Identità di genere – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Identità di genere: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/identita-di-genere-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Tue, 28 Jun 2016 08:41:17 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2557 A cura di Anna Lorenzetti, Dipartimento Giurisprudenza, Università degli Studi di Bergamo.

La possibilità di modificare il sesso anatomico e anagrafico fu introdotta nel 1982 con la legge 164 “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, terza in Europa sulla materia. Questa normativa trovò la propria genesi nella necessità di regolarizzare la posizione di coloro che si erano sottoposti all’intervento di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali all’estero, ma che per l’assenza di una legge non potevano essere riconosciuti nella nuova identità in Italia.

Ovviamente, a distanza di trent’anni dall’approvazione della legge, si sono poste nuove istanze. Ad esempio, la disposizione che chiedeva l’intervento ‘quando’ e dunque ‘solo se’ necessario ha determinato alcuni quesiti, in particolare circa l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico e quindi circa la possibilità di modificare il proprio nome anche prescindendone. Inoltre, i giudici sono stati interpellati su quali siano i confini della ‘necessità’ e su quale tipo d’intervento chirurgico sia richiesto per concludere il percorso (deve riguardare i caratteri sessuali primari, con un impatto certamente più invasivo sulla salute della persona, o è sufficiente una modifica dei caratteri secondari, possibile anche con il solo trattamento ormonale?). Questi aspetti sono tutt’altro che marginali, in quanto l’interpretazione della legge 164 e le prassi in uso nelle strutture socio-sanitarie, di fatto, hanno considerato per lungo tempo come obbligatorio l’intervento chirurgico, anche qualora la persona interessata non lo desiderasse. Interrogata sul punto, la giurisprudenza di merito aveva richiesto – in larga maggioranza, e con poche eccezioni (Tribunale di Rovereto, 3 maggio 2013 et al.1) – l’effettuazione dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari, quale requisito indispensabile per concludere il percorso di cambiamento di sesso (Corte d’Appello di Bologna, 22 febbraio 2013 et al.2).

Si tratta di uno degli aspetti più controversi della legge, sul quale sono state chiamate ad esprimersi sia la Corte di Cassazione, sia la Corte costituzionale che hanno riconosciuto come è rimessa al giudice, con il supporto del sanitario, e da effettuare caso per caso, la valutazione circa la necessità o meno dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari ai fini della conclusione del ‘transito’3.
Recentemente, la legge 164/1982 è stata modificata, nell’ambito di una riforma volta alla semplificazione dei riti processuali (d.lgs. 150/2011), con un appesantimento nel percorso giudiziale di cambiamento del sesso, un allungamento dei tempi e un aggravio di costi. Secondo la nuova disciplina, le ‘controversie’ che riguardano la riassegnazione del sesso seguono il rito ordinario di cognizione, al giudizio partecipa il pubblico ministero e l’atto introduttivo del giudizio è divenuto un atto di citazione, che va notificato al coniuge e ai figli dell’attore (art. 31, D. Lgs. 150/2011).

Ponendo ora attenzione all’ambito lavorativo, si deve rilevare che nell’ordinamento italiano è assente una disciplina chiara e univoca che tuteli contro le discriminazioni in ragione dell’identità di genere, al pari di quanto accade, ad esempio, per l’orientamento sessuale con il decreto legislativo 216 del 2003. Questo appare significativo non soltanto in quanto all’accesso al lavoro o alla stabilità lavorativa è legata un’indipendenza economica che scongiura la marginalità sociale, ma anche perché si tratta di un ambito segnalato come particolarmente critico dalle persone transessuali che subiscono discriminazioni all’ingresso nel mondo del lavoro e nel mantenimento del posto di lavoro. Rispetto alla dimensione problematica della questione, i casi giunti nelle aule dei tribunali sono piuttosto ridotti numericamente e riguardano vicende di travestitismo, e principalmente licenziamenti a causa di un abbigliamento ritenuto non consono allo svolgimento delle mansioni assegnate.
Allargando il campo anche agli ordinamenti sovranazionali (internazionale ed euro-comunitario), una serie di significative pronunce – prima tra queste la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea “P contro S e Cornwall County Council”4ha contribuito ad estendere le tutele previste per le discriminazioni fondate sul sesso anche verso chi abbia cambiato sesso, senza però considerare la condizione di coloro che stanno ancora vivendo il ‘transito’ (ossia il passaggio da un sesso all’altro) o non intendano sottoporsi all’intervento.

L’ultima direttiva del Parlamento europeo in materia di contrasto alle discriminazioni uomo/donna in ambito lavorativo (n. 54 del 2006) ha ‘accolto’ i risultati delle pronunce della Corte di Lussemburgo, senza però imporre agli Stati membri l’obbligo di estendere le tutele per le discriminazioni di genere ai casi di transessualismo o transgenderismo. Questa posizione è stata interpretata come un significativo rafforzamento delle tutele, peraltro avallata da una serie di documenti normativi, di soft law, orientati nel senso di una maggiore garanzia in numerosi ambiti, tra i quali occupazione, sanità, istruzione (Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014; Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri). Da ultimo, si veda la Risoluzione 2048 (2015) che invita gli Stati membri ad attivarsi per conseguire il pieno riconoscimento di diritti e libertà per le persone transessuali e transgender.

