Socio-antropologico – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Breve storia del movimento LGBT in Italia: una conversazione con Porpora Marcasciano http://www.portalenazionalelgbt.it/breve-storia-del-movimento-lgbt-in-italia-una-conversazione-con-porpora-marcasciano/ Thu, 07 May 2015 07:39:45 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2917 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Porpora Marcasciano è presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale) e autrice – tra gli altri – di AntoloGaia – testo recentemente ripubblicato dalla casa editrice Alegre – in cui racconta i suoi anni Settanta e le battaglie del movimento gay, lesbico e trans. Con lei abbiamo cercato di ricostruire alcune tappe fondamentali delle lotte LGBT in Italia.

Quando è nato il movimento LGBT in Italia?

Io penso che, come per tutte le cose, c’è una ‘prima volta’. Per decidere ‘la prima volta’ del movimento omosessuale in Italia non ci si è mai seduti attorno ad un tavolo, ma c’è accordo generale nell’indicare la manifestazione del Fuori! nel 1972 a Sanremo in occasione di un convegno di sessuologi sull’omosessualità come malattia. Detto questo, prima di quella data non c’era il vuoto, ma esistevano delle esperienze. In tanti si muovevano, eppure non uscivano allo scoperto. Come nel caso dei moti di Stonewall, non è che non ci fosse fermento prima di quell’evento, al contrario. Tuttavia non era ancora scoccata la scintilla giusta per innescare l’esplosione che fa iniziare un percorso. Per l’Italia, quindi, io stabilirei quello come punto di partenza.

E poi da quella uscita pubblica come si sono articolare le cose?

Da lì in avanti, per tutti gli anni ’70 c’è stato un movimento. Il Fuori! era un’associazione vera e propria con dei legami forti con il partito Radicale – che era una spalla forte per tutta una serie di categorie sociali e di battaglie civili – ma non era l’unica esperienza. Tutto era in nascita e in crescita in quegli anni, c’era un potenziale da sviluppare che non si era ancora delineato in associazioni o in aree come oggi, era una sorta di brodo primordiale che raccoglieva varie e diverse sfaccettature.

Era un movimento politico e culturale più ampio del solo mondo LGBT: in quegli anni, nacquero moltissime altre esperienze – collettivi e gruppi informali – che avevano le loro finestre sul mondo e contribuivano al dibattito. C’era “Re Nudo” – un giornale di contro-cultura nato a Milano che organizzava ogni anno il festival al parco Lambro – su cui scrivevano Mario Mieli e Alfredo Coen. Sulle pagine di “Re Nudo” c’era un dibattito accesissimo su sessualità e omosessualità e un dialogo serrato tra le istanze del femminismo e il movimento di liberazione gay: per esempio proprio di recente mi è capitato sotto mano un numero in cui c’era un botta e risposta tra Mario Mieli e Lea Melandri su questi temi.
E basta dare uno sguardo alla pagina gay di Lotta Continua, che usciva il giovedì, per vedere quanti e diversi collettivi e gruppi c’erano all’epoca. Alla fine degli anni ’70 in tutta Italia era un fiorire di collettivi che si collocavano all’interno del movimento antagonista: a Roma fu l’avvio con il Circolo Narciso (poi diventato Mario Mieli). A Milano c’era l’esperienza delle case occupate di via Morigi dove nacquero i COM – Comitati Omosessuali Milanesi – mentre a Torino, oltre al Fuori!, c’era Lambda che pubblicava un foglio di cultura omosessuale. E poi a Trapani, a Bari, a Potenza, a Lecce, a Cremona, a Verona, ovunque, anche al sud e nelle città di provincia, nascevano esperienze testimoni di una ricchezza che oggi potrebbe sembrare impensabile.

Hai citato il movimento femminista e il movimento della sinistra extra-parlamentare di quegli anni, quali erano i rapporti con il movimento LGBT?

Come negli Stati Uniti il Gay Liberation Front era intrecciato con le Black Panthers e il movimento delle donne, la stessa cosa succedeva in Europa con sfumature diverse. C’era un confronto profondo – che talvolta diveniva scontro – tra il movimento della sinistra extraparlamentare, il movimento femminista e il movimento gay. Il femminismo, in particolare, credo sia stato un interlocutore molto importante per articolare il discorso e le lotte sulla sessualità e la liberazione.

