Famiglie plurali – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Famiglie plurali: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/famiglie-plurali-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Fri, 23 Sep 2016 12:48:46 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=5118 A cura di Joëlle Long, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

Nell’ordinamento italiano manca una definizione giuridica unitaria di ‘famiglia’, cioè del nucleo i cui componenti hanno diritto a un trattamento particolare (tendenzialmente premiale) poiché le relazioni interne al gruppo sono ritenute meritevoli di tutela per il loro rilievo sociale.

L’analisi del diritto positivo mostra in effetti che i modelli di famiglia delineati dal legislatore sono plurimi e variano in relazione al contesto di riferimento. Le coppie eterosessuali di conviventi more uxorio possono per esempio accedere alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita (art. 5 legge 40/2004), ma sono escluse dall’adozione dei minorenni abbandonati (art. 6 legge n.184/1983)1. A seguito dell’introduzione delle cosiddette “unioni civili” (legge 20 maggio 2016 n.76, art. 1 c. 11 e ss.), le coppie dello stesso sesso possono godere di un trattamento simile a quello delle coppie coniugate nella relazione “orizzontale” tra i partner , ma non nei rapporti con la prole. Ai fini del ricongiungimento familiare sono considerati ‘familiari’ anche i figli minori del coniuge e i minori sotto tutela (art. 29 TU imm.). Una vecchia norma del codice civile, inoltre, include nella nozione di ‘famiglia’ ai fini dell’individuazione del contenuto del diritto reale di abitazione i prestatori di lavoro domestico conviventi con la famiglia, per esempio colf, tata, badante… (art. 1023 cod. civ.). Infine, nella nozione di ‘famiglia anagrafica’ rilevante per la determinazione della situazione economica di riferimento per l’accesso e la partecipazione ai costi degli interventi e dei servizi sociali (es. asili nido, assegnazione di una casa popolare) sono ricomprese tutte le persone che hanno la stessa residenza anagrafica e sono legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o anche solo da ‘vincoli affettivi’, autocertificati dagli interessati (art. 4 del DPR n. 223/89)2.

Con riferimento specifico alla relazione di coppia, si è sostenuto che la lettera dell’art. 29 comma 1° Cost. («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio») ancori in via esclusiva la nozione di famiglia all’istituto matrimoniale eterosessuale. Secondo l’interpretazione oggi prevalente, tuttavia, la norma ha l’unico effetto di impegnare il legislatore alla tutela dell’unione coniugale tra persone di sesso diverso, senza però precludere la possibilità di interventi legislativi a favore di altri nuclei sociali. Anzi: in forza dell’art. 2 Cost., lo Stato ha il dovere di attivarsi per proteggere i diritti individuali della persona all’interno delle ‘formazioni sociali’, e quindi anche della ‘famiglia’ così come l’individuo sceglie di viverla. In quest’ottica, come già accennato, il legislatore ha riconosciuto alle coppie dello stesso sesso il diritto di formalizzare la loro relazione mediante l’unione civile con conseguenze simili alla celebrazione del matrimonio, pur evitando di qualificare esplicitamente tale unione come “famiglia” (l’art. 1 c. 1 della legge 20 maggio 2016 n.76 la definisce infatti «specifica  formazione  sociale  ai  sensi  degli articoli 2  e  3  della  Costituzione»).Parla invece esplicitamente di vita familiare tra i partner dello stesso sesso la Corte di Cassazione, secondo cui «I componenti della coppia omosessuale… quali titolari del diritto alla ‘vita familiare’ e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche … possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di ‘specifiche situazioni’, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata» (Cass. 4184/2012)4.

Anche per quanto concerne la relazione verticale tra il minorenne e il genitore, la situazione è complessa ed incerta. La giurisprudenza è pacifica nell’affermare che, in forza del principio del migliore interesse del minore, contenuto in nuce nell’art.31 Cost. e poi canonizzato nell’art.3 Conv. ONU dir. infanzia, la condizione di omosessualità non esclude di per sé l’idoneità della persona a svolgere funzioni genitoriali (cfr. in materia di affidamento e diritto di visita a seguito della scissione della coppia genitoriale Cass. civ., sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601; Trib. Genova, 30 ottobre 2013; Trib. Nicosia, ord. 14 dicembre 2010; Trib. Firenze, ord. 10 aprile 2009; Trib. Bologna, decr. 15 luglio 2008). Anzi, una coppia dello stesso sesso è stata ritenuta una preziosa risorsa per l’affidamento familiare di un minore (Trib. min. Palermo, 4 dicembre 2013). Tuttavia, come già accennato, le coppie dello stesso sesso, indifferentemente unite da unione civile o conviventi di fatto, sono escluse dall’adozione dei minori abbandonati e dalla procreazione medicalmente assistita. Malgrado ciò, parte della giurisprudenza di merito, oggi con l’autorevole avallo della Cassazione, ha riconosciuto la genitorialità della coppia dello stesso sesso che abbia perseguito un progetto procreativo comune utilizzando quale strumento  l’istituto dell’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 lett. d legge n.184 del 1983, un tipo di adozione “minore” previsto dal legislatore in tutt’altre situazioni) (cfr. Trib. min. Roma, 30 luglio 2014,confermata da App. Roma, 23 dicembre 2015 e avallata dalla Cassazione con la sentenza n. 12962 del 22 giugno 2016; Trib. min. Roma 22 ottobre 2015 e Trib. min. Roma 23 dicembre 2015). Altri giudici hanno ammesso direttamente o la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero e che indicava i due partner  dello stesso sesso come genitori, conformemente al diritto locale (App. Torino, 29 ottobre 2014). Sempre il principio del migliore interesse del minore è stato poi invocato per garantire, dopo la rottura della relazione di coppia tra i genitori, la frequentazione tra una donna e i figli biologici della compagna che fino a quel momento erano stati cresciuti insieme dalle due donne (Trib. Palermo, 15 aprile 2015 e, sulla medesima vicenda, App. Palermo 31 agosto 2015 che solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 337bis cod. civ. nella parte in cui non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico). Proprio la frammentarietà e la disorganicità del diritto di origine nazionale impongono di prestare particolare attenzione al diritto internazionale, in particolare alla Conv. eur. dir. uomo, così come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo5. Nel corso degli anni, i giudici di Strasburgo hanno infatti delineato con sufficiente precisione la ‘vita familiare’ meritevole di tutela ai sensi dell’art. 8 Conv., nonché individuato un livello minimo di tale tutela. Sebbene la Corte europea tenda a evitare dichiarazioni di principio adottando un approccio casistico e sebbene la mancanza di consensus tra i diversi ordinamenti sulle relazioni di coppia idonee a costituire ‘famiglia’ abbiano indotto per lungo tempo alla cautela, con preferenza per il rinvio agli ordinamenti nazionali, negli ultimi quindici anni i giudici di Strasburgo hanno progressivamente ridotto l’autonomia degli ordinamenti nazionali nel riconoscimento di modelli familiari ‘altri’ rispetto a quello tradizionale della coppia coniugata eterosessuale con figli biologici di entrambi i partner.

Per quanto concerne la relazione di coppia, le ragioni di tale percorso devono essere individuate nell’interpretazione evolutiva del divieto di discriminazioni di cui all’art. 14 CEDU, in particolare sotto il profilo dell’orientamento sessuale6, nonché nella progressiva diffusione tra gli Stati membri del Consiglio d’Europea del diritto delle coppie dello stesso sesso di formalizzare la loro relazione di coppia mediante matrimonio o unione civile (cfr. da ultimo “Oliari c. Italia del 21 luglio 2015” che condanna il nostro Paese per il diniego alle coppie dello stesso sesso della possibilità di formalizzare la loro relazione al fine di fruire di un regime sostanzialmente analogo a quello del matrimonio). Esemplari in questo senso sono le sentenze “Karner c. Austria” (24 luglio 2003) e “X e altri c. Austria” (19 febbraio 2013) che hanno condannato l’Austria per aver trattato in modo ingiustificatamente diverso coppie conviventi omo ed eterosessuali con riferimento rispettivamente alla successione nel contratto di locazione intestato al defunto e all’accesso all’adozione del figlio del partner. La celebre pronuncia “Schalk and Kopf c. Austria” (24 giugno 2010), invece, ha per la prima volta incluso la relazione omosessuale nella vita familiare di cui all’art. 8 Conv. («Data quest’evoluzione [sociale e giuridica] la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione»).

In merito alla relazione verticale tra genitori e figli, il grimaldello per il riconoscimento di modelli familiari “nuovi” è quello, già illustrato con riferimento al diritto nazionale, del principio del migliore interesse del minore. Per esempio, nella controversa pronuncia “Paradiso e Campanelli c. Italia” (27 gennaio 2015) il nostro Paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo per l’allontanamento dalla coppia italiana committente del figlio avuto dalla stessa in Ucraina mediante il ricorso alla maternità surrogata (vietata in Italia) in considerazione del fatto che i ricorrenti erano stati giudicati genitori inidonei per il solo fatto di essersi procacciati il figlio all’estero in violazione delle norme interne sulla procreazione medicalmente assistita.