Anche la Corte europea dei diritti umani si è occupata a più riprese della condizione giuridica delle persone transessuali, a partire dal leading case“Christine Goodwin contro Regno Unito”, decisione dell’11 luglio 2001 – in cui è stato riconosciuto il diritto della persona che ha cambiato sesso di coniugarsi con una persona di sesso opposto a quello acquisito.
Rispetto all’ambito familiare, in Italia la condizione transessuale non è ostativa al matrimonio con una persona del sesso opposto a quello acquisito con la riassegnazione anagrafica, né all’adozione di un minore o al mantenimento di rapporti affettivi con la prole avuta prima del cambiamento di sesso. Recentemente, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 170 del 2014, ha deciso circa il caso di sopravvivenza del matrimonio regolarmente contratto prima di sottoporsi all’intervento chirurgico e divenuto same-sex dopo l’intervento chirurgico di uno dei coniugi. Alla luce della necessità di tutelare un legame validamente sorto, ma considerando altresì che in Italia il matrimonio presuppone l’unione di un uomo e una donna, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della norma che impone lo scioglimento automatico del vincolo in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi. Tuttavia, ha rimesso al legislatore la definizione di un modello di regolamentazione, comunque diverso dal matrimonio, in grado di fornire una tutela alla coppia. Di recente, la questione è stata decisa dalla Corte di Cassazione che, sulla base di quanto affermato dalla Consulta, ha affermato la necessità di mantenere valido il matrimonio divenuto fra due persone dello stesso sesso, fino a quando il legislatore non consenta alla coppia di dare vita ad altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti e obblighi (Corte di Cassazione, 21 aprile 2015, n. 8097). La recente approvazione del testo di legge sulle unioni civili, cd. Legge Cirinnà ha previsto che “La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” (art. 1, co. 26, L. 76/2016) e che “Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile” (art. 1, co. 27, L. 76/2016).

La vicenda dei migranti merita una segnalazione peculiare, posto che l’Italia considera la condizione transessuale come possibile motivo di richiesta e riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 8, co. 1, lett. d, D. Lgs. 251/2007, come modificato dal D. Lgs. 18/2014), mentre non è prevista una normativa di contrasto alla transfobia.

Occorre infine ricordare che l’espressione ‘identità di genere’ ha fatto la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione regionale. Con la legge n. 63 del 2004, la Regione Toscana, seguita qualche anno dopo da Liguria e Marche ha, infatti, menzionato espressamente l’identità di genere tra i fattori di discriminazione vietati. Recentemente, la Regione Piemonte ha approvato la legge regionale 5 del 2016 (“Norme di attuazione del divieto di ogni forma di discriminazione e della parità di trattamento nelle materie di competenza regionale”), in cui è esplicitamente vietata ogni forma di discriminazione anche in ragione dell’identità di genere. Di identità di genere si trova inoltre menzione in alcune leggi regionali di settore che riguardano il contrasto alla violenza5 e l’ambito socio-sanitario6.

Note:
[1] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono Tribunale di Messina, 4 novembre 2014; Tribunale di Genova, 5 marzo 2015.
[2] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono: Tribunale di Roma, 18 luglio 2014, n. 34.525; Tribunale Vercelli, 12 dicembre 2014, n. 159; Tribunale di Catanzaro, 30 aprile 2014; Tribunale di Potenza, 20 febbraio 2015.
[3] Corte di Cassazione 15138/2015; Corte costituzionale 221/2015; Anche la Corte europea dei diritti umani, nel caso Y.Y. c. Turchia (appl. 14793/08, sentenza 10 marzo 2015), è intervenuta sul tema, dichiarando l’irragionevolezza della normativa interna che richiedeva la preventiva sterilizzazione della persona che intendeva sottoporsi all’intervento chirurgico. Peraltro, l’attualità del tema è attestata dalla recente approvazione della legge maltese (“Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act”) che afferma il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, allo sviluppo della persona in accordo all’identità di genere, ma soprattutto all’autodeterminazione sulla scelte che riguardano il proprio corpo, di cui è garantita l’integrità. In particolare, viene sancito che il riconoscimento dell’identità di genere e della possibilità di modifica anagrafica non può essere subordinato all’intervento chirurgico, né alla terapia ormonale o psichiatrica (art. 3, par. 4).

[4] Tra le altre pronunce si ricorda il caso C-117/01, “K.B. – National Health Service Pensions Agency, Secretary of State for Health”, deciso il 7 gennaio 2004.

[5] Così, ad es. art. 4, L.R. Piemonte 16/2009 del Piemonte sui Centri antiviolenza.

