di ogni anno attraverso la celebrazione internazionale del giorno del coming out (“Coming Out Day”).

La complessa decisione di fare o meno coming out viene presa sulla base della relazione e del senso di fiducia che si sono instaurati con il contesto sociale, e degli indizi che si sono raccolti nell’ambiente a proposito delle possibili conseguenze di una simile rivelazione. E’ una decisione, però, che deve fare i conti con un forte stigma sociale. Lo stigma, concetto ben delineato negli anni ‘60 dal sociologo canadese Erving Goffman, è il dispositivo che discredita una persona sulla base dell’appartenenza a un determinato gruppo (ad esempio etnico) o del possesso di specifiche caratteristiche (ad esempio l’essere sovrappeso), considerate non desiderabili nella società di riferimento. Tali caratteristiche acquisiscono il primato sulle altre peculiarità della persona, che non viene più vista in virtù delle proprie doti individuali ma, semplicemente, come appartenente ad un gruppo screditato a causa degli stereotipi che circolano su quel particolare gruppo sociale. Come sappiamo, la nostra identità è un prisma, ed è composta da molte sfaccettature: quando viene fatta luce su un aspetto non dato per scontato quale può essere l’omosessualità, quell’aspetto rischia di non rendere visibile la persona nella sua interezza. Così, può accadere che una persona venga identificata solo in virtù della sua omosessualità e che, a partire da ciò, vengano formulate opinioni e giudizi sulle sue competenze, i suoi valori o il suo stile di vita: per esempio «Xy non può insegnare perché è omosessuale» (ma che cosa hanno a che vedere le competenze educative con l’orientamento sessuale?) oppure «Xy non è affidabile perché è omosessuale» (ma secondo quale logica l’affidabilità di una persona dipende dal suo orientamento sessuale?), e via dicendo.

Per evitare discriminazioni, soprattutto nelle situazioni quotidiane, molte persone decidono di mantenere segreto il proprio orientamento non eterosessuale. Tale condizione di segretezza è dovuta al fatto che la società in cui viviamo dà per scontato che tutte le persone siano eterosessuali. In altri termini, la nostra società fa fatica a superare, per condizionamenti storico-culturali, una visione eterosessista del mondo che tende a stigmatizzare o a disconoscere, anche se non sempre in maniera aperta e visibile, ogni relazione, rappresentazione, espressione non eterosessuale. Nel caso in cui una persona decida di non fare coming out, per esempio, decide anche di nascondere una parte di sé che non ha a che fare solo con l’attività sessuale, ma anche con la dimensione affettiva e relazionale. Basti pensare alle comuni domande (e alle ‘comuni’ risposte che la società si attende) che vengono fatte nelle situazioni sociali o familiari: «Hai il ragazzo?», «Sei sposato?», «Con chi hai passato il fine settimana?», «Chi ti ha portato all’ospedale?», «Con chi vivi?».

Allo stesso modo, questa società esprime e privilegia, a livello istituzionale e culturale, un’unica e specifica forma di eterosessualità, quella monogamica finalizzata al matrimonio e alla procreazione tra un uomo e una donna sposati; a causa di questo approccio eteronormativo, inoltre, non vengono garantiti sufficienti strumenti di tutela giuridica nei confronti dei cittadini e delle cittadine che non si conformano a tali norme o perché non lo desiderano benché sia loro concesso (persone eterosessuali), o perché non possono o non vogliono (persone omosessuali).

Quindi, non sono solo le relazioni omosessuali e lesbiche a essere stigmatizzate, ma rischiano la stessa sorte anche le relazioni eterosessuali tra uomini e donne che decidono di non avere figli/e, di non sposarsi, di non convivere e/o di vivere più di una relazione. Il pregiudizio è così radicato che è spesso difficile riuscire a identificarlo perché, la maggior parte delle volte, si manifesta in maniera indiretta e sovente inconsapevole, talvolta semplicemente attraverso il linguaggio.
A proposito del linguaggio, esso non è solo viziato dal pregiudizio ma anche dall’ignoranza. Per esempio, sovente, in particolare dai media e dalla stampa, il termine coming out viene erroneamente sostituito con il termine outing. In realtà non si tratta di due sinonimi, ma di due parole radicalmente diverse e legate a due processi molto differenti. Outing, infatti, è l’espressione usata per indicare la rivelazione dell’omosessualità di qualcuno da parte di terze persone senza il consenso della persona interessata, solitamente al fine di discreditare la persona di cui si è fatto outing. L’esempio classico è la scritta sul muro: «X è gay». Va detto che questa strategia è stata utilizzata nel passato anche da associazioni LGBT, particolarmente nei contesti anglosassoni, per smascherare politici o referenti religiosi particolarmente noti per le loro posizioni omofobiche, ma che vivevano di nascosto la loro omosessualità. Tale strategia politica non raccoglie però il consenso unanime, dato che comunque stigmatizza una persona rendendo visibile, senza consenso, il suo orientamento sessuale.