Infine, un contributo importante alla determinazione della nozione di famiglia viene dal diritto dell’Unione europea. La comune appartenenza all’Unione europea, infatti, impone di ripensare la nozione di ordine pubblico internazionale (che come noto vieta l’ingresso nello Stato del diritto straniero che rischi di produrre nell’ordinamento interno una violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento), anche alla luce della comune appartenenza alla comunità internazionale e soprattutto all’UE che presuppone la comunanza di valori e dei principi fondamentali tra gli Stati membri. Così, la Cassazione, pur negando la trascrivibilità dei matrimoni same sex celebrati all’estero da cittadini italiani, esclude che possa essere invocato il limite dell’ordine pubblico «sia perché altrimenti si determinerebbero effetti palesemente discriminatori in base all’orientamento sessuale, sia perché disposizioni comunitarie ed interne vietano esplicitamente discriminazioni fondate su tale orientamento» (Cassaz. 4184/2012). Isolate pronunce di merito hanno invece ammesso la trascrizione8 o comunque il rilascio del permesso di soggiorno al coniuge dello stesso sesso9. Oltre a ciò, assume rilievo il progressivo riconoscimento, nell’ottica della libertà di circolazione delle persone all’interno dell’Unione (riconosciuta dall’ art. 29 Trattato UE e dagli artt.34 e 45 Carta di Nizza) e per evitare la formazione di situazioni giuridiche claudicanti (cioè produttive di effetti in un ordinamento, ma invalide in un altro), della libertà di circolazione degli status familiari e dunque di un diritto individuale al riconoscimento della posizione giuridica soggettiva acquisita in virtù dei rapporti familiari intrattenuti, pur nel rispetto della competenza dei singoli Stati a definire presupposti e contenuto delle modalità di formalizzazione delle relazioni familiari (cfr. il Reg. n. 2201/2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, ma anche la Direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione delle persone che include tra i familiari «il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante»7).

 

Note:
[1] Un’interessante ricognizione dei diritti dei conviventi etero ed omosessuali è contenuta nel Vademecum dei diritti dei conviventi del Comune di Milano, Milano, 2013.

[2] La disciplina del nuovo ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), peraltro, prevede che il nucleo familiare rilevante ai fini dell’ISEE possa variare considerando anche persone esterne alla famiglia anagrafica (il coniuge che non abbia la stessa residenza anagrafica, i figli della persona non autosufficiente anche se non convivano con la stessa, il genitore non convivente nel nucleo, non coniugato con l’altro genitore e che abbia riconosciuto il figlio), salvo il caso in cui i servizi sociali attestino che tali soggetti sono estranei in termini di rapporti affettivi ed economici (DPCM 5 dicembre 2013 n. 159).

[3] In senso sostanzialmente analogo si esprime Corte cost. 170/2014.

[4] Conforme Cass. civ. 8097/2015 che – pronunciandosi sulla stessa vicenda di Corte cost. 170/2014 – parla di «nucleo affettivo e familiare» (corsivo aggiunto) con riferimento a una coppia di donne, sposatesi prima che una delle due intraprendesse il percorso per la rettificazione del sesso da maschile a femminile, che chiedevano di rimanere coniugate, malgrado il divorzio loro imposto ex lege in conseguenza della rettificazione.

[5] Numerose altre fonti di origine extranazionale riconoscono agli individui «il diritto al rispetto della vita familiare»: l’art. 12 Dich. univ. dir. uomo; l’art. 17 Patto int. dir. civ. e pol.; l’art. 7 (che ricalca l’art. 8 CEDU) e l’art.33 (che protegge la famiglia «sul piano giuridico, economico e sociale») Carta di Nizza. Il particolare interesse per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è dato dell’efficace sistema di controllo e sanzione delle violazioni previsto dalla Convenzione stessa e, soprattutto, dal dinamismo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

[6] Secondo i giudici europei, le differenze motivate unicamente da considerazioni relative all’ orientamento sessuale sono inaccettabili e le differenze basate sull’orientamento sessuale devono essere giustificate da motivi impellenti o, altra formula utilizzata a volte, da «ragioni particolarmente solide e convincenti» in quanto il margine di apprezzamento degli Stati è limitato. Anche l’Unione europea è stata negli anni molto attiva sul fronte della lotta contro le discriminazioni sulla base del sesso, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere (vd. da ultimo il cosiddetto “Rapporto Lunacek”, che delinea una tabella di marcia «contro l’omofobia e la discriminazione, legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere», sollecitando la Commissione a lavorare per «il riconoscimento reciproco degli effetti di tutti gli atti di stato civile nell’Unione europea, compresi i matrimoni, le unioni registrate e il riconoscimento giuridico del genere, al fine di ridurre gli ostacoli discriminatori di natura giuridica e amministrativa per i cittadini e le relative famiglie che esercitano il proprio diritto di libera circolazione»). L’impatto del suo contributo alla rimeditazione della nozione di famiglia è stato tuttavia a oggi assai più limitato di quello della Corte europea dei diritti dell’uomo.

[7] In senso analogo si esprime la Direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare il cui art. 4 rimette agli Stati membri di consentire il ricongiungimento anche al ‘familiare’ che sia «partner non coniugato… che abbia una relazione stabile duratura debitamente comprovata… , o… legato… da una relazione formalmente registrata».

[8] Trib. Grosseto, ord. 3 aprile 2014.

[9] Trib. Pescara, ord. 15 gennaio 2013; Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012.

]]> Sessualità plurali: breve viaggio storico del farsi sociale della sessualità http://www.portalenazionalelgbt.it/sessualita-plurali-breve-viaggio-del-farsi-sociale-della-sessualita/ Fri, 06 Feb 2015 11:14:16 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2547 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nelle vicende della civiltà occidentale cristiana, la sessualità degli individui è stata per lungo tempo una dimensione silenziosa autorizzata alla parola unicamente all’interno di un codice morale, a sua volta espressione di un consolidato orientamento dottrinale in cui l’unica relazione intima lecita di coppia era costituita da rapporti eterosessuali, vissuti rigorosamente entro i confini del matrimonio e finalizzati esclusivamente alla procreazione. Tutto ciò che si collocava al di fuori di questo rigido scenario – l’omosessualità, le relazioni al di fuori del vincolo coniugale, le pratiche erotiche non orientate alla riproduzione – rappresentava un pericoloso dis-ordine etico e sociale inconciliabile con quel modello tradizionale di società ritenuto il solo in grado di rispettare l’ordine divino e garantire la salvezza dell’anima.

Dalla seconda metà del 1800 al discorso religioso ha cominciato ad affiancarsi il discorso medico che sottrasse la sessualità dall’ambito della morale per consegnarla alla Scienza. I neo-nati studiosi di sessualità cominciarono a sviluppare un nuovo linguaggio scientifico per catalogare e valutare il comportamento sessuale e per trovare motivazioni ‘scientificamente fondate’ alle diverse forme con cui esso si esprime. Un testo che esprime in pieno lo spirito dell’epoca è “Psycopathia Sexualis”, pubblicato nel 1886 dallo psichiatra austro-tedesco Richard von Krafft-Ebing, dove l’autore – attraverso l’analisi delle biografie sessuali dei suoi pazienti – offre una catalogazione di diverse pratiche sessuali, dal feticismo fino ai rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso, identificandole come patologie.

Letto con gli occhi del XXI secolo, il sessismo, l’omofobia e l’ingenuità delle argomentazioni ‘scientificamente fondate’ con cui Krafft-Ebing analizza i comportamenti dei suoi pazienti possono finanche strappare un sorriso. Restano tuttavia emblematiche del passaggio from badness to sickness – come l’hanno definito nel 1980 Peter Conrad e Joseph Schneider nell’omonimo libro – ovvero di quel passaggio dalla concezione morale dei comportamenti sessuali ad una loro concettualizzazione come malattia.

Non si trattò, chiaramente, di un passaggio moralmente neutro, anzi, medici e psichiatri dell’epoca tradussero in termini scientifici la medesima concezione morale della sessualità di stampo religioso al cui apice della gerarchia era collocata l’eterosessualità generativa; in questo caso, non in quanto comportamento moralmente giusto, ma in quanto unico comportamento fisiologicamente sano.

Se possiamo trovare un aspetto positivo alla nascita del paradigma medico è quello di aver sottratto la sessualità dall’ambito esclusivo del privato e della religione e di aver aperto un varco per farne oggetto di discorso pubblico. Dovremo, tuttavia, aspettare il novecento perché le scienze sociali (e non mediche) comincino ad interessarsi di corpi e di sessualità e a definirli come il prodotto di una costruzione sociale le cui rappresentazioni e le cui pratiche variano al variare dell’organizzazione e del contesto sociale (Sassatelli, 2002).

Ad iniziare questo percorso furono i sociologi della Scuola di Chicago, ovvero gli studiosi che negli anni ’20 del novecento si ritrovarono al Dipartimento di Sociologia e Antropologia della Chicago University. Obiettivo scientifico complessivo della Scuola di Chicago era studiare la città metropolitana come emblema delle trasformazioni e degli assetti della società contemporanea attraverso un approccio ecologico che prendeva in considerazione le storie di vita dei singoli individui, la collocazione degli individui all’interno della propria comunità di riferimento e il ruolo che la comunità (ovvero la società nel suo complesso) giocava tanto nell’elaborazione dei comportamenti quanto nella visione che gli attori sociali avevano degli stessi, come normali o devianti, leciti o illeciti, positivi o negativi.