[6] Ad esempio, la L.R. Puglia 23/2008, che ha approvato il Piano regionale salute 2008-2010.

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Identità di Genere: quale genere di identità? http://www.portalenazionalelgbt.it/identita-di-genere-quale-genere-di-identita/ Fri, 27 Jun 2014 08:22:22 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1389 A cura di Lia Viola, Ph.D. in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione, Università degli Studi di Torino.

La prima domanda dinanzi alla notizia di una nuova nascita è quasi sempre relativa al sesso: maschio o femmina? Il desiderio che sta dietro a tale quesito è quello di potersi immaginare il futuro del nascituro: avrà una vita da uomo o da donna? Culla rosa o nastrino azzurro? Queste semplici domande – che diamo spesso per scontate e a cui non prestiamo attenzione – possono essere ritenute uno dei segnali che ci indica quanto la nostra società tenda a dividere rigidamente gli esseri umani in due sole categorie: maschi e femmine nonché a ritenere che una persona nata con un sesso maschile crescerà automaticamente e irreversibilmente con un’identità di genere da uomo e viceversa.
Eppure non tutti la pensano così: esistono culture che hanno sviluppato rappresentazioni diverse del genere e del suo rapporto con il sesso. Uno sguardo a queste altre realtà può esserci di aiuto per capire i processi di costruzione sociale del genere e come esso si sviluppi in maniera differente a seconda del contesto culturale di riferimento.
Gli Inuit dell’Artico alla nascita di un bambino erano, diversamente da noi, soliti dare poca importanza al suo sesso biologico. Essi infatti ritenevano che bisognasse capire quale antenato viveva in questo nuovo corpo, poiché ogni nascita non era altro che la reincarnazione di un individuo vissuto in precedenza. Poteva dunque accadere che in un bambino con un sesso maschile vivesse un antenato donna. Se ciò succedeva, gli Inuit stabilivano che, a dispetto del sesso biologico, il genere del bambino sarebbe stato femminile. In alcuni casi, ma non tutti, durante l’adolescenza la persona transitava verso il genere corrispondente al sesso. Sembrerebbe dunque che per gli Inuit l’anatomia umana, seppur abbia un suo valore, non sia l’unica variabile che determina il genere di un individuo.
La società occidentale, invece, tende a cercare nella biologia molte delle risposte ai comportamenti umani, come se bastasse avere un’anatomia femminile per sentirsi donna. O, ancor di più, come se, chiunque abbia un’anatomia femminile, ‘debba’ assolutamente sentirsi donna. Se provassimo a guardare noi stessi con occhi esterni forse troveremmo bizzarro notare quanto il nostro sguardo sia focalizzato sui genitali di un bambino: come se nella loro forma si potesse davvero leggere il futuro del neonato e capire se tra dieci o vent’anni avrà voglia di indossare una gonna o camminare su dei tacchi alti.
Ampliare il nostro sguardo verso altre società ci può forse aiutare a mettere in discussione le nostre categorie di pensiero e analizzare come il genere non sia mero riflesso di processi biologici. Per esempio, i Dogon del Mali, presso cui fece ricerca Marcel Griaule negli anni Trenta del Novecento, sapevano che la visione di genere di ogni persona è una questione complessa in cui la cultura gioca un ruolo molto importante. Essi, infatti, ritenevano che il bambino nascesse androgino e che la società avesse il ‘dovere’ di modellare il suo genere. Quindi secondo i Dogon il sesso biologico non è sufficiente per definire l’identità di genere del bambino. Piuttosto questa, per formarsi, ha bisogno di un intervento culturale.
In sintesi, gli Inuit ci hanno ricordato come, invece di considerare unicamente il sesso biologico, si possa scegliere di chiedere agli antenati quale sia il futuro di genere di un individuo. I Dogon ci hanno inoltre insegnato come la visione di genere di una persona sia un delicato meccanismo in cui la cultura ha un peso determinante. In conclusione di queste prime riflessioni potremmo dunque dire che il genere che ognuno svilupperà nel corso della propria vita sarà il frutto dell’interazione di tante variabili e dunque che non è detto che il sesso biologico sia l’unica fonte a cui attingere per immaginare il futuro di un bambino o di una bambina.
Infatti, durante la crescita alcune persone possono sviluppare un’identità di genere diversa da quella che è stata loro attribuita alla nascita. In Occidente siamo soliti usare i termini transessualità o transgenderismo per definire tali persone. Ancora una volta, l’esperienza di transitare da una categoria di genere all’altra non è esclusiva solo della nostra società. Per esempio in Sud Africa alcuni sangoma (guaritori) presentano un’identità di genere diversa dal sesso biologico. I sangoma sono delle persone che hanno ricevuto il potere medico attraverso l’esperienza della possessione. Si ritiene, infatti, che vi siano degli antenati morti troppo presto, che non hanno finito di fare tutto ciò che dovevano e che dunque cerchino dei corpi per concludere il loro percorso di vita. Attraverso un periodo di iniziazione e apprendistato il sangoma impara ad accogliere e gestire la possessione e in cambio riceverà il potere medico: la capacità di guarire le malattie. È un percorso molto complicato, e faticoso, in cui il corpo fa da tramite tra esistenze terrene e spirituali.