Se del movimento degli anni ’70 ciò che ha avuto più visibilità è stata la componente marxista, l’operaismo e il movimento contro le ingiustizie globali, dentro di esso trovarono spazio movimenti e istanze su ‘ingiustizie specifiche’: quelle gay, lesbiche e trans, quelle femminili, ma anche quelle sulla salute mentale per esempio. Il filo conduttore era una forte spinta culturale per emanciparsi da un modello sociale oppressivo e costruire dei nuovi spazi di libertà per tutte e tutti.

Quali erano le istanze di questo movimento?

Per che cosa ci si batteva? Ci si batteva per la propria liberazione. Questo non aveva ancora i contorni definiti dei diritti come li intendiamo oggi. Si usciva da secoli di negazione, d’invisibilità e di ‘non vita’, mentre con questo movimento si cominciava ad essere visibili, a riprendersi la parola e la vita. Bisogna ripensare al contesto di quegli anni: l’ultimo processo per plagio è quello di Aldo Braibanti del 1969 che venne arrestato dopo una denuncia da parte della famiglia del suo giovane fidanzato di allora. Nel 1972 il convegno contestato dal Fuori! era un convegno di sessuologi che discuteva dell’omosessualità come di una malattia da curare. Consiglio vivamente di leggere il libro “Quando eravamo froci” di Andrea Pini che ricostruisce cosa succedeva in Italia prima degli anni ’70, i soprusi e le ingiustizie subite: il movimento aveva alle spalle quel tipo di storia e chiedeva prima di tutto visibilità e libertà.

E dopo gli anni ’70 quali sono state le tappe successive?

Negli anni ’80 succedono due cose fondamentali: da un lato il movimento e tutte le sue sfaccettature si stabilizzano in associazioni e organizzazioni e, dall’altro, si diffonde l’Aids.

Nel 1980 a Palermo muove i primi passi Arcigay per mano di Marco Bisceglie – un prete operaio scomunicato per aver sostenuto le cause del divorzio e dell’aborto e per aver dichiarato pubblicamente la propria omosessualità – che viene registrata come vera e propria associazione nel 1981. Nel 1982 a Bologna il Comune assegna una struttura pubblica ad un gruppo omosessuale ed è la prima volta che in Italia un’istituzione riconosce il portato sociale e politico del movimento e della cultura omosessuale. Da lì nasce l’ufficialità del movimento perché ha una sede – il Cassero a Bologna, ha una rappresentanza formale – Arcigay – e ha un dialogo con le istituzioni – il Comune di Bologna. Questo però non significa che non ci fossero altri gruppi o altre esperienze in giro per l’Italia che hanno seguito strade differenti.

E per quanto riguarda la diffusione dell’Aids di cui accennavi prima?

L’avvento dell’Aids è stato un passaggio fondamentale che ha segnato sia le persone dal punto di vista biografico e sia il movimento in senso politico e culturale. Ci colse impreparate perché non c’era scampo, si diffondeva a vista d’occhio e non c’erano gli strumenti per affrontare quello che stava succedendo: a mio avviso la diffusione dell’HIV ha segnato profondamente un ‘prima’ e un ‘dopo’. E su questo, credo, il movimento LGBT non ha riflettuto abbastanza, diversamente da quanto successo in altri paesi come gli Stati Uniti. Non ci siamo chiesti abbastanza qual è stato l’impatto di questo fenomeno sulle nostre vite e sul movimento. Da lì ci siamo detti «dobbiamo essere più seri» e abbiamo indirizzato le energie nel prenderci cura della nostra comunità e a richiedere diritti, forse perdendo di vista il senso della parola liberazione che aveva guidato le lotte nel corso degli anni ’70.

In tutto questo movimento, qual è stata la specificità trans?