Entro questo più ampio progetto sociologico, gli studiosi di Chicago dedicarono attenzione anche allo studio della sessualità e delle identità sessuali nello scenario urbano. Robert Park (1925) nel suo famoso studio sulla città identificò delle ‘regioni morali’ ovvero degli spazi urbani dove gli individui si ritrovano attorno a medesimi desideri, pratiche o identità sessuali costruendo il proprio ‘mondo sociale’ o, come verrà chiamata in seguito, ‘subcultura sessuale’, senza che essa si identificasse o dovesse essere identificata come immorale o patologica. Nascono così i primi studi sui luoghi di incontro tra uomini dove il fuoco d’analisi non è il giudizio morale sui comportamenti, ma il comprendere le regole e le pratiche sociali che la comunità gay studiata si era data per identificarsi e costruirsi in quanto comunità. Seppur, dunque, spesso nelle parole dei sociologi di Chicago riecheggi il linguaggio ereditato dalla psicanalisi freudiana e dalla sessuologia clinica e la loro cornice di riferimento resti la nozione di devianza, è a loro che dobbiamo la consapevolezza che le pratiche e le identità sessuali sono il frutto delle interazioni sociali tra gli individui e che come tali – non come caratteristiche innate e intrinseche degli individui – devono essere analizzate.

Vent’anni dopo, non troppo lontano da Chicago, all’Università di Bloomington nell’Indiana, il biologo Alfred Kinsey diede il via alla ricerca destinata a destabilizzare una volta per tutte la nozione di sessualità sia come terreno della morale che come ambito della malattia per restituirla alla pluralità delle esperienze, delle pratiche e delle identità umane.

Kinsey non nasce come studioso di sessualità, ma come esperto nella tassonomia e analisi delle vespe delle galle su cui realizzò negli anni venti il suo dottorato di ricerca ad Harward. Arrivato come professore all’Università dell’Indiana, tuttavia, decise di allargare il suo campo di studi alla sessualità umana applicando il medesimo metodo empirico utilizzato in precedenza per gli insetti: raccogliere prove sul campo, verificare di prima persona, catalogare le diverse evidenze raccolte.

Iniziò così la sua ricerca sulla sessualità negli Stati Uniti dapprima facendo compilare questionari sui loro comportamenti sessuali agli studenti e alle studentesse che frequentavano il corso “Marriage and the Family” istituito nel 1938 e, successivamente, attraverso la realizzazione di 18.000 interviste in profondità con uomini e donne adulti residenti in ogni angolo degli Stati Uniti grazie ai contributi economici ottenuti tra il 1941 e il 1947 dal Committee for Research in the Problems in Sex finanziato dalla Fondazione Rockfeller.

Per l’America dell’epoca, che viveva in pieno maccartismo e conservatorismo sociale, la pubblicazione dei volumi “Sexual Behaviour in the Human Male” (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948) e “Sexual Behaviour in the Human Female” (Il comportamento sessuale della donna, 1953) furono un vero e proprio shock culturale. Il cosiddetto “Rapporto Kinsey” – come vengono informalmente chiamati i due volumi – restituiva uno scenario di comportamenti e pratiche sessuali ben diverso da quello considerato ‘naturale’ e, dunque, socialmente accettabile nel discorso pubblico: la masturbazione, i rapporti pre-matrimoniali, il sesso orale così come l’omosessualità risultarono diffusi in percentuali estremamente significative nelle esperienze di vita degli intervistati tanto da mettere in discussione l’esistenza stessa di una ‘normalità’ sessuale. Ed in questo caso – diversamente dagli studi condotti dalla scuola di Chicago – non si trattava di un’analisi su gruppi sociali categorizzabili come devianti, ma di un campione estremamente ampio di americani e americane appartenenti sia a diverse classi sociali che a diversi gruppi etnici.

Tra i molteplici risultati di ricerca prodotti dallo studioso ed i suoi collaboratori, particolare risalto ha avuto la cosiddetta ‘scala di Kinsey’ ovvero uno strumento di valutazione per identificare l’orientamento-sessuale degli individui. Analizzando le esperienze e le fantasie di uomini e donne, Kinsey si rese conto che le categorie di eterosessuale ed omosessuale – fino ad allora considerate come attributi dicotomici e oppositivi dell’identità (l’una naturale, l’altra patologica) non erano efficaci per descrivere l’estrema variabilità di posizionamenti che gli individui potevano assumere nel corso della loro vita, ma che l’orientamento sessuale si articola su un continuum che, sebbene abbia l’omosessualità e l’eterosessualità esclusiva ai suoi estremi, prevede moltissimi posizionamenti intermedi. Come afferma lo stesso Kinsey: «gli uomini non sono divisibili in due popolazioni discrete, l’eterosessuale e l’omosessuale. Il mondo non deve essere diviso in pecore e capre … Il mondo vivente è un continuum in ognuno di questi aspetti».

Sebbene Kinsey non avrebbe utilizzato queste parole, possiamo sostenere che da allora va consolidandosi una visione della sessualità come costruzione sociale che trovò espressione compiuta a partire dagli anni ’60, complice anche la nascita del femminismo e del movimento LGBT. Le pratiche e le identità sessuali che parevano essere un dato immutabile nel tempo vengono da allora interpretate come il prodotto di precise configurazioni storiche sottoponendo a critica le nozioni di normalità e devianza sessuale e cominciano ad essere oggetto di analisi subculture sessuali che si pongono al di fuori dalle norme sociali sulla sessualità. Si impone la visione secondo cui gli atti sessuali e i partner sessuali, così come tutti i s/oggetti con cui gli esseri umani entrano in relazione, sono oggetti sociali e che, dunque, essi assumono il significato che gli individui di precisi gruppi gli attribuiscono, piuttosto che avere un significato ‘naturale’ che precede e indirizza i comportamenti sessuali (Gagnon e Simon, 1973 ).

La nascita di questo nuovo paradigma interpretativo ha permesso di spostare lo sguardo sociologico dalle cosiddette ‘minoranze sessuali’ verso ‘la maggioranza’ e di analizzare le pratiche e le istituzioni che nel corso dei secoli hanno naturalizzato l’eterosessualità, rendendola la categoria sessuale e identitaria dominante portando così alla marginalizzazione di tutte le altre espressioni sessuali e affettive degli individui (Katz, 1995 ).

Bibliografia

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E dove si trova l’amore, se non in un romanzo? http://www.portalenazionalelgbt.it/e-dove-si-trova-lamore-se-non-in-un-romanzo/ Fri, 06 Feb 2015 11:05:58 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2438 A cura di Margherita Giacobino, saggista e traduttrice.

Nel 1981 la studiosa americana Lillian Faderman pubblicò un bel libro (in parte tradotto in italiano parecchi anni dopo nel volume “Una storia tutta per noi”) il cui titolo “Surpassing the Love of Man” era una citazione dalla Bibbia, laddove si parla dell’amore tra i due amici Davide e Gionata, che «supera l’amore delle donne». Faderman vi esaminava i rapporti di affettività e amore tra donne che, appunto, ‘superavano l’amore degli uomini’, ovvero erano più forti dei convenzionali legami di coppia eterosessuale. Il lavoro di Faderman copre un arco che va dal sedicesimo secolo, inizio dell’età moderna, fino agli anni Settanta del Novecento e ricostruisce i modi in cui è stato rappresentato in letteratura l’amore tra donne: ora demonizzato, ora ridicolizzato, ora trattato come una bizzarria di natura, immancabilmente visto attraverso occhi maschili in quei secoli in cui la scrittura pubblica è privilegio, appunto, del maschio.

Ma presto anche le donne cominciano a scrivere per un pubblico, e lo fanno dapprima timidamente e magari sotto pseudonimo nel Seicento, più arditamente nel Settecento – tanto da far pensare che siano state proprio le donne, con il loro interesse per le vicende private, il sentire, i rapporti interpersonali, a fondare il romanzo moderno, quello che si occupa soprattutto di raccontare lo sviluppo psicologico dei personaggi e le loro vicende personali. Se le donne per secoli sono ritenute a malapena soggetti (la ‘costola di Adamo’ resta a lungo priva di diritti civili e politici, e del diritto di parlare per sé in pubblico), con l’emancipazione che prende l’avvio nell’Ottocento le cose cambiano. In letteratura come nella vita, le donne, soprattutto quelle che hanno potuto studiare e coltivare un sogno di indipendenza, a volte fanno scelte alternative a quella della famiglia patriarcale, e focalizzano i loro affetti su altre donne. Quella che Faderman definisce ‘amicizia romantica’ è una modalità di rapporto che unisce molte coppie di amiche nell’Ottocento; si tratta di un legame molto forte, in cui non sempre la sessualità è vissuta, o riconosciuta come tale, ma viene comunque affermato il diritto e il bisogno di un dialogo privilegiato, a livello affettivo come intellettuale, con altre donne. Nel Novecento sarà la psicanalisi, con la sua enfasi sulla sessualità onnipresente nella vita e nei rapporti, a determinare la condanna sociale di questi rapporti di amicizia amorosa, oggetto di una nuova demonizzazione: le donne che preferiscono la compagnia di altre donne a quella dell’uomo sono ora trattate come malate, devianti, perverse. Bisognerà arrivare alla seconda grande ondata di femminismo, quella che comincia negli Stati Uniti negli anni Sessanta e travolge tutto il mondo occidentale, per cominciare a smantellare l’interdetto della società. Da allora, i movimenti femministi, giovanili, omosessuali e poi queer, determinano progressivi mutamenti nel sentire collettivo e nell’immagine dell’omosessualità femminile, come di quella maschile, della transessualità, del transgenderismo e di ogni posizionamento ‘anomalo’ nella sfera del genere e della sessualità. Ma il femminismo non è solo rivendicazione di libertà individuale: spesso, il suo pensiero va più in profondità, rendendosi conto che i diritti individuali non bastano, e non sono mai al sicuro, se non sono parte di una più grande rivendicazione dei diritti di tutti coloro che sono, in qualunque modo e misura, oppressi da un potere che li esclude, limitati da definizioni che li negano o li sviliscono.