Ciò che del percorso di un sangoma ci interessa qui analizzare è il suo rapporto con la visione di genere. Infatti gli spiriti sembrano non dare molta importanza, almeno non quanto noi, alla coincidenza tra sesso e genere, e scelgono i corpi da possedere in base a parametri non meramente biologici. Dunque ogni tanto succede che un corpo di donna sia posseduto da uno spirito maschile e viceversa. Così inevitabilmente i sangoma modelleranno il proprio genere in base a quello dello spirito.
Se compariamo queste esperienze di vita con la nostra società ci rendiamo subito conto delle profonde differenze che esistono. In Occidente le persone transessuali sono ritenute, dalla scienza biomedica, come affette da disforia di genere. Se un sangoma del Sud Africa arrivasse in Italia si troverebbe dunque a essere classificato all’interno di una categoria psichiatrica che traduce la sua esperienza di vita attraverso il linguaggio della malattia: proprio lui (o lei) che i malati di norma li cura. La scienza psichiatrica occidentale classifica le persone transessuali come affette da disforia di genere proprio in virtù della nostra convinzione che sesso e genere siano legati da un nesso indissolubile. La questione qui non è quella di stabilire se la possessione degli spiriti sia in sé più ‘vera’ della biologia ma piuttosto di rendersi conto come un fenomeno possa essere guardato da più punti di vista. È dunque importante riflettere sul fatto che la nostra società, così come le altre, nel tentativo di comprendere la vita umana ha creato un modello relativo: esso è solo uno dei tanti possibili. Da questo punto di vista il processo di guardare alla forma anatomica di un corpo per decidere quale genere dovrà avere non ha in sé maggior valore di verità che chiedere agli antenati quale sarà il futuro di un bambino. È una vista parziale che si sofferma su un solo dato scordando di considerare che tante variabili contribuiscono a creare il profilo di genere di una persona.
Nelle società occidentali le persone transessuali hanno portato avanti una riflessione sul rapporto tra sesso e genere e sulle sfumature che questo può assumere in ognuno di noi. Ciò ha spinto la scienza psichiatrica a interrogarsi sulle proprie categorie diagnostiche e a iniziare un percorso che si spera possa condurre alla completa depatologizzazione del transessualismo. I primi passi lungo questa strada hanno visto un riconoscimento del fatto che l’identificazione di genere di una persona possa essere diversa da quella assegnata alla nascita senza che questo sia, di per sé, un indicatore di patologia psichiatrica. Piuttosto la scienza biomedica oggi ritiene che la disforia di genere possa provocare una sofferenza psichica notevole e che dunque le persone transessuali abbiano il diritto di modellare il corpo attraverso la chirurgia estetica e le cure ormonali.
Ma se il genere non è legato per forza al sesso e se alcune persone possono avere in sé sia l’esperienza del maschile che quella del femminile, cosa ci fa credere che il genere sia una identità fissa e immutabile? Gli Inuit attribuivano un genere alla nascita e poi a volte, durante l’adolescenza, esso veniva cambiato. Dunque consideravano che il genere potesse variare lungo il corso della vita individuale. Similmente in Sud Africa vi sono dei sangoma che vivono l’esperienza di essere posseduti da due antenati di sesso opposto e che dunque modellano la propria visione di genere in relazione a quale spirito sia più forte dentro di loro. Il corpo diviene così un luogo abitato da più forze che indirizzano i (o le) sangoma verso una rappresentazione altalenante del genere: a volte maschile e a volte femminile.
Su questo punto è forse importante tornare un attimo tra i Dogon del Mali che ci insegnavano che i bambini nascono androgini, pervasi sia di mascolinità che di femminilità. Essi ritenevano che fosse compito degli adulti scolpire il genere sui corpi dei neonati rimuovendo ciò che di maschile vi era in un corpo femminile (il clitoride) e ciò che di femminile in uno maschile (il prepuzio). I Dogon si arrogavano dunque il diritto di scegliere per il bambino, di sottrarlo all’androginia originaria incidendo il genere sul suo corpo. Seppur noi tradizionalmente non siamo abituati a intervenire sui genitali di un neonato, in fondo seguiamo un processo molto simile: decidiamo che un bambino crescerà come maschio o come femmina, lo educhiamo a questa dicotomia e se ciò non succede lo categorizziamo come malato.
Se ascoltassimo a fondo i Dogon, e la loro esigenza di modellare i corpi, intuiremmo che c’è una questione importante che sta alla base del bisogno di definizione. I bambini, secondo i Dogon, possono contenere dentro di loro sia il maschile che il femminile ma crescendo vengono esposti alla volontà della società che ‘incide’ su di loro un genere costringendoli ad abbandonare l’androginia originaria. Però, come alcuni/e sangoma ci insegnano, vi sono corpi che non amano essere classificati, che vorrebbero poter esprimere liberamente le loro esistenze senza doversi per forza identificare nel maschile o nel femminile. Noi siamo soliti chiamarli, qui in Occidente, transgender: essi sfuggono alle categorie e ci insegnano che in ognuno di noi vi può essere una compresenza di caratteri di mascolinità e di femminilità.
L’esperienza di genere più che un’identità fissa è quindi un viaggio in cui nulla è dato per scontato.