Negli anni ’70 non c’era una specificità trans evidente e manifesta. Era una minoranza nella minoranza, riguardava piccoli gruppi di transessuali MtF che stavano principalmente nei contesti metropolitani – a Torino, Milano, Genova, Roma – e che vivevano ai margini. La vita che facevano era automaticamente destinata alla marginalità, non c’era uno spazio di riconoscimento e di visibilità. Poi, piano piano, si è iniziato un percorso di visibilità per rivendicare la propria condizione trans. In quegli anni, però, la rivendicazione era molto focalizzata sul riconoscimento del cambio di sesso che molte avevano fatto all’estero, ma che in Italia non era riconosciuto e che anzi era perseguito. Il primo coming out trans in Italia per rivendicare questo diritto è la manifestazione all’idroscalo di Milano del 1979 dove un gruppo di trans si presentò a seno nudo dichiarando che, se per la legge erano identificati come maschi, allora si sarebbero comportati come tali indossando solo gli slip. Da lì anche il mondo trans ha iniziato a farsi spazio in quel contesto articolato di movimento di cui parlavamo prima, non senza conflitti, soprattutto con il movimento femminista. Non ci fu la capacità di capirsi da ambo le parti: le femministe non colsero la possibilità di decostruzione dei modelli di genere dominanti a cui apriva l’esperienza trans, mentre le trans faticarono a mettere in discussione quell’identità di donna in cui si riconoscevano.

E da allora come si sono modificate le cose?

La fase attuale è passata attraverso un riconoscimento politico di esperienze e di realtà da parte delle istituzioni. Le istituzioni, i partiti, i sindacati hanno cominciato a prendere in considerazione le istanze e le esigenze LGBT, da un lato perché con il movimento si era prodotto un cambiamento culturale; dall’altro perché i numeri crescevano e non era più possibile fare finta che le persone gay, lesbiche e trans non esistessero. Detto questo non si tratta di un rapporto sempre semplice con le istituzioni e la legittimità delle rivendicazioni LGBT deve essere ogni volta negoziata e ridefinita ancora oggi.

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La depatologizzazione dell’omosessualità come presupposto per il benessere psicofisico delle persone gay o lesbiche http://www.portalenazionalelgbt.it/la-depatologizzazione-dellomosessualita-come-presupposto-per-il-benessere-psicofisico-delle-persone-gay-o-lesbiche/ Mon, 26 Jan 2015 11:58:11 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2404 A cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma;
Nicola Nardelli, Dottorando in Psicologia Dinamica e Clinica, La Sapienza Università di Roma.

Per la maggior parte del secolo scorso, l’orientamento omosessuale è stato oggetto di teorizzazioni infondate sul piano scientifico. Tali teorie erano piuttosto la conseguenza di pregiudizi e preconcetti, spesso rinforzati da elementi clinici ricavati dal trattamento di pazienti omosessuali a loro volta condizionati e segnati dall’ostilità sociale che avevano incontrato e, spesso, interiorizzato.
A partire da Sigmund Freud (Cfr. Lingiardi V., Luci M., “L’omosessualità in psicoanalisi”, in Rigliano e Graglia, 2006), che mostra tuttavia un atteggiamento duplice verso l’omosessualità (da una parte la ritiene una forma di immaturità psichica e di fissazione nello sviluppo psicosessuale, dall’altra afferma che «non può essere classificata come malattia» ma come «variante della funzione sessuale»), fino alla metà del XX secolo la possibilità di un orientamento omosessuale ‘normale’ non viene contemplata. In particolare, il tentativo di ‘spiegare’ l’omosessualità si basava su un errore interpretativo che portava a confondere e sovrapporre due dimensioni invece distinte: l’orientamento sessuale e l’identità di genere. In altre parole, un uomo omosessuale era considerato psicologicamente ‘come una donna’ (o una ‘donna mancata’) e una donna omosessuale era considerata psicologicamente ‘come un uomo’ (o un ‘uomo mancato’). Il che, tra l’altro, implicava la convinzione di conoscere e definire le caratteristiche psicologiche di un uomo e di una donna.