Fino a qualche decennio fa, una giovane donna che andasse alla ricerca di storie di affettività e sessualità fra donne aveva grande difficoltà nel trovarne una che non fosse punitiva o catalogata come ‘vietata ai minori’. I personaggi di finzione che osavano sfidare l’interdetto patriarcale andavano incontro a solitudine, pazzia, suicidio e consimili happy end. Questo avveniva, naturalmente, molto più in letteratura che nella vita vera: nella realtà, donne che hanno vissuto felicemente, e qualche volta perfino apertamente, rapporti d’amore con altre donne sono esistite in varie epoche – ma poiché le storie che si raccontano sulla carta sono sempre soggette a censure maggiori di quelle che si vivono, spesso le vicende ritenute anomale vengono cancellate dalla memoria. Oggi per fortuna le cose stanno cambiando, e sono reperibili molti romanzi, saggi, biografie che esplorano l’affettività e la sessualità lesbica.
Tuttavia, pur tra censure di ogni tipo, scrittrici che hanno osato affrontare l’interdetto ce ne sono state fin dai primi del Novecento. Le più vicine a noi sono vissute in Francia, come la poeta Renée Vivien (nom de plume dell’inglese Pauline Tarn, che si stabilì a Parigi giovanissima), la prima a scrivere versi apertamente ‘saffici’, ovvero ispirati all’antica poeta greca Saffo, che celebrò l’amore per le fanciulle e la bellezza della vita in una comunità femminile. Personaggio di grandissimo interesse, colta, eccentrica, viaggiatrice, Renée Vivien dilapidò la sua vita in forme non molto diverse da quelle che potrebbe usare oggi una diva rock: alcol, droga, anoressia. Fu amante di Natalie Clifford Barney, una ricca americana, grande seduttrice e mecenate di artiste, che stabilì a Parigi un salon in cui si riuniva la mondanità intellettuale della capitale, e che fu frequentato anche dalla grande scrittrice Colette (che conosceva bene gli amori ‘irregolari’ e ne parlava in alcuni suoi scritti). Faceva parte della cerchia di Barney anche l’americana Djuna Barnes, che prima di arrivare a Parigi aveva vissuto a Berlino (altra città dove prosperò, fino all’avvento del nazismo, una cultura alternativa lesbica e gay), e che fu autrice di “La foresta della notte”, un elegante e difficile romanzo sugli amori tra due donne, Nora e Robin, in cui si rispecchia la vicenda autobiografica della stessa Barnes.
Gli anni Venti furono, in Europa come negli Stati Uniti, quelli della massima libertà di costume e di espressione, e diedero vita a vivaci sottoculture alternative. Ma il solo libro a tematica lesbica pubblicato in quegli anni che oltrepassò tutte le frontiere, suscitando enorme attenzione e scandalo, fu “Il pozzo della solitudine”, dell’inglese Marguerite Radcliffe Hall. Il romanzo racconta di Stephen, un’aristocratica che si sente più maschio che femmina, attratta dalle donne, che alla fine rinuncia a un amore appagante e corrisposto con la giovane Mary per non esporre quest’ultima alla condanna sociale. L’autrice, da parte sua, fu ben lontana dal fare questo sacrificio, e visse apertamente i suoi legami con donne. Il suo libro fu, per decenni, l’unico testo lesbico a diffusione mondiale – portavoce e simbolo non tanto dell’infelicità obbligatoria di chi fa scelte diverse, quanto dell’ipocrisia che esige che queste scelte non siano riconosciute come possibili o perfino felici.

Nel frattempo il clima politico si faceva più pesante, con i totalitarismi in Europa e la grande depressione in America. Le libertà individuali, prima fra tutte quella di espressione, si restringevano sempre di più, facendo posto a un soffocante controllo e conformismo. Ancora dopo la guerra, negli anni ’50, di omosessualità non si poteva parlare se non in termini negativi, come di uno stile di vita perverso, e perciò oggetto di condanna ma anche di grande, morbosa curiosità. Per questo negli Stati Uniti fioriva una sottoproduzione letteraria detta pulp, dal tipo di carta da poco prezzo che si usava per la stampa, nella quale figuravano spesso anche personaggi di donne ‘perdute’ e ‘viziose’: era l’epoca dell’ ‘amore che non osa dire il suo nome’, e delle vere e proprie persecuzioni contro gli omosessuali messe in atto dallo stato americano. Tuttavia anche allora voci discordanti si facevano sentire: nel 1952 la giovane scrittrice Patricia Highsmith, che poi diventerà famosa come giallista, pubblica il romanzo “The Price of Salt”, più tardi ripubblicato con il titolo di “Carol”. E’ la storia di due donne coraggiose e avventurose che sfidano l’interdetto sociale e affermano il loro amore; ma Highsmith lo pubblicò con uno pseudonimo, per non rovinarsi la carriera di scrittrice. Il libro conobbe un grande successo e ancora oggi è ristampato e letto in tutto il mondo, e ha ispirato il film omonimo di Todd Haynes.