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L’iter di transizione : l’esperienza del SAT del Circolo Pink di Verona http://www.portalenazionalelgbt.it/liter-di-transizione-dello-sportello-sat-servizio-accoglienza-trans-del-circolo-pink-di-verona/ Thu, 26 Jun 2014 07:06:55 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1064 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

In Italia esistono diversi consultori per persone transessuali e transgender gestiti dalle associazioni di volontariato: dopo il primo consultorio avviato dal MIT (Movimento Identità Transessuale) a Bologna nel 1994, nel corso degli anni si sono sviluppate altre esperienze e ad oggi sono sette i consultori autogestiti presenti sul territorio nazionale.
Accanto al Consultorio del MIT ci sono infatti: a Torino lo Sportello Trans Spo.T del Gruppo Luna; a Milano lo Sportello Trans ALA Milano Onlus; a Verona il SAT (Servizio Accoglienza Trans/Transgender) del Circolo Pink; a Torre del Lago (Lucca) il Consultorio Transgenere; a Firenze il Consultorio della Salute dell’Associazione IREOS; a Roma lo Sportello dell’Associazione Libellula.

In questo articolo intendiamo approfondire l’esperienza del SAT, il Servizio Accoglienza Trans/Transgender del Circolo Pink di Verona che in questi anni è diventato un punto di riferimento del Triveneto, sviluppando in modo sistematico – anche attraverso l’avvio di specifiche convenzioni e la formazione di volontari/e – quel lavoro di rete con i servizi e l’associazionismo del territorio che caratterizza l’attività di questa tipologia di consultori. La descrizione delle attività del SAT è anche occasione per presentare come si svolge il percorso di transizione in tutte le sue diverse fasi.
Il SAT nasce con lo specifico intento di dare risposte ai tanti bisogni delle persone transessuali e transgender del Triveneto: in seguito, infatti, alle numerose richieste ricevute da parte di persone transessuali/transgender e constatata l’assenza di servizi pubblici sul territorio veronese specificatamente dedicati a questa tematica, il Circolo Pink (associazione GLBTQE attiva a Verona dal 1985) decide di creare il SAT nel novembre 2011. I principi fondanti del Servizio sono gli stessi che hanno ispirato la più che ventennale attività del Circolo Pink: non solo il riconoscimento dei diritti, nel caso specifico il diritto di essere se stessi/se stesse, ma anche la possibilità di avere un luogo di riferimento, di incontro, di discussione su una condizione, quella delle persone con identità di genere non conforme al proprio sesso biologico, difficile da vivere con serenità nella nostra società. La paura della condanna sociale e religiosa, del rifiuto familiare, della perdita del lavoro, della discriminazione, costringono molte persone transessuali a vivere una condizione di auto-emarginazione, di isolamento e di infelicità.

Per supportare la fase di transizione, il SAT-Pink ha quindi aperto uno sportello di accoglienza e ha attivato diverse collaborazioni con i servizi del territorio: presso il SAT è infatti possibile iniziare attivamente il percorso di transizione, grazie alla presenza e alla collaborazione di specialisti e professionisti quali due psicologhe, un medico endocrinologo per la terapia ormonale e un avvocato per l’assistenza legale (si tratta di collaborazioni formalizzate attraverso la firma di convenzioni sottoscritte da entrambe le parti). L’intervento principale del SAT è stato ed è quello di accogliere gli utenti in un ambiente protetto, non giudicante e rispettoso, dove si possano sentire a proprio agio ed esprimere bisogni e necessità. Tale accoglienza si è anche concretizzata attraverso il gruppo di auto-mutuo-aiuto, uno spazio di confronto tra persone che condividono la stessa esperienza, nonché un’occasione per condividere anche gli aspetti pratici e legati alle dimensioni socio-relazionali. Il gruppo inizialmente è stato facilitato da due volontarie, le quali hanno notato un divario rispetto alla dimensione dell’età e del tipo di transizione (FtM molto giovani con problematiche più legate al vivere con i genitori, alla scuola e al rapporto tra pari; MtF generalmente più adulte con problematiche connesse al lavoro e ad eventuali matrimoni e figli precedenti la transizione), motivo per cui si è valutata la possibilità di formare due gruppi più omogenei rispetto alle tipologie di situazioni da affrontare. Inoltre, il SAT offre un servizio di mentoring, ovvero la possibilità per l’utenza di confrontarsi con chi ha già affrontato il percorso di transizione, in maniera tale da avere supporto da una figura non professionale con la quale si condivide un vissuto e che, dunque, gode di una competenza esperienziale diretta.
Il SAT propone, pertanto, un percorso personalizzato, cercando di rispondere alle richieste e alle singole esigenze: molte di queste persone sono transessuali e transgender che hanno chiesto un aiuto e un supporto concreto per intraprendere l’iter di transizione, ma anche tante/i che cercavano e cercano di capirsi meglio, nonché i loro genitori, amici e parenti. Internet e i contatti personali si rivelano essere la principale fonte di conoscenza del servizio, seguiti dall’invio da parte di altre associazioni sul territorio nazionale.