La situazione inizia a modificarsi attorno alla metà del XX secolo, quando gli studi di Alfred Kinsey (Kinsey et al., 1948; Kinsey et al., 1953) e di Evelyn Hooker (1957) inaugurano il cosiddetto processo di depatologizzazione dell’omosessualità. Kinsey rivoluziona la concezione della sessualità umana facendo emergere, tra l’altro, la molteplicità e le sfumature degli orientamenti sessuali. Hooker conduce un esperimento in cui somministra dei test psicologici a gruppi di soggetti etero e omosessuali. Dal confronto dei protocolli, valutati in cieco rispetto all’orientamento sessuale dei partecipanti, non emerge la possibilità di distinguere i due gruppi e quindi di rintracciare indicatori psicopatologici dell’omosessualità.
La prima svolta decisiva avviene negli anni Settanta, quando l’American Psychiatric Association (APA) elimina dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) la diagnosi di omosessualità (APA, 1973). Fino a quel momento, l’omosessualità era classificata, alla stregua della pedofilia, come una devianza sessuale. Nel Manuale, tuttavia, rimane la variante ‘egodistonica’ (cioè quando l’individuo non accetta la propria omosessualità), eliminata nell’edizione del 1987 (DSM-III-R), una volta riconosciuto il legame tra l’interiorizzazione dell’ostilità sociale e la non accettazione del proprio orientamento sessuale.

Attorno agli anni Ottanta, per la prima volta prendono la parola psichiatri e psicoanalisti dichiaratamente omosessuali (tra questi, Richard Isay, Ralph Roughton, Jack Drescher, Maggie Magee, Diana Miller, Ubaldo Leli), costretti, fino a quel momento, a vivere in una sorta di ‘clandestinità’ teorica e professionale (per approfondimenti, cfr. Bassi e Galli, 2000; Lingiardi e Luci, 2006). Contemporaneamente, psicoanalisti di fama come Roy Schafer, Joyce McDougall e Otto Kernberg rivedono le proprie teorie ‘patologizzanti’, ammettendo di essere stati influenzati dai pregiudizi dell’epoca e dal contesto socioculturale. «Lo studio scientifico dell’omosessualità – scrive Kernberg (2002, p. 10) – è senza dubbio un esempio dell’impatto deleterio che l’ideologia ha avuto sulla ricerca accademica. […] L’indagine psicoanalitica sull’omosessualità non può sfuggire ai pregiudizi sociali che colpiscono questo argomento e così infatti è successo che nessun ambito della psicoanalisi sia riuscito a sfuggire a tali contaminazioni e conflitti ideologici». Ma già nel 1978 lo psicoanalista Stephen Mitchell metteva in guardia dai rischi della ricerca delle ‘cause’ dell’omosessualità, perché inevitabilmente tale ricerca (ezio-genesi) si trasforma nella ricerca di ‘cause patologiche’ (ezio-pato-genesi).

Col passare del tempo, e con i grandi mutamenti scientifici, politici e giuridici che accompagnano la fine del secolo scorso, la ricerca sull’omosessualità cede il passo alla ricerca sull’omofobia e sulla stigmatizzazione sessuale e di genere. L’American Psychiatric Association (APA) si pronuncia a favore dei diritti civili delle persone gay e lesbiche, non tanto da una prospettiva politico-sociale, quanto piuttosto nell’ottica di tutelare la loro salute mentale. Nel 1992 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) elimina la diagnosi di omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), ribadendo che l’orientamento omosessuale non dev’essere considerato, di per sé, un indicatore psicopatologico, bensì una variante normale della sessualità, proprio come l’orientamento eterosessuale.
Anche sul piano della pratica clinica avvengono cambiamenti sostanziali. Sono definitivamente abbandonati i modelli teorici che considerano l’omosessualità una ‘malattia da curare’ e vengono riconosciute le ripercussioni traumatiche della discriminazione sociale sullo sviluppo psicologico e sociale delle persone gay e lesbiche. In particolare, viene sottolineata l’importanza di riconoscere, affrontare e elaborare l’omofobia interiorizzata dalle persone omosessuali stesse (cioè l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi nei confronti della propria omosessualità) e, più in generale, il minority stress (l’insieme dei disagi psicologici dovuti all’appartenere a una minoranza discriminata).