Bisogna arrivare agli anni Sessanta, dopo la guerra e la ricostruzione, perché nuove voci si levino apertamente a sfidare le convenzioni. Non è un caso che questo accada di nuovo in Francia, dove l’esistenzialismo esaltava, fin dalla liberazione di Parigi, le scelte individuali. Nel 1966 esce a Parigi “Thérèse et Isabelle”, di Violette Leduc, un piccolo libro che contiene la storia d’amore tra due liceali, parte di un romanzo autobiografico pubblicato qualche anno prima, ma censurato nei suoi aspetti ritenuti più crudi e improponibili. Violette Leduc, donna e scrittrice di assoluta originalità, è forse la prima nella cultura europea a conferire status letterario alla scrittura dell’eros, sottraendola al sottogenere della pornografia. Scrittrice autentica e perciò non facile, Leduc fu una grande irregolare: bisessuale, si innamorava di donne etero o di uomini gay, conosceva quindi bene gli amori infelici, ma le sue storie sfidano il moralismo e raggiungono spesso l’altezza della poesia, e il suo coraggio fa di lei una precursora. Anni dopo, la scrittrice americana Kate Millett (autrice di romanzi di grande successo negli anni ’70 e ’80) dirà: «Non avrei potuto scrivere In volo se prima di me non ci fosse stata Violette Leduc. … Penso che ‘uscire dall’armadio’ mi abbia dato la possibilità di vivere la mia vita … mi ha fornito l’occasione di restare povera e non rispettabile. Non essere rispettabile è la cosa più importante. La rispettabilità è un disastro»1.
Come già detto, gli anni ’60 e ’70 segnano l’inizio di un’epoca nuova. I neri, le donne, i giovani, gli omosessuali, tutte le cosiddette minoranze, reclamano diritti e libertà, prendono la parola. È una rivoluzione pacifica, ovviamente difficile, e le sue conquiste non sono mai sicure, ma è di grande importanza. Uno degli effetti del femminismo è che si apre, nel mondo occidentale, un grande spazio di discussione ed espressione sulla sessualità, l’affettività, il corpo, l’eros. La letteratura ovviamente gioca in questo una parte di rilievo. Le voci più importanti che si levano a esplorare e celebrare l’amore tra donne vengono dall’America, e tra esse segnalo in particolare quelle di Adrienne Rich e Audre Lorde, che scrissero entrambe sia in versi sia in prosa. Le due scrittrici, che nella vita personale furono grandi amiche e trassero forza dal confrontarsi una con l’altra, erano l’una (Rich) bianca e di ascendenza ebraica, l’altra (Lorde) nera, figlia di migranti caraibici. Qui si comincia veramente a comprendere come un vero discorso sull’affettività e la sessualità tra donne comporti un allargamento di orizzonti e non possa prescindere dalla presa in considerazione di altre differenze (di razza, classe, cultura, età, religione ecc…) Quello che emerge dagli scritti di Rich e Lorde è la consapevolezza che, nel momento in cui una donna osa sottrarsi alle norme sociali che le impongono di pensare a se stessa soltanto in relazione all’uomo (come moglie, compagna, madre, o anche come eguale dell’uomo in senso acriticamente emancipatorio), allora scopre un intero mondo dentro di sé e nelle altre, un mondo fatto di differenze, che possono anche essere difficili da affrontare, ma che sono portatrici di ricchezza. L’amore e la sessualità non sono più il mitico e mistico ‘realizzarsi’ nell’unione con l’uomo, in cui la donna gioca il ruolo passivo di recipiente della pienezza e attività maschile, bensì diventano libertà, scoperta, creazione di nuovi linguaggi che possano superare i vecchi conflitti e le vecchie paure.
Audre Lorde è stata una figura importante nei movimenti americani per la liberazione delle donne, dei neri, degli omosessuali. Il suo lavoro, recentemente tradotto in italiano, è per molti versi anticipatore di problemi e questioni che stiamo affrontando anche oggi. «L’erotico – dice Audre Lorde – è stato spesso definito in modo erroneo dagli uomini, che lo hanno usato contro le donne. E’ stato ridotto a un insieme di sensazioni confuse, triviali, psicotiche e plastificate … (e) l’abbiamo confuso con il suo opposto, il pornografico. Ma la pornografia è la negazione diretta del potere dell’erotico, perché rappresenta la soppressione del sentire autentico. … L’erotico si colloca tra l’inizio del nostro senso di sé e il caos del nostro sentire più profondo. E’ un senso di soddisfazione interiore al quale, una volta sperimentato, sappiamo di poter aspirare. Perché dopo aver sperimentato la pienezza di questo sentire profondo e averne riconosciuto il potere, noi non possiamo, in onore e rispetto di noi, pretendere di meno da noi stesse. … In contatto con l’erotico, io divento meno disponibile ad accettare l’impotenza, o quegli altri stati dell’essere che mi vengono messi a disposizione ma non sono connaturati a me, come la rassegnazione, la disperazione, la cancellazione di sé, la depressione, l’auto-negazione»2. Nella sua narrazione autobiografica “Zami”, Lorde racconta i suoi primi venticinque anni di vita, i conflitti con la madre, il senso di non appartenenza a nessun gruppo, la scoperta dell’amore per le donne e della sessualità come momenti fondanti della sua integrità e libertà.
Se la grande ondata di femminismo americano degli anni ’70 produce molta letteratura che esalta le qualità positive dell’amore e dell’amicizia fra donne, non mancano però le voci che mettono l’accento sui problemi e i conflitti, sulla violenza che spesso le donne subiscono e su quella che può esistere anche all’interno dei rapporti più importanti della nostra vita, con i genitori, con le persone amate. Tra le autrici che meglio hanno dato voce a queste tematiche è Dorothy Allison; la sua scrittura è forte, coraggiosa, autentica: «Credo che il segreto dello scrivere sia che la miglior fiction arriva fin dove arriva il coraggio dello scrittore, e non oltre. – dice Allison – La miglior fiction viene dal luogo dove si nasconde il terrore, dall’orlo dei vostri peggiori incubi. … Io non scrivo per gente perbene. Io non sono una persona perbene. Né lo sono quelli di cui mi importa nella vita»3.

In Inghilterra, l’amore lesbico fa ufficialmente il suo rientro nel mainstream letterario, dopo “Il pozzo della solitudine”, negli anni ’90 con Jeannette Winterson, il cui primo libro, “Non ci sono solo le arance”, è il racconto grottesco, divertente e doloroso della scoperta di sé da parte di un’adolescente, dei suoi primi amori per altre ragazze e del terribile conflitto con una madre che professa una religiosità feroce e repressiva. Il tabù che imponeva di non parlare di ‘certi argomenti’ si sgretola rapidamente, e presto le scrittrici introducono personaggi e tematiche lesbiche nei romanzi, soprattutto quelli definiti di genere: il giallo (cito soltanto la norvegese Anne Holt, la cui protagonista è una detective tostissima che ama le donne), il romanzo storico (basti pensare a Sarah Waters, le cui gotiche, o barocche, trame girano spesso attorno ad amori tra donne).

Contemporaneamente, personaggi omosessuali, uomini e donne, o transessuali, cominciano ad apparire nel cinema e nelle fiction televisive. Questo non significa che di amore e sessualità tra donne si possa ormai parlare tranquillamente, soprattutto in Italia, né tantomeno che si sia detto tutto, e spesso accade che i libri che trattano questo argomento vengano considerati in una categoria a parte, riservata a un pubblico di nicchia: in altre parole, mentre dalla lettrice lesbica o dal lettore omosessuale o transessuale ci si aspetta che sia in grado di cogliere l’universale in una storia d’amore etero (per esempio, commuoversi per Romeo e Giulietta), il lettore etero o i critici che ne sono portavoce fanno a se stessi il torto di ritenersi molto meno capaci di attingere all’universale che può essere contenuto in una storia d’amore non eterosessuale.
Forse le cose stanno cambiando, pur in modo molto conflittuale. Da un lato si pensa, si legge, si parla, si vive, con più libertà, apertura e considerazione per gli altri – ma ci sono anche sacche di resistenza molto forti, arroccamenti a volte profondamente ipocriti su una ‘morale’ della condanna e dell’esclusione – e c’è, naturalmente, la presenza molto vicina a noi di ideologie e religioni che rifiutano quelle che per noi sono conquiste e manifestazioni di libertà. Forse perché risente maggiormente di queste contraddizioni, e perché le donne italiane non possono contare su una forte storia di emancipazione, l’Italia non ha dato molti contributi letterari su questi argomenti.
Tra le scrittrici italiane, ricordo Sara Zanghì, che si distingue per il tono caloroso e coraggioso della sua scrittura, e che nel volume a carattere autobiografico “Nebris” racconta la storia della giovane Tonia, che sceglie la fedeltà a se stessa anche a costo di sentirsi ‘sbagliata’ agli occhi degli altri, e sente in sé un rifiuto irriducibile a parlare il linguaggio della normalità eterosessuale così come quello della connivenza con la propria classe sociale. Quando infine si innamora di una compagna d’università, Rosa, l’accettazione è immediata e totale: «Ho creduto di non essere capace di amare, fino a quando mi sono innamorata di Rosa – dice Tonia alla madre – … non avevo mai pensato di potermi innamorare di una donna … e sai qual è stata la prima reazione? Di felicità, di pura felicità.»
Per alcuni anni a partire dal 2003, Mondadori ha pubblicato la raccolta “Principesse Azzurre”, curata da Delia Vaccarello e dedicata proprio al tema dell’amore tra donne, a cui hanno contribuito scrittrici italiane affermate ed esordienti. Oggi le lettrici che desiderino trovare libri che parlino di amicizia, amore e sesso tra donne hanno, anche in Italia, molte più opportunità che in passato; ma consiglio loro di non fermarsi ai romanzi che suscitano la sensazione di un momento, e di andare a cercare queste altre scrittrici di cui ho parlato, voci forse meno immediate, ma spesso più profonde e risonanti.

Note:
[1] Rivista “Masques”, autunno 1982, intervista a Kate Millett
[2] Da: “Usi dell’erotico. L’erotico come potere” in Lorde, A. (2014), Sorella Outsider, Il Dito e La Luna
[3] Da: “Survival Is The Least Of My Desires” (“La sopravvivenza è l’ultimo dei miei desideri”), in Allison, D. (1994), Skin

Bibliografia

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La visibilità dell’amore tra uomini: per una biblioteca contro l’omofobia http://www.portalenazionalelgbt.it/la-visibilita-dellamore-tra-uomini/ Thu, 05 Feb 2015 08:21:33 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2601 A cura di Francesco Gnerre, insegnante e saggista.

Fin dall’Ottocento, quando ancora non era stato coniato il termine ‘omosessualità’, i primi teorici della liberazione omosessuale hanno cercato nei libri e nella cultura del passato, una prima legittimazione del proprio orientamento e dei propri comportamenti. Tra Ottocento e Novecento sono nate così le prime antologie sull’amore tra uomini che raccoglievano testi degli antichi Greci, i sonetti di Michelangelo o di Shakespeare, le poesie di Rimbaud e Swinburne, fino a Byron e Platen (Zanotti, 2006). Si trattava di iniziare a costruire una tradizione in cui riconoscersi, perché il confronto con la storia e con l’immaginario giocano un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità degli individui e gli omosessuali, nell’immaginario culturale dominante, trovavano solo la loro negazione. Non avere una storia e una cultura con cui confrontarsi è come non esistere, come guardarsi allo specchio e non vedere nulla.

Dalle prime antologie, dello svizzero Heinrich Hossli, del tedesco Magnus Hirschefeld, dell’inglese Edward Carpenter, si passa negli stessi anni ad una rappresentazione più concreta dell’amore che ancora ‘non osa dire il suo nome’. Tuttavia spesso i libri che trattavano di omosessualità, soprattutto se caratterizzati da una visione liberatoria, non venivano pubblicati e, anche quando non interveniva una censura esterna, erano gli autori stessi ad autocensurarsi. Oggi, nella prospettiva di costruire una tradizione e una storia degli omosessuali, appare sempre più importante dare voce a chi è stato costretto a tacere e far emergere dal silenzio del passato le numerose testimonianze che la storia ufficiale ha taciuto o nascosto.