Da novembre 2011 a novembre 2013, 49 persone si sono rivolte al SAT (a cui si aggiungono 23 accessi da novembre 2013 a maggio 2014), mettendo in evidenza come tale servizio sia un punto di riferimento non solo per la regione: la maggior parte provengono dal Veneto, diverse persone da Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna; le restanti da altre regioni quali Sicilia, Puglia, Liguria e Piemonte. Una delle iniziative recenti del SAT, su stimolo proprio del circolo Pink, riguarda la mappatura e la messa in rete dei servizi che si rivolgono alle persone LGBTI del Veneto al fine di creare dei percorsi preferenziali di invio dell’utenza al SAT.
Delle 49 persone accolte sino a novembre 2013, 16 sono le persone giovani sotto i 25 anni, spesso accompagnate dai genitori. Su tali 49 accessi, 27 risultano presi in carico dal SAT, dove per ‘presa in carico’ si intende un percorso che può prevedere un supporto psicologico o l’inizio dell’iter di transizione e/o della terapia ormonale, la partecipazione al gruppo di auto-aiuto, la consulenza dell’avvocato. Nello specifico, un totale di 11 persone è attualmente seguito per l’iter di transizione, di cui 10 stanno svolgendo il percorso endocrinologico, mentre 5 si sono avvalse della consulenza del legale che collabora con il Servizio. Vediamo ora nel dettaglio qual è l’iter di transizione attivato dal SAT-PINK, ovvero l’applicazione nella città di Verona dello standard sui programmi di adeguamento della disforia di genere fornito da ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere).

1. Analisi della domanda e valutazione dell’eleggibilità

Il SAT, in quanto consultorio autogestito e basato sull’attività volontaria, offre una prima accoglienza per dare ascolto alle problematiche di coloro che si rivolgono al Servizio, garantendo rispetto e privacy. Il SAT è gestito da persone provenienti da vari contesti culturali e con diversi percorsi di studio e di lavoro, e i volontari e le volontarie sono stati/e preparati/e a tale compito grazie ad un corso di formazione della durata di tre mesi. Bisogna riconoscere il ruolo del SAT anche nel fornire informazioni rispetto a persone che si interrogano rispetto al proprio orientamento sessuale o alla propria identità di genere: lo Sportello, infatti, ha valenza di filtro riguardo alle richieste, perché non tutta l’utenza ha la necessità di arrivare alla consulenza psicologica ma, a volte, necessita semplicemente di essere indirizzata rispetto ad esigenze individuali. Il SAT, infatti, offre:

  • informazioni e orientamento (ad esempio, sui centri medici italiani in cui è possibile effettuare la transizione, le associazioni sul territorio che lavorano in questo ambito, locali e o circoli di aggregazione, negozi e centri estetici friendly);
  • ascolto telefonico;
  • incontri con genitori/amici e partner di persone transessuali;
  • gruppo di auto-mutuo-aiuto;
  • momenti di incontro e confronto con persone transessuali e transgender, anche attraverso il servizio di mentoring;
  • informazione legale.

Per poter accedere all’iter di transizione, invece, è necessaria una diagnosi di transessualismo da parte di uno/a psicologo/a, un/a sessuologo/a o uno/a psichiatra, ed esami clinici completi. Per questa ragione, come accennato prima, il SAT ha attivato due collaborazioni con altrettante psicologhe convenzionate con il SSN.