Può essere interessante ricordare qui un esperimento condotto dallo psicoanalista Mark Blechner (2009), che ha chiesto a un gruppo di persone eterosessuali di non fare mai riferimento, al lavoro o nelle conversazioni con gli amici, al genere del proprio partner o della propria partner o a esperienze fatte in coppia, prestando attenzione a descrivere le esperienze condivise con il/la partner come se le avessero vissute da soli, dicendo sempre ‘io’ anche quando avrebbero voluto dire ‘noi’, oppure dicendo ‘una persona’ quando avrebbero voluto dire mio marito/mia moglie o il mio compagno/la mia compagna. In sintesi, si sarebbero dovuti comportare proprio come fanno molti gay e lesbiche quando non possono o non riescono a rivelare la propria omosessualità. Dopo un mese di questa vita di clandestinità e anonimato, chi ha partecipato all’esperimento si è dichiarato seriamente destabilizzato e in seria difficoltà. Blechner ci invita a riflettere su quanto debba esserlo per le persone omosessuali che la mettono in pratica non per un mese, ma a volte per una vita intera, in particolare quando l’ambiente attorno a loro sembra del tutto imprevedibile o si dimostra ostile.
L’impatto del minority stress sul benessere psicofisico delle persone gay o lesbiche viene descritto da molte ricerche sul campo che indicano il pregiudizio e la discriminazione come fattori rilevanti e misurabili di stress, e mostrano come lo sviluppo psicologico di molte persone omosessuali sia segnato da una dimensione di stress continuativo, conseguenza di ambienti ostili o indifferenti, episodi di stigmatizzazione, casi di violenza. L’esperienza di queste situazioni continuativamente traumatiche, quelle che lo psicologo Derald Wing Sue (2010) chiama “Microaggressions in everyday life”, è significativamente più alta in campioni di omosessuali rispetto a campioni di eterosessuali (vedi anche: Mays e Cochran, 2001; Meyer e Northridge, 2007; Rivers, 2011; Roberts et al., 2010). Gli studi condotti da Mark Hatzenbuehler e collaboratori (2009, 2010, 2012) evidenziano come l’incidenza di problemi e disturbi psichici, alcolismo e ideazione suicidaria (vedi anche Baiocco et al., 2010; King et al., 2008; Marshal et al., 2011; Plöderl et al., 2014) sia nettamente superiore tra le persone gay e lesbiche residenti in paesi dove non è consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso e/o non esistono leggi specifiche contro le violenze e le discriminazioni omofobiche e/o in contesti dove le organizzazioni religiose o i nuclei familiari (Ryan et al., 2009) sono meno accoglienti.

Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei genitori, la derisione dei compagni di scuola, diventa un compito davvero difficile. Fortunatamente a molti adolescenti o giovani adulti gay e lesbiche non mancano le capacità e le risorse per fronteggiare con successo le esperienze (micro o macro) traumatiche, riorganizzando positivamente la propria vita. Alcuni, però, si impegnano nella ricerca, spesso disperata, di interventi volti alla modifica del proprio orientamento sessuale: le cosiddette ‘terapie riparative’, dichiarate inefficaci e dannose e bandite da tutte le associazioni scientifiche e professionali per la salute mentale (su questo tema cfr. Lingiardi, 2007/2012; Rigliano, Ciliberto e Ferrari, 2012). Di fronte a simili richieste di modifica dell’orientamento sessuale, i terapeuti devono stare attenti a non colludere con il disagio ‘egodistonico’ del/della paziente, ma esplorare con lui/lei il significato personale e collettivo di tale disagio, al fine di comprendere da cosa è sostenuto il desiderio di diventare ‘eterosessuale’: quali paure, quali aspettative deluse, affrontando senza pregiudizi i molti temi che possono riguardare la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali e delle loro famiglie.