Tra queste voci è esemplare quella di Luigi Settembrini. Luigi Settembrini (1813-1876), come tutti gli omosessuali vissuti in periodi di forte repressione, nascondeva i suoi reali interessi affettivi e sessuali, ma ha avuto il coraggio di lasciarci un importante libricino, “I Neoplatonici”, probabilmente confidando in tempi migliori. Il libro, scritto presumibilmente durante la prigionia di Santo Stefano tra il 1849 e il 1859, è rimasto però nascosto e sconosciuto per più di un secolo, fino alla sua pubblicazione nel 1977. Nel 1937, infatti, il professor Raffaele Cantarella – direttore dell’officina dei Papiri Ercolanensi presso la biblioteca Nazionale di Napoli – nel cercare un manoscritto greco finito fuori posto, trova un fascicoletto intitolato “I Neoplatonici per Aristeo di Megara – traduzione dal greco” che il professore identifica immediatamente come un falso. La ricerca del vero autore è semplice, accanto al manoscritto ce n’è un altro della stessa carta, ma molto più voluminoso, “Ricordanze della mia vita” di Luigi Settembrini. E poiché la grafia dei due manoscritti è senza dubbio identica, ne risulta che anche la ‘traduzione dal greco’ è opera di Settembrini. Imbarazzato per lo ‘strano’ contenuto del libro, il professor Cantarella lo ripone in un cassetto, ma, raccogliendo informazioni sul testo, viene a sapere che il manoscritto non è passato inosservato, che è conosciuto dai maggiori studiosi napoletani, da Benedetto Croce a Francesco Torraca, che hanno tuttavia deciso di comune accordo di non renderlo pubblico per non infangare la figura di Settembrini, ‘martire patriottico dei Borboni’ e tra i più esemplari padri della patria. Il breve romanzo, liquidato sommariamente dai suoi censori come un ‘errore letterario’, è in realtà uno spiraglio su una tragedia ed è una favola antica e moderna al tempo stesso, perché per la prima volta l’amore tra due uomini è rappresentato come una relazione di una vita ed è basato, oltre che sull’attrazione fisica, sulla stima e sul rispetto reciproco. Non è un caso che sia stato proprio questo aspetto a scandalizzare il professor Cantarella, il quale, di fronte all’ultima pagina del romanzo, concludeva, sconsolato, che «è difficile evitare l’impressione piuttosto disgustosa di questo senile ritrovarsi che non giustifica nemmeno l’innocenza fisica e psicologica della fanciullezza».

Un altro caso di autocensura di grande interesse è quello del romanzo “Maurice”, scritto nei primi del Novecento, dello scrittore inglese Edward Morgan Forster. In questo caso non ci troviamo nel sogno dell’antica Grecia di Settembrini, ma nella più concreta Inghilterra vittoriana, dove l’omosessualità era un reato perseguito dalla legge.
“Maurice” racconta la storia della faticosa presa di coscienza della propria omosessualità da parte del protagonista e della decisione di vivere il proprio orientamento sessuale e affettivo, rifiutando ogni schema prefissato e sfidando la legge. In gioventù Maurice sperimenta i suoi primi turbamenti omoerotici, vive un amore tutto platonico con Clive, suo compagno di studi, che tuttavia decide di sposare una donna, come impongono le regole sociali, pur nella consapevolezza che vivrà una vita che non corrisponde ai suoi reali desideri. Maurice è deluso, prova in tutti i modi a ‘curarsi’ e a ‘guarire’ per seguire anch’egli le orme dell’amico, ma proprio quando va in visita da Clive, ormai sposato, e conosce il giovane guardiacaccia Alec, capisce che non ci si realizza negando se stessi e la sua vita diviene una sfida alla società e alle istituzioni che non riconoscono il suo amore. Maurice e Alec si amano e decidono di passare insieme la loro vita. Così «gli amanti la fanno franca e di conseguenza raccomandano il crimine», scrive Forster. «Il lieto fine s’imponeva perentoriamente – scrive ancora Forster in una nota introduttiva al romanzo – in caso contrario non mi sarei preso il disturbo di scrivere. Avevo stabilito che, almeno nella narrativa, a due uomini sia lecito innamorarsi e restar tali per quella durata perpetua che la narrativa consente, e in questo senso Maurice ed Alec vagano ancora oggi nella macchia.» (Forster 1972). Proprio questo sviluppo positivo della storia che non indugia nella vittimizzazione – come sostenne il suo stesso autore – è ciò che rese il libro non pubblicabile quando venne scritto. Scritto negli anni 1913-1914, infatti, “Maurice” sarà dato alle stampe nel 1971 dopo la morte dell’autore e reca sul frontespizio la dedica «A un anno più felice», ad un periodo cioè in cui le persone omosessuali sarebbero potute finalmente uscire dalla clandestinità e dall’anonimato.

Libri di narrativa o di poesia che hanno provato a rappresentare in vario modo l’amore tra uomini, cominciano comunque a circolare agli inizi del Novecento, dalle poesie di Walt Whitman a “I turbamenti del giovane Torless” (1906) di Robert Musil, da “La morte a Venezia” (1912) di Thomas Mann a “Corydon” ( 1924) di André Gide a “Il libro bianco” (1928) di Jean Cocteau, fino a libri più vicini a noi come “La stanza di Giovanni” (1956) di James Baldwin, “La statua di sale” (1948) di Gore Vidal, e l’elenco potrebbe continuare. Anche in Italia, dove più forti erano i problemi di censura e di autocensura, tracce di omosessualità possiamo trovarle nelle opere di Umberto Saba, di Aldo Palazzeschi, di Giovanni Comisso, di Carlo Coccioli e di molti autori del Novecento (Gnerre, 2000). Si tratta di opere di grande interesse per una storia del rapporto tra letteratura e omosessualità, ormai considerate dei ‘classici’ della cultura omosessuale, dove però, a parte rare eccezioni, il personaggio omosessuale è, se non il corruttore, il ‘malato’ che ha bisogno di comprensione e non un personaggio positivo e propositivo nei confronti della vita. Si tratta, inoltre, di testi isolati, al di fuori di una logica legata ad una nuova consapevolezza gay, di là da venire, i cui stessi autori, spesso, non riconoscono né l’esistenza né la necessità di una cultura e di una letteratura gay.
Il personaggio omosessuale di questa tipologia di libri è in genere una vittima predestinata, che sopporta tutte le ingiustizie e le discriminazioni, come se dovesse scontare chissà quali colpe. Così, per esempio, il narratore del romanzo “Gli occhiali d’oro” di Giorgio Bassani del 1957, perseguitato anche lui durante il regime fascista in quanto ebreo, che pure mostra comprensione per l’omosessuale dottor Fadigati, scrive ad un certo punto: «andavamo cercando su quel volto familiare le prove, i segni, starei per dire le macchie visibili del suo vizio, del suo peccato», e il dottor Fadigati «si accontentava di niente, in fondo, o almeno così sembrava. Più che restare lì, nel nostro scompartimento di terza classe, con l’aria del vecchio che si scalda in silenzio davanti a un bel fuoco, altro non pretendeva».
Quando la rappresentazione dell’omosessuale non si adeguava alla cultura dominante, non era la vittima predestinata e l’amore gay diventava nell’immaginario un amore possibile e magari felice, il libro in genere non veniva pubblicato, come si è visto nei ‘casi’ di Settembrini, di Forster e di altri, tra cui vale la pena citare ancora il ‘caso’ di “Ernesto” di Umberto Saba, un romanzo percorso da una forte carica liberatoria, scritto nel 1953, ma pubblicato solo molti anni dopo la morte del suo autore, nel 1975.