2. Terapia ormonale

In seguito alla diagnosi di transessualismo e ad un adeguato percorso psicologico, specifico caso per caso, si può poi accedere alla terapia ormonale: un/a endocrinologo/a prescrive una terapia farmacologica con ormoni del sesso desiderato con lo scopo di adeguare il più possibile le sembianze fisiche al proprio vissuto psicologico. Si tratta dell’inizio del percorso ‘esteriore’, quello percepito dagli ‘altri’, il cui risultato complessivo è molto soggettivo e dipende dall’età con cui si inizia il percorso di transizione. In questa fase, non viene modificata la struttura ossea, non viene eliminata la barba né cambia il tono di voce nelle donne MtF, e non si elimina il seno negli uomini FtM: al di là quindi della valenza medica o dei risultati conseguiti, la terapia ormonale ha sicuramente degli effetti psicologici in quanto sancisce l’inizio del cambiamento.
Il SAT-Pink ha avviato una collaborazione con un medico endocrinologo che riceve sia in Ospedale, quindi in regime di SSN, sia privatamente. L’accesso all’ambulatorio di endocrinologia (sia pubblico che privato) per l’inizio del trattamento ormonale è successivo e conseguente all’accesso al SAT e al percorso psico-diagnostico, che prevede la formulazione della diagnosi di Disforia di Genere. La prima visita prevede, di norma, la valutazione medico-sanitaria dello stato attuale di salute della persona e la prescrizione degli esami necessari per l’eventuale avvio del trattamento ormonale. Contestualmente alla terapia ormonale, la persona in transizione inizia il periodo chiamato ‘test di vita reale’ nel genere vissuto come più vicino rispetto al proprio interno sentire. Si tratta di un periodo di tempo variabile in cui la persona vive nel genere scelto, confrontandosi con le sfide dettate dall’ambiente esterno e dalla propria percezione di sé.

3. Iter legale – Fase 1

Possiamo suddividere l’iter legale in 2 fasi, una precedente e una successiva alla riassegnazione chirurgica, in cui l’utente è seguito/a da un/a legale, grazie a una convenzione sottoscritta dal SAT con i/le professionisti/e.

Autorizzazione all’operazione chirurgica

Per ottenere l’autorizzazione all’intervento chirurgico, ai sensi della Legge 164 del 14 aprile 1982, si fa ricorso al Tribunale di residenza della persona che sta affrontando l’iter di transizione presentando le relazioni di psicologo/a – psichiatra ed endocrinologo/a: questo compito è interamente svolto dal/la consulente legale. Il Tribunale può accettare le relazioni, o nominare dei periti d’ufficio (a carico dell’utente). Ad oggi, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Una sentenza della Corte Costituzionale, nel 2014, ha però dichiarato l’incostituzionalità della norma che impone lo scioglimento automatico del vincolo matrimoniale in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi. Tale pronuncia è stata confermata dalla Corte di Cassazione, con una sentenza del 21 aprile 2015 (Cfr. “Identità di genere”).

4. Riassegnazione Chirurgica del Sesso (RCS)

La riassegnazione o riconversione chirurgica del sesso, a cui è possibile accedere solo in seguito all’autorizzazione del Tribunale, prevede percorsi diversi per le donne MtF e per gli uomini FtM. Nel caso di soggetti MtF, è possibile accedere alla mastoplastica additiva e, in seguito all’intervento demolitivo, alla vaginoplastica: la prima operazione, considerata estetica, è interamente a carico dell’utente, mentre la seconda può essere effettuata attraverso il SSN. Nel caso di soggetti FtM, invece, l’intervento di mastectomia prevede sia l’asportazione di ghiandole mammarie e seni che il rimodellamento del torace. Per quel che riguarda gli organi sessuali primari, si procede inizialmente all’istero-annessiectomia (asportazione di utero e ovaie), a cui seguono gli interventi ricostruttivi che possono essere di diverso tipo, dalla falloplastica (costruzione del neofallo attraverso l’asportazione di altre parti del corpo del paziente) alla clitoridoplastica (modellamento della clitoride in seguito all’ipertrofia provocata dalla terapia ormonale).

5. Iter legale – Fase 2

Autorizzazione al cambio anagrafico

Con le cartelle cliniche della struttura sanitaria dove è stata effettuata la riconversione, si fa ricorso al Tribunale di residenza per ottenere la rettifica anagrafica, ai sensi della Legge 164 del 14 aprile 1982 e relativi aggiornamenti. Anche in questo caso il Tribunale può accettare la cartella clinica o nominare dei periti d’ufficio (a carico dell’utente). Il Tribunale, con sentenza, ratifica l’avvenuta conversione e ordina all’ufficiale di stato civile di apportare le opportune rettifiche all’atto di nascita.
È bene precisare che solo a fronte del riconoscimento da parte del Tribunale dell’avvenuta modificazione dei caratteri sessuali è possibile ottenere l’adeguamento dei documenti di stato civile, con l’indicazione del nuovo nome e sesso. In questi ultimi anni alcune sentenze hanno però messo in discussione questo principio, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Rovereto (Cfr. “Identità di genere”).

6. Follow up

A garanzia della salute della persona, intesa come benessere complessivo dal punto di vista sia psicofisico che sociale, i/le predetti/e operatori/operatrici si impegnano a garantire la continuità del percorso integrato di sostegno.
Il follow up ha la finalità di verificare le condizioni psico-fisiologiche e l’inserimento socio-relazionale connessi con gli adeguamenti effettuati, e di aiutare la persona ad affrontare i complessi vissuti emozionali conseguenti al percorso di adeguamento. Per quel che concerne la terapia ormonale, è importante sottolineare come sia necessario proseguirla per l’intero arco di vita, motivo per cui la persona dovrà sottoporsi a controlli periodici.
Al momento, tutti i soggetti seguiti dal SAT intendono sottoporsi alla RCS ma, negli intenti dello Sportello, non si esclude la possibilità di progettare un follow up anche per gli/le utenti che desiderano fermarsi alla terapia ormonale nell’ottica, appunto, di un riconoscimento di un percorso e di una affermazione della propria identità di genere indipendentemente dalla RCS.