Eppure, ancora oggi, alcuni psicologi guardano all’omosessualità con preoccupazione e diffidenza. D’altra parte, i libri e i manuali su cui si sono formate intere generazioni di professionisti non hanno mai raccontato ‘le omosessualità’ dalla prospettiva di uno sviluppo psicologico ‘normale’, facilitando così la proliferazione di pregiudizi negativi nei confronti degli individui omosessuali e di pregiudizi positivi nei confronti di quelli eterosessuali. Si possono incontrare psicologi e psichiatri che esprimono convinzioni negative nei confronti dell’omosessualità, che si oppongono alla possibilità che gay e lesbiche possano avere relazioni stabili e riconosciute socialmente o che possano essere ‘buoni genitori’ (ignorando il consistente corpus di ricerche scientifiche che dimostra il contrario; per approfondimenti rimandiamo al numero monografico di Infanzia e Adolescenza curato da Anna Maria Speranza, 2013). Si possono incontrare psicologi e psichiatri che, con atteggiamenti che potremmo definire più ‘eterofili’ che ‘omofobi’, non veicolano ai loro pazienti atteggiamenti patologizzanti, ma indicano nell’eterosessualità una condizione comunque preferibile (e auspicabile). Sono questi, tra gli altri, i risultati che emergono da alcuni studi nazionali e internazionali (cfr. Bartlett, Smith e King, 2009; Lingiardi e Capozzi, 2004), tra cui una ricerca che abbiamo condotto in collaborazione con vari Ordini degli Psicologi nazionali (Lingiardi e Nardelli, 2011; Lingiardi, Nardelli e Tripodi, 2013; Lingiardi, Taurino, Tripodi, Laquale e Nardelli, 2013; Lingiardi, Tripodi e Nardelli, 2014; Nardelli, Rollè e Tripodi, 2011). Da queste ricerche emerge anche un dato importante: la consapevolezza della necessità di un aggiornamento scientifico e clinico, da cui deriva la richiesta di una maggiore formazione e informazione.

A livello internazionale, le più autorevoli associazioni di categoria hanno prodotto numerosi materiali per promuovere conoscenza e maggior chiarezza sui temi che caratterizzano le minoranze sessuali e di genere. Si tratta sia di documenti di carattere divulgativo, sia di vere e proprie “Linee guida” che si propongono di aiutare i professionisti della salute mentale ad assumere approcci adeguati nella pratica clinica con gli utenti e i pazienti non eterosessuali (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 2012; American Psychological Association, 2009, 2012; British Psychological Society, 2012). L’esigenza di aggiornamento e formazione sul piano scientifico e clinico è stata colta anche nel nostro paese, inizialmente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio che, sotto la presidenza di Marialori Zaccaria, ha deciso di promuovere l’elaborazione di “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali” (Lingiardi e Nardelli, 2013, 2014). La qualità di questo strumento di aggiornamento professionale è stata riconosciuta dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), che ha deciso di recepirle e di promuoverne la divulgazione. Un passo decisivo in un Paese in cui la cultura scientifica in tema di (omo)sessualità è stata a lungo caratterizzata da lacune e distorsioni.

Bibliografia

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Tra patologizzazione e de-patologizzazione: il ruolo della psichiatria nella definizione delle varianze di genere http://www.portalenazionalelgbt.it/tra-patologizzazione-e-de-patologizzazione-il-ruolo-della-psichiatria-nella-definizione-delle-varianze-di-genere/ Tue, 20 Jan 2015 09:44:30 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2322 A cura di Paolo Valerio, Dipartimento di Neuroscienze e Scienze Riproduttive ed Odontostomatologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Prima ancora che la medicina e la psichiatria abbiano iniziato ad occuparsi di casi di ‘cambiamento di sesso’, numerosi miti narrano esperienze di persone che assumono ruolo di genere diversi da quelli prestabiliti secondo l’ordine binario che sancisce la divisione tra l’essere maschile e l’essere femminile. Pensiamo, ad esempio, al mito di Tiresia, piuttosto che all’Androgino descritto da Platone, in cui si assiste a divinità che si incarnano di volta in volta in personaggi maschili e femminili; altri esempi sono la storia di Attis e Cibele, Ermafrodito, nonché il mito di Venere Castina e non ultima la leggenda del re trasformato in donna presente nel Mahâbhârata (Vitelli et al., 2013). Presso numerose realtà urbane, ancora ai nostri giorni, vi sono ampie e riconosciute comunità di persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. In India, ad esempio, troviamo gli Hijira, una vera e propria casta; nel nord America, tra i popoli originari, sono riportate esperienze di persone con una ‘doppia anima’, i ‘Two Spirits’, fino ad arrivare ai Muxè del Messico ed ai Kathoey in Tailandia. A Napoli, invece, i ‘Femminielli’ costituiscono una presenza forte e caratteristica (Zito & Valerio, 2010; 2013).
Per descrivere queste esperienze umane significative, la comunità scientifica utilizza oggi la definizione di varianza di genere. Con tale espressione ci si riferisce in modo piuttosto ampio a tutti coloro che sperimentano un qualche disagio a vivere secondo le regole culturali del genere assegnato alla nascita. Il significato di varianza di genere, dunque, raccoglie un insieme di condizioni tra cui il transessualismo, il transgenderismo, e tutte le situazioni in cui una persona vive in modo non conforme rispetto al genere assegnato alla nascita. Come vedremo, il termine transessualismo è molto collegato alla storia della psichiatria, derivando dalla necessità di definire coloro che richiedono trattamenti ormonali e chirurgici per modificare i propri caratteri sessuali primari e secondari. Il transgenderismo, invece, termine più vago, si riferisce a coloro i quali sperimentano un’identità non inquadrabile né nel maschile né nel femminile e che non desiderano procedere ad interventi medici e chirurgici.
Scopo di questo contributo è di descrivere le principali tappe teoriche che hanno consentito di giungere, oggi, alla definizione del concetto di varianza di genere. Partiremo dalla fine dell’800 quando la psichiatria ha iniziato a produrre documenti, osservazioni e riflessioni su tali condizioni. Procederemo, poi, parlando del ‘900, secolo in cui sono documentate le prime operazioni chirurgiche per la modificazione del sesso. Concluderemo, infine, con delle considerazioni sulle attuali prospettive in ambito diagnostico.