In questo processo una linea di demarcazione importante fu alla fine degli anni Sessanta del Novecento la rivolta di Stonewall. Nel giugno del 1969, come è noto, per la prima volta nella storia, gay, lesbiche e travestiti rifiutarono il loro ruolo di vittime e di fronte all’ennesima irruzione provocatoria della polizia in un bar gay di New York, lo “Stonewall Inn” , reagirono dando vita a due giorni di vera e propria guerriglia urbana che spiazzò anche la polizia, abituata alla remissività degli omosessuali. La rivolta di Stonewall resta un punto di non ritorno. «E’ stata la nostra presa della Bastiglia», dirà un personaggio del noto romanzo di Edmund White “La bella stanza è vuota”.
Dal punto di vista letterario, secondo White, tra i maggiori scrittori gay contemporanei, prima di Stonewall non esistevano che due tipi di romanzo omosessuale maschile: uno che tendeva a scusare l’omosessualità, destinato essenzialmente a lettori eterosessuali, concepito per provare che gli omosessuali sono delle creature smarrite, sensibili, che di solito hanno il buon gusto di suicidarsi e non è perciò necessario perseguitarli; l’altro, destinato a un pubblico gay, di solito venduto sottobanco, di taglio pornografico, spesso firmato con uno pseudonimo.
Dopo Stonewall, dice White, nasce invece un nuovo fenomeno, la ‘letteratura gay’ vera e propria: una letteratura scritta da uomini gay, destinata essenzialmente a uomini gay, che rappresenta uomini esplicitamente omosessuali. Un momento importante di questa nuova realtà è proprio la pubblicazione nel 1971 di “Maurice”, il romanzo postumo di Edgar Morgan Forster. Il nuovo momento storico non è ancora «l’anno più felice» auspicato dall’autore di “Maurice”, ma la pubblicazione del romanzo di Forster è comunque un momento importante nel processo di affermazione di una letteratura gay. Anche altri libri, scritti negli anni o nei secoli precedenti, sono pubblicati proprio nel corso degli anni Settanta, quando la liberazione gay esplode in tutto l’Occidente e anche in Italia vedono la luce libri come “I Neoplatonici” di Settembrini e “Ernesto” di Umberto Saba.
Non si pubblicano solo libri precedentemente rimasti chiusi in un cassetto. Si esplora tutta una nuova realtà e gli scrittori, soprattutto negli Stati Uniti, e successivamente anche in Europa, iniziano a dare una nuova immagine dell’omosessuale, a raccontare una realtà nuova, dove l’omosessuale, liberato dai sensi di colpa interiorizzati, non è più la vittima predestinata e rassegnata, ma una persona che rivendica il suo modo di essere e il suo stile di vita.

Oggi finalmente una cultura gay esiste, però non sempre viene riconosciuta come tale. Anche in Italia gli autori che rappresentano la molteplicità di comportamenti omosessuali sono tanti. Si pensi, per fare solo qualche nome, ai libri di Pier Vittorio Tondelli, di Aldo Busi, di Matteo B. Bianchi, di Gianni Farinetti, di Walter Siti, di Alessandro Golinelli, di Gilberto Severini, di Mario Fortunato, di Ivan Cotroneo, di Fabio Bo e di molti altri. Nei romanzi di questi autori è scomparso ogni aspetto problematico relativo all’omosessualità e l’essere gay è, nella vasta gamma dei comportamenti affettivi e sessuali, solo una delle possibilità, fra le altre, che molti personaggi vivono con naturalezza o anche con spregiudicatezza, e se emergono problemi, questi non sono certo dovuti all’omosessualità dei personaggi, ma all’omofobia dell’ambiente sociale e culturale.
Una raccolta di racconti del 2007 di Fabio Bo è emblematicamente intitolata, dal nome di uno dei racconti, “Prendere o lasciare”. Si tratta di un titolo assertivo che suggerisce, pur nella varietà delle storie narrate, un filo conduttore comune: gli omosessuali sono cresciuti e si sono emancipati; la loro condizione non costituisce più un problema e non stanno più ad aspettare che siano gli altri a legittimare la loro esistenza; si sono autolegittimati e la loro vita la vivono, organizzata in coppia o da single, facendo i conti quotidianamente con le gioie e le delusioni, con l’esaltazione di un nuovo amore o con la nostalgia di una giovinezza sfiorita, con le cose belle o noiose della vita. Sono persone di settanta anni o ragazzi di sedici, hanno i loro riti elaborati in secoli di repressione, i loro luoghi di incontro, i loro modi di socializzare, e a guardarli davvero da vicino, forse non hanno niente di diverso dagli altri. Siamo così, sembra dire il narratore, e questa è la nostra realtà. Se non vi sta bene non è un problema nostro: prendere o lasciare.

L’importanza che il tema ha assunto, in particolare proprio nella letteratura, non ha però trovato ancora una organica sistemazione né nella critica letteraria, né nelle storie della letteratura. Gli autori stessi, e le case editrici, tendono molto spesso a non mettere in evidenza il tema dell’omosessualità col timore che questi libri possano entrare a far parte di un circuito marginale e settoriale e non della letteratura con la ‘L’ maiuscola, ovvero di perdere quel carattere di universalità proprio della grande letteratura. L’assenza del tema o il suo occultamento, soprattutto nella critica e nelle storie letterarie, nasceva (e spesso ancora nasce) da forme, spesso inconsapevoli, di omofobia, dall’abitudine a censurare un argomento che per secoli è stato tabù. E’ come se esistesse ancora in qualche modo il pregiudizio secondo cui parlare di ciò che avviene tra un uomo e una donna appartenga alla ‘natura umana’ e ‘universale’, mentre parlare di ciò che succede a due uomini debba essere confinato nel ‘particolare’ e nello ‘speciale’.
Si pensi, per esempio, alla corposa tradizione di poesia gay italiana. La poesia, forse perché più elitaria, è stata spesso molto più libera e spregiudicata e situazioni gay attraversano, molto più che la narrativa, tutto il Novecento: da Saba a Penna, a Pasolini, a Bellezza, a Buffoni. Anche in questo caso però il tema è ignorato dalle antologie di poesia d’amore dove l’amore è sempre quello eterosessuale, e dai testi scolastici, dove pure si possono leggere alcune poesie di poeti gay, che però hanno per oggetto qualsiasi tema, ma non l’amore gay (Baldoni, 2012).
Per molti aspetti, insomma, il tema appare ancora problematico. Se prima non veniva esplicitato per evidenti problemi di censura e di autocensura, ora si dice spesso che non è necessario evidenziarlo perché non esiste più il problema e chi insiste a parlare di letteratura gay o di cultura gay rischia di apparire una persona legata ancora ad una fase di militanza che non avrebbe più motivo di esistere perché ormai nella cultura e nella società il tema gay sarebbe stato totalmente metabolizzato.
L’esperienza gay, in realtà, è ancora in larga parte clandestina e un ragazzo che scopre di essere gay, soprattutto se non vive in una grande città, non ha sufficienti punti di riferimento per vivere con una certa serenità il suo orientamento. Qualora ce ne fosse bisogno, i drammatici suicidi di giovani gay, convinti di essere gli unici al mondo, sono lì a dimostrare questa realtà di fatto. A questo si aggiunge che in Italia, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, l’esperienza LGBT non è ancora legittimata sul piano dei diritti.
Perché non promuovere allora una maggiore diffusione della cultura gay e non contemplare nelle biblioteche scolastiche, accanto a sezioni dedicate al razzismo e all’antisemitismo e in genere a tematiche relative all’inclusione e al rispetto di tutti, una sezione dedicata all’omofobia e alla letteratura di argomento omosessuale? Gli adolescenti gay si sentirebbero meno soli.
«Io penso – mi ha detto nel corso di un’intervista lo scrittore Colm Toibin (autore di importanti libri gay da “Il faro di Blackwater” a “The Master”) – che i libri di James Baldwin, di David Leavitt, di Edmund White, di Alan Hollinghurst sono importantissimi per i gay: è come incontrare qualcuno che condivide la tua vita, le tue emozioni. E questo è fondamentale perché ci sono immagini comuni, storie e situazioni da condividere e che non siano solo suicidi e disperazioni.» (Gnerre e Leonardi, 2007).
Questi libri, però, non sono importanti solo per i lettori gay. Ponendosi in modo problematico e/o liberatorio rispetto al comportamento omosessuale, destrutturando i modelli vigenti e gli stereotipi, questi libri aiutano tutti e tutte a confrontarsi con le molteplici forme relative alla sessualità e a combattere l’omofobia. Perché l’omofobia nasce dall’ignoranza e la letteratura, straordinario luogo simbolico di sperimentazione dell’utopia di un diverso futuro, aiuta a considerare praticabile e possibile ciò che non c’è fino a che non è stato scritto, fa emergere dal silenzio sentimenti ed emozioni che accompagnano gli amori tra persone dello stesso sesso, rende familiari comportamenti troppo spesso circondati ancora da un alone di peccaminoso e di proibito.

Bibliografia

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Famiglie arcobaleno e letteratura per l’infanzia: l’esperienza di “Lo Stampatello” http://www.portalenazionalelgbt.it/famiglie-arcobaleno-e-letteratura-per-linfanzia/ Wed, 15 Oct 2014 09:59:39 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1780 A cura di Mara Pieri, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel 2011 nasce “Lo Stampatello”, la prima casa editrice italiana che racconta l’omogenitorialità a bambini e bambine. Il motto dell’avventura editoriale è “Parlami in stampatello”: l’idea di Francesca Pardi e Maria Silvia Fiengo, le fondatrici, è quella di proporre temi complessi, delicati e sfaccettati con un linguaggio semplice, chiaro e diretto. In poco tempo, l’attività della casa editrice si estende anche a temi come l’omoaffettività e le esperienze che meno trovano posto nella letteratura per l’infanzia ma che vissute in prima persona possono far sorgere nei bambini e nelle bambine domande e curiosità. Oggi “Lo Stampatello” conta un catalogo di più di 30 libri, tra cui diverse traduzioni di pubblicazioni internazionali. Francesca Pardi, autrice e co-fondatrice, ci racconta com’è nata e come si è sviluppata l’attività della casa editrice.

Com’è nata l’idea di fondare “Lo Stampatello”?