Prendere familiarità con questi termini e imparare a utilizzarli in maniera corretta è un primo passo per superare l’ignoranza e la discriminazione che spesso circonda le persone LGBT. Per un ulteriore approfondimento sul lessico e sull’uso non eterosessista del linguaggio rimandiamo alle “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT” stilate da “Il redattore sociale” per conto di UNAR.

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“Nessuno Uguale”: l’orientamento sessuale tra gli/le adolescenti. Intervista a Claudio Cipelletti, regista del film http://www.portalenazionalelgbt.it/nessuno-uguale-lorientamento-sessuale-tra-i-giovani-intervista-a-claudio-cipelletti-regista-del-film/ Thu, 15 May 2014 10:23:35 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=564 A cura di Mara Pieri, sociologa, Gruppo di redazione.

Alla fine degli anni ’90, su iniziativa di Agedo (Associazione di Genitori, parenti e amici di persone LGBT), nasce Nessuno uguale, un documentario che parla di orientamento sessuale, pregiudizi e coming out con adolescenti di varie scuole superiori milanesi e giovani gay e lesbiche. Il documentario è tuttora utilizzato come strumento educativo, grazie alla grande capacità di raccontare che cosa significa essere ‘diverso/a’ nell’età adolescenziale. Ora il documentario è a disposizione su questo portale. Ne abbiamo pertanto parlato con Claudio Cipelletti, regista del film.

Da che cosa è nata l’idea di “Nessuno uguale” e quale è stato il background del progetto?

“Nessuno uguale” è nato nel 1997-1998. In quel momento, Agedo aveva aperto un primo canale di lavoro con Gustavo Pietropolli Charmet, psicologo dell’età adolescenziale, per fare un convegno su adolescenza e omosessualità. Si trattava di un’assoluta novità abbinare il discorso dell’adolescenza e quello dell’omosessualità, sembrava inopportuno e anche scandaloso, come se l’omosessualità fosse una condizione che non appartiene alla adolescenza ma ad altre età. In quel contesto, Paola dall’Orto – la fondatrice di Agedo – mi invitò a progettare un video con lo scopo strategico di raggiungere le famiglie, perché era difficilissimo per Agedo avere la possibilità di incontrare gli altri genitori con figli e figlie omosessuali: i genitori avevano paura a mostrarsi, a confrontarsi, c’era moltissima difficoltà e omertà. Quindi è nata l’idea di entrare nelle scuole, contattare i ragazzi e le ragazze e iniziare a lavorare con loro, che comunque sono molto più avanti – come sempre – sulle cose che li riguardano direttamente. Il lavoro è iniziato in questo modo, e abbiamo potuto sviluppare il progetto con la Provincia di Milano, l’allora Servizio Audiovisivi Medialogo che ha creduto nell’operazione.

Il video fa dialogare tra loro storie parallele di giovani gay e lesbiche e di adolescenti che si trovano a parlare di omosessualità: come è stato costruito il rapporto con loro che ha poi permesso che si raccontassero con tanta naturalezza?