Tra la metà e la fine del 1800 i fenomeni di varianza di genere non sono ancora riconosciuti nella loro particolarità ma risultano ancora confusi nell’universo dell’omosessualità. Per comprendere questa situazione basti pensare al lavoro di Karl Ulrichs, un avvocato di Hannover che tra il 1860 ed il 1879 scrive numerosi articoli in favore dei diritti delle persone omosessuali. In alcuni libri inizia a proporre la sua teoria di un’anima muliebris virili corpore inclusa, ovvero un’anima femminile intrappolata in un corpo maschile, espressione che viene utilizzata per descrivere sia persone omosessuali che persone con varianza di genere. Con i suoi lavori Ulrichs attira l’interesse della comunità scientifica su questi temi. Solo pochi anni dopo, Karl Westphal, uno psichiatra tedesco, descrive alcuni casi in cui «una donna è fisicamente una donna, ma psicologicamente un uomo, e, dall’altro lato, un uomo è fisicamente un uomo, ma psicologicamente una donna» e propone quale spiegazione l’esistenza di una sensibilità sessuale invertita (Westphal, 1869). Queste ricerche sovrappongono l’istinto sessuale, connesso all’orientamento sessuale, con l’identità di genere connessa, invece, alla percezione della propria personale identità. Di grande rilevanza è poi l’opera di Richard Krafft-Ebing che riceve numerose autobiografie da parte di persone che sognano di cambiare sesso e chiedono di sottoporsi ad interventi chirurgici nella speranza di modificare l’apparenza dei propri caratteri sessuali. Tra queste autobiografie ve ne sono alcune davvero molto toccanti. Krafft-Ebing però, proponendo la diagnosi di una metamorfosi sessuale paranoide (Krafft-Ebing, 1886) avvicina queste esperienze al campo della psicopatologia del delirio.
Dobbiamo attendere il lavoro di Magnus Hirschfeld dal titolo “Die Transvestiten” per osservare un parziale superamento del concetto di istinto sessuale invertito, diffuso in quel contesto scientifico. Hirschfeld sostiene che la nozione di istinto sia eccessivamente riduttiva ed afferma che il desiderio dei soggetti ‘transvestitisti’, come egli li definisce, non appartiene tanto alla sfera dell’istinto sessuale ma riguarda un intreccio di sentimenti ed emozioni che si traducono in preferenze per l’abbigliamento del genere desiderato (Hirschfeld, 1910). Hirschfeld riconosce che queste persone non desiderano solo utilizzare gli abiti del sesso opposto al loro quanto, piuttosto, diventare in tutto e per tutto come le persone del sesso a cui sentono di appartenere.
Il caso vuole che intorno agli anni ’20 del ‘900 alcuni ricercatori, tra cui Eugen Steinach, stiano effettivamente iniziando a sperimentare la chirurgia per il cambio di sesso sugli animali. Quindi, diversi elementi concorrono a preparare il terreno per quella che sarà una vera e propria rivoluzione nella storia umana: il cambiamento di sesso. L’opera di David Caldwell, “Psychopathia Transsexualis“, del 1949, introduce il termine transessualismo ed è di fatto il preludio a questo fondamentale cambiamento.
Una vera e propria rivoluzione ha luogo nel 1951. È in questo anno che in Danimarca viene realizzato il primo intervento documentato di riassegnazione chirurgica del sesso. L’operazione di cambiamento di sesso condotta su George Jorgensen è attestata dall’articolo di Christian Hamburger, Georg K. Stürup ed E. Dahl–Iversen del 1953. In realtà, non è tanto l’articolo scientifico a generare lo scalpore mediatico, quanto, piuttosto, la biografia di George, intanto divenuta Christine Jorgensen (1967), che diviene un best-seller mondiale. La notizia di questo cambiamento fa il giro del mondo portando tutti a conoscenza del fatto che finalmente esiste una soluzione per coloro che sperimentano questi vissuti.
Il fenomeno transessuale, così definito dal sessuologo ed endocrinologo statunitense, Harry Benjamin, allievo di Hirschfeld, inizia ad essere riconosciuto e differenziato dalla omosessualità. Sotto questo punto di vista è proprio Benjamin (1953) ad indicare un nuovo orizzonte di ricerca attraverso l’articolo “Transvestitism and Transsexualism” pubblicato sull’International Journal of Sexology sulla scia del sensazionale caso Jorgensen. Questo articolo prepara il terreno al più ampio volume dedicato a questo tema che viene pubblicato nel 1966 con il titolo “The Transsexual Phenomenon” tradotto in italiano con Il fenomeno transessuale. Secondo Benjamin la persona transessuale, sia maschio che femmina, è profondamente infelice di vivere secondo il suo sesso biologico. Se tale sofferenza può essere inizialmente alleviata indossando abiti del sesso opposto, il vero transessuale non si accontenta del travestimento poiché esso è solo un rimedio parziale e temporaneo. I ‘veri transessuali’, seguendo la terminologia utilizzata dallo stesso Benjamin, sentono una completa appartenenza al genere opposto al proprio, desiderano vivere ed operare come membri del sesso opposto al proprio e chiedono al chirurgo che li si aiuti a superare questo senso di disagio vissuto nei confronti del proprio stesso corpo.