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DIVERGENTI: l’identità di genere raccontata in un festival di cinema http://www.portalenazionalelgbt.it/divergenti-lidentita-di-genere-raccontata-in-un-festival-di-cinema/ Wed, 25 Jun 2014 11:07:21 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1083 A cura di Mara Pieri, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel 2008 nasceva a Bologna il primo festival di cinema trans italiano, “Divergenti”: da sette edizioni, il festival presenta film internazionali che raccontano l’identità di genere attraverso le sfumature più diverse, portando in Italia autori, autrici e artisti da tutto il mondo, e proponendo al pubblico riflessioni e sfide sempre diverse: ne abbiamo parlato con Luki Massa, direttrice artistica del festival.

“Divergenti” ha appena chiuso la settima edizione: qual è il bilancio per il 2014?

Possiamo fare diversi bilanci. Dal punto di vista della qualità della proposta cinematografica, continuiamo a registrare di anno in anno una maturità sempre maggiore sia in termini di elaborazione dell’esperienza trans che di uso consapevole e comunicativamente efficace del linguaggio cinematografico. Se nelle prime edizioni la chiave vittimistica era quella dominante, sia nelle fiction che, a maggior ragione, nei documentari, adesso l’approccio narrativo è molto più articolato e ampio: storie come quella di Beatrice, protagonista del film “Fuoristrada”, vincitore quest’anno sia del premio del pubblico che del premio della giuria di qualità, ci raccontano un cambiamento che sta già avvenendo, in cui il transessualismo può essere un percorso gioioso e intenso alla ricerca della felicità. Inoltre, anche quest’anno, il riscontro del pubblico è cresciuto ed è aumentata la percentuale di pubblico trans: questo mi fa molto piacere perché coinvolgere le persone trans era fin dall’inizio uno degli obiettivi del festival.

Com’è nato “Divergenti” e come è cambiato nel corso degli anni?

Il festival è nato nel 2008 da un forte desiderio del MIT (Movimento Identità Transessuale): stanche di vedere le persone transessuali in bilico tra l’invisibilità e la stigmatizzazione, tra il pregiudizio e la vittimizzazione nei media e nel cinema mainstream, Marcella Di Folco, Porpora Marcasciano e le attiviste del MIT hanno deciso di creare un festival che contribuisse a riscrivere la storia trans, a far circolare un immaginario del transessualismo più variegato e complesso e a trasmettere la ‘favolosità’ dell’esperienza trans. Per farlo hanno coinvolto me nella direzione artistica e nella scelta dei film, come esperta di cinema, in particolare cinema lesbico e femminista, che aveva un rapporto politico e affettivo molto stretto con il MIT. Nel corso degli anni il gruppo di lavoro è cresciuto, coinvolgendo ragazze e ragazzi trans anche molto giovani. Inoltre sono stati invitati sempre più spesso ospiti internazionali, dai registi alle pioniere del movimento, dai protagonisti dei film alle artiste trans. Una novità degli ultimi due anni è la giuria di qualità formata da giornaliste/i, critiche/i, scrittrici, direttori di altri festival italiani.

Il festival costituisce un’eccellenza italiana: in che modo viene percepito anche all’estero e quali sono i rapporti con altri festival e organizzazioni internazionali?

In Italia Divergenti rappresenta l’unico festival cinematografico a tematica transessuale, transgender e intersex. Le uniche altre due esperienze in Europa sono i festival di Amsterdam e Parigi, con cui abbiamo collaborato in alcune occasioni. All’estero il festival è sicuramente percepito come importante occasione di visibilità del cinema a tematica trans, considerando che sono molto cresciute negli anni le autocandidature di film. Inoltre i progetti europei che il Mit realizza hanno permesso di far confluire nel festival occasioni importanti di confronto internazionale sulle tematiche trans, come ad esempio il workshop su transessualismo e media realizzato lo scorso anno insieme alle e agli attiviste/i inglesi di Trans Media Watch.

“Divergenti” ha contribuito a cambiare il mondo LGBT in Italia: quali sono le sfide per le prossime edizioni?

Il festival ha il merito di aver facilitato l’emersione e la discussione di alcune tematiche importanti all’interno del movimento LGBTQ: penso all’intersessualità così come al dibattito sulla depatologizzazione che proprio quest’anno è stato il focus del Festival. La prima sfida per il futuro è sicuramente quella di continuare a proporre film e eventi culturali di qualità nonostante i tagli alla cultura che ovviamente colpiscono anche noi. Un’altra sfida è quella di portare Divergenti in viaggio per l’Italia, come è già stato fatto quest’anno con “Divergenti Speciale Napoli”.

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