Un presupposto fondamentale è stato di concentrarci sull’adolescenza, e quindi su quello che l’adolescenza comporta: entrare nel mondo adulto, confrontarsi con gli adulti e con i pari, costruendo ‘chi sono io’, cioè la mia identità di persona nel mondo, con la paura del giudizio che accomuna tutti. Partendo dall’idea che questa è l’atmosfera in cui ogni adolescente si muove, il discorso sull’omosessualità nell’adolescenza ha tenuto conto di questo dato. L’altro presupposto era quello di costruire il confronto tra persone che non comunicano normalmente in modo esplicito: da un lato, adolescenti che si ritengono eterosessuali e che si presentano come tali nel film, che non sanno nulla di ‘dove stanno questi gay’, ma credono di sapere molte cose sull’omosessualità – che in realtà è il portato della costruzione culturale che chiamiamo pregiudizio, ovvero credere di sapere qualcosa senza averlo mai approfondito. Dall’altro lato, invece, ragazzi gay e ragazze lesbiche che hanno preso coscienza di sé molto presto, attraversando questo percorso da soli e che appaiono, per certi versi, più maturi dei loro compagni e delle loro compagne eterosessuali perché hanno dovuto sbattere il naso contro qualcosa di molto duro. Il documentario fa, però, emergere come tutti gli adolescenti nel periodo di crescita si trovino a vivere situazioni difficili o problematiche e come questo accomuni tutte e tutti indipendentemente dall’orientamento sessuale. La preparazione del documentario è avvenuta sempre con l’aiuto di professionisti, Roberto Del Favero, psicologo, e Stefania Zaccherini Marangoni, formatrice: con loro abbiamo capito che dovevamo impostare le cose in questo modo e che doveva essere un confronto tra adolescenti capace di dribblare il pregiudizio.

Quali sono state le maggiori difficoltà riscontrate nella realizzazione del progetto?

La maggiore difficoltà è stata costruire i gruppi adeguatamente, e io l’ho fatto appoggiandomi per una prima fase al lavoro di Arcigay nelle scuole. Già allora infatti Arcigay faceva formazione, soprattutto nei momenti di autogestione, in cui si parlava apertamente di omosessualità: lì ho cominciato a capire che ragazzi e ragazze potevo invitare, scegliendo anche quelli apertamente omofobi, o che esprimevano con franchezza e veemenza la loro difficoltà, perché altrimenti avremmo realizzato un documentario ‘politically correct’ di nessuna utilità. Poi, attraverso altri canali o il passaparola, sono riuscito a contattare ragazzi gay e ragazze lesbiche più grandi, che hanno finito il liceo.

Il video si propone sia come documentario che come vero e proprio strumento educativo: quali sono stati gli sviluppi del progetto? Quale circuitazione ha avuto e con quali esiti?

Già allora ho costruito quest’esperienza con un occhio agli Stati Uniti, in particolare al lavoro di Debra Chastnoff e Helen Cohen, “It’s elementary“: un lavoro brillante e straordinario che a metà degli anni ’90 si è proposto di parlare di omosessualità alle elementari e lo faceva, nonostante le autrici fossero lesbiche, solo con insegnanti eterosessuali. Il documentario scatenò una polemica mediatica micidiale negli Stati Uniti. Il risultato però è un film bellissimo che molto pragmaticamente dimostra che parlare ai ragazzi e alle ragazze di amore e non di sesso è possibile, anche quando non è solamente eterosessuale, e che prima che si sedimenti il pregiudizio bambini e bambine sono molto più liberi e capaci di andare oltre le etichette sociali. “Nessuno uguale” nasce da quell’esperienza riportata da noi: io l’ho fatto perché sentivo il bisogno bruciante di farlo, io stesso ho vissuto quell’esperienza di isolamento che raccontano i ragazzi gay e le ragazze lesbiche e non mi sembrava tollerabile che questa storia continuasse a ripetersi. Volevo riuscire a raccontare questo percorso perché altri ne venissero a conoscenza prima di cadere nella disperazione, volevo che avesse una funzione di diffusione culturale e di prevenzione. Mi sono tuttavia stupito del fatto, però, che è rimasto l’unico esempio: non c’erano, allora, prodotti analoghi, ma non ne sono stati fatti neanche dopo. Per questo motivo viene ancora utilizzato: in realtà le cose nel profondo non sono cambiate moltissimo, è cambiata molto l’apparenza dei problemi, ma non ci sono altri documentari informativi e didattici, ma non prescrittivi, ovvero capaci semplicemente di mostrare nel profondo, senza veli, i percorsi di questi ragazzi e ragazze. Il documentario inoltre dimostra qualcosa di alto valore formativo: bastano due giorni di lavoro in un gruppo di adolescenti che non si conoscono e vengono da scuole diverse per dare dei risultati strepitosi, e questo andrebbe fatto sempre nella nostra scuola perché quel percorso per loro è stato indimenticabile, ha segnato la vita e la crescita in modo positivo.
L’utilizzo didattico successivo purtroppo è stato molto spontaneo, mai pienamente istituzionalizzato: abbiamo tentato di fare una distribuzione nazionale nelle scuole ma di fatto non è stato possibile, e solo la Regione Piemonte e il Comune di Torino hanno avuto la sensibilità, le possibilità e le strutture per proporre il VHS nelle scuole e nelle biblioteche comunali o di abbinarlo a progetti formativi. Quindi è tutto in mano a insegnanti che per passaparola lo hanno conosciuto e utilizzato, e questo continua ad avvenire, perché ce lo chiedono, si fanno lavori di formazione. “Nessuno uguale” poi ha prodotto un secondo step ancora più importante: una volta che è stato usato dai figli per fare coming out in casa e aprire il dialogo con i propri genitori, i genitori stessi hanno cominciato ad affluire ad Agedo con meno paura, ed è stato possibile mettere in cantiere “Due volte genitori“, un documentario sulle famiglie e sui genitori, che ha avuto ancora più diffusione.