Sebbene a cominciare dagli anni ’60, negli Stati Uniti, vengano aperte numerose cliniche per la riassegnazione chirurgica del sesso, bisogna aspettare ancora qualche anno prima che l’American Psychiatric Association (l’Associazione degli Psichiatri Statunitensi – APA) intervenga sull’argomento. Il transessualismo, infatti, viene introdotto solo nella terza edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, meglio noto come DSM, del 1980 e successivamente, con la revisione del 1987, il transessualismo viene differenziato dal ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’Adolescenza e dell’Età Adulta’, tipo non transessuale (‘GIDAANT’). Questa opposizione richiama la dicotomia proposta da Benjamin poiché la preoccupazione maggiore degli psichiatri è quella di definire, in modo più rigoroso possibile, i criteri diagnostici al fine di selezionare i soggetti idonei a sostenere l’intervento chirurgico. In questi anni, quindi, iniziano ad essere somministrati numerosi test di personalità dai quali emergono risultati contraddittori. Secondo alcuni autori questi test avrebbero messo in evidenza la presenza di sottostanti problematiche di personalità; secondo altri le problematiche psicologiche, pure talvolta emerse dall’impiego di questi test, non sarebbero state in connessione con elementi psicopatologici, piuttosto sarebbero derivate, secondariamente, come reazione alle discriminazioni sociali subite da queste persone.
In seguito, con il DSM-IV, pubblicato nel 1994, la diagnosi di transessualismo viene riformulata in ‘Disturbo dell’Identità di Genere’ o ‘DIG’. È questo il momento apicale di una visione psichiatrica che vede nelle varianze di genere una patologia mentale.

Accanto alla psichiatria ufficiale è da sottolineare la comparsa di molteplici movimenti di attivisti del mondo del transessualismo e delle varianze di genere che affrontano in prima linea una questione così delicata. Il desiderio degli attivisti è