L’avventura de “Lo Stampatello” nasce dall’idea mia e della mia compagna, Maria Silvia. Noi siamo due donne che hanno fatto un famiglia attraverso l’inseminazione eterologa in Olanda. La nostra prima figlia è nata nel 2002, e nel 2010, quando aveva 8 anni, incominciando ad andare a scuola, ha iniziato anche a dover affrontare le domande e le curiosità dei compagni e delle compagne rispetto al fatto di avere due mamme. Essendo timida e riservata, non aveva molta voglia di rispondere a queste domande, e ci disse «Ma non c’è un libro per far capire queste cose agli altri bambini?». Noi abbiamo una libreria di libri per bambini molto fornita, e da lì, prendendo illustrazioni e pezzi di racconti diversi, le ho costruito la storia della nostra famiglia: così facendo, ci siamo però rese conto che in Italia non c’era niente di questo genere. A quel punto, ho chiesto ad un’amica di illustrare la storia, e abbiamo iniziato a farla circolare: ha funzionato molto bene, sia con i bambini e le bambine sia con i genitori. Molti, infatti, avevano magari avuto l’esigenza o il desiderio di raccontare quest’esperienza ma non sapevano come fare. Altre famiglie, quindi, hanno iniziato a chiedercelo, dandoci lo stimolo per mandare la proposta a diverse case editrici. Una di esse, in particolare, ha in prima battuta accettato di pubblicarci, per poi ritrattare considerando l’argomento troppo delicato: nonostante la delusione, questo ci ha fatto capire che quello che stavamo facendo poteva avere anche un riscontro in ambito editoriale. “Lo Stampatello” nasce quindi per pubblicare questo libro.

Come nasce invece la vera e propria casa editrice?

Subito dopo, abbiamo chiesto ad Altan di illustrare una storia che avevo scritto: avevamo la fantasia di lavorare con un illustratore del suo calibro, e ha accettato. È nato così “Piccolo Uovo”, che ha segnato la nascita di una vera casa editrice. Il libro ha scatenato diverse reazioni, in positivo, con il supporto di molti ambienti, anche politici, e in negativo, con le polemiche scatenate da “Forza Nuova”. Questo in realtà ha fatto sì che il libro avesse molta visibilità, e ci facesse conoscere in Italia. Abbiamo poi trovato un libro edito in 15 paesi del mondo, ma non in Italia, intitolato “Il grande grosso libro delle famiglie”: abbiamo quindi deciso di tradurlo e pubblicarlo, instaurando un rapporto con una casa editrice inglese che adotta uno sguardo che in Italia è ancora poco diffuso. In sostanza, noi abbiamo di fatto sdoganato, nel nostro paese, la possibilità di parlare di omosessualità con i bambini e le bambine: sembrava infatti fosse un tema che per forza dovesse essere connesso solo ed esclusivamente con la sessualità, mentre, al contrario, coinvolge molti altri aspetti, l’affettività, la famiglia, l’identità, e questo, soprattutto noi genitori arcobaleno, lo sappiamo molto bene.
Fin dall’inizio, comunque, abbiamo cercato di fare un ampio discorso inclusivo, non solo incentrato sui temi LGBT, ma, più in generale, sul raccontare all’infanzia realtà negate e sguardi minoritari, con la pubblicazione, ad esempio, di libri dedicati all’immigrazione, come “Il mio primo giorno in Italia”, e alla separazione.

Com’è stata accolta l’idea e in che modo è iniziata la diffusione dei libri?

In generale l’accoglienza dell’ambiente della letteratura per l’infanzia è stata molto positiva. Allo stesso tempo, c’è comunque un aspetto commerciale da considerare, per cui magari molte case editrici sarebbero state pronte ad affrontare i temi che noi proponiamo in linea teorica, ma non si prendevano il rischio economico di provarci. Ci voleva un filo di incoscienza, e noi l’abbiamo avuto!
Ora riusciamo a vivere grazie a un enorme lavoro di rete e passaparola che ha permesso a “Lo Stampatello” di essere accolta molto bene. La vittoria del Premio Andersen con “Piccolo Uovo” è stata, a sua volta, una grande spinta a continuare: la partecipazione di Altan ha permesso di trovare un distributore anche se, al tempo, avevamo solamente due libri in catalogo. In quel momento è stata fondamentale la rete messa in gioco dalle associazioni LGBT, ed è anche grazie a loro se ora abbiamo guadagnato un nostro posto nello scenario dell’editoria italiana, pur continuando a faticare economicamente. È stato un tale investimento di passione ed energia che spesso ci siamo dette che, avesse anche dovuto finire in quel momento, ne sarebbe comunque valsa la pena.
Al momento siamo riuscite a stampare tutti i libri del catalogo, e riusciamo, in qualche modo, ad andare in pari economicamente, pur dovendo affrontare il rischio economico della stampa: ora abbiamo il nostro piccolo tesoro di libri stampati, e contiamo di venderli a poco a poco.

Come si muove la letteratura per l’infanzia sui temi LGBT in Italia e all’estero?

La nostra impressione è che in Italia si stiano muovendo molte cose: in particolare, si sta creando molta attenzione sulle tematiche di genere, e sul lavoro con gli stereotipi, forse anche per un discorso di quantità di persone che compra i libri e ha interesse per questi temi. Questo è positivo anche per il lavoro che facciamo noi, se consideriamo che omofobia e stereotipi di genere sono strettamente legati l’uno all’altro.
Anche noi, dunque, abbiamo affrontato il tema, pubblicando alcuni libri dedicati. In “Raffi”, raccontiamo la storia di un ragazzino a cui piace lavorare a maglia; in “La principessa salvata dai libri”, invece, protagonista è una principessa che passa il suo tempo su un albero aspettando un principe, finché, a convincerla a scendere, sarà un lavoro in biblioteca.
All’estero, invece, molti concetti sono acquisiti, per cui c’è un supporto anche istituzionale al cambiamento sociale: le istituzioni si fanno carico del cambiamento, e sono riuscite, in molti paesi, a realizzare un contesto nel quale alcuni concetti sono dati per scontati. Qui, purtroppo, le cose funzionano al contrario, per cui il cambiamento parte dal basso, e non viene sempre sostenuto dalle istituzioni.
Noi abbiamo instaurato legami con diverse case editrici, con le quali abbiamo dei rapporti di collaborazione, e con cui cerchiamo di condividere gli spazi promozionali e fieristici: si tratta di case editrici piccole e indipendenti, che si occupano di argomenti che creano una nicchia di pubblico. Essendo una casa editrice indipendente, abbiamo anche noi la possibilità di lavorare in autonomia rispetto ai temi e di collaborare per gli aspetti più promozionali con altre case editrici indipendenti, costruendo comunque il nostro percorso nella nicchia contenutistica che ci caratterizza.

Avete instaurato un dialogo particolare con le scuole e gli insegnanti?

Le scuole sono un veicolo educativo importantissimo: tuttavia, gli insegnanti si trovano in una condizione molto particolare, perché da una parte, sono realmente ‘sul campo’, in quanto lavorano fianco a fianco con i bambini e le bambine, e si relazionano direttamente con i genitori, ma, dall’altra, rispondono anche ai loro dirigenti scolastici. Ciò fa sì che, quando i dirigenti scolastici sono aperti, si riesca a costruire un dialogo. Gli insegnanti sono davvero sul campo, e, dunque, sono davvero dalla parte dei bambini. In particolare, nella scuola d’infanzia si assumono un compito educativo enorme. Successivamente, certo, si concentrano maggiormente sul rendimento e quindi hanno meno opportunità di lavorare sull’educazione a stare insieme e su aspetti relazionali.
Noi abbiamo incontrato moltissimi insegnanti bravi, disposti all’ascolto ma anche a mettersi in discussione rispetto ai loro stessi pregiudizi: anche nei casi in cui all’inizio si trovavano resistenze, l’interesse a far star bene i bambini e le bambine in classe era comunque talmente alto da permettere di creare un dialogo.
Abbiamo lavorato molto anche insieme all’Associazione Famiglie Arcobaleno, poco a livello istituzionale ma molto a livello di rapporti diretti con le scuole. Per esempio, abbiamo organizzato un incontro di autoformazione per insegnanti di scuole di ogni grado, affinché lavorassero insieme su storie realmente accadute e da noi raccontate, e, dopo una discussione in gruppi di lavoro, trovassero delle proposte educative per affrontare quelle specifiche criticità. Come Famiglie Arcobaleno, infatti, noi vediamo le criticità, ma le competenze educative sono degli insegnanti, ed è importante metterle in gioco.
È importante tenere presente che ci sono diversi livelli di omofobia sperimentata dai bambini e dalle bambine. Se alle scuole materne l’omofobia non è praticamente agita, e si pone solo un problema di legittimazione della famiglia, alle elementari già si incomincia a dire ‘gay’ come insulto: i bambini e le bambine figli di famiglie arcobaleno sanno che cosa significa ‘gay’, ed iniziano dunque a percepire che esiste uno stigma sociale riguardo ai propri genitori. Alle medie, poi, si crea un problema di bullismo, per cui lo stigma prende la forma di discriminazioni, che, anche se spesso non vengono rivolte verso i nostri figli e le nostre figlie, sono comunque visibili: per questo motivo, ci sembra più che mai importante parlare di questi temi fin dall’età della scuola materna.

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