Hai avuto modo di incontrare nuovamente i protagonisti e le protagoniste del video a distanza di tempo?

Due settimane fa abbiamo fatto una proiezione all’università di Bologna con grandissimo successo con Margherita, una delle ragazze che era nel film, ed è ancora legata al progetto; sono in contatto con alcuni e alcune di loro, ma con altri ci siamo persi. La mia idea era di fare un aggiornamento di “Nessuno uguale” ai giorni nostri coinvolgendo i ragazzi e le ragazze di allora, facendo un confronto fra generazioni in questo momento.

Il video è stato realizzato alla fine degli anni ‘90, quando ancora molti cambiamenti nel mondo LGBT e, in generale, nella possibilità di accedere a informazioni non erano avvenuti. Se il progetto si ripetesse attualmente, quali pensa che sarebbero le differenze?

Purtroppo quello che è cambiato è fondamentalmente la tecnologia della comunicazione: i ragazzi e le ragazze di “Nessuno uguale” non avevano neanche il telefonino, figuriamoci Internet 2.0 e i social! Oggi sarebbe un po’ paradossale sostenere di essere ‘l’unico sulla terra’, perché, effettivamente, se ci si connette ad Internet è possibile entrare in contatto con coetanei e coetanee omosessuali. Si tratta però di una nuova solitudine che non è sinonimo di crescita. In un certo senso siamo in balia di un’overdose mediatica: è andata consolidandosi un’immagine mediatica ed esteriore attorno all’omosessualità, neanche sull’omosessualità, che non ha nulla a che vedere con i percorsi di cui si parla nel film. Nella sostanza secondo me non è cambiato nulla: io credo che la comunicazione di per sé non agevoli il processo di crescita se non è accompagnata da un percorso formativo adeguato e dall’assunzione di responsabilità del mondo scolastico, cosa che come sappiamo non sempre avviene. Spesso i mezzi di comunicazione e la facilità di accesso alle informazioni generano confusione e influiscono erroneamente sull’opinione pubblica: per esempio la parola outing è stata introdotta dai media per dire coming out, è piaciuto il suono di quella parola, ma non ci si è accorti che è un termine omofobico e scorretto.

A quali progetti sta lavorando attualmente?

Non ho progetti in cantiere al momento, ma ci sono tre temi su cui mi piacerebbe lavorare. Uno è quello dei matrimoni: dopo aver parlato di difficoltà di coming out adolescenziali, difficoltà di coming out in famiglia, volevo raccontare come si sta in coppia, come vivono le coppie di lunga data, cosa comporta il fatto di non avere un riconoscimento esterno. Altri due temi sono quello del transgenderismo e della transessualità e quello dell’immigrazione e dell’omosessualità, le seconde generazione di immigrati ed il coming out in culture diverse. Sono però tutti progetti molto complessi e ambiziosi che sono ancora nella sfera delle ipotesi.
Voglio concludere ringraziando moltissimo Agedo, perché è stata una forza propulsiva: io negli anni ’90 avevo voglia di lavorare su e con le scuole, ma non l’avrei fatto senza lo stimolo di Paola Dall’Orto che come me aveva un’esigenza militante straordinaria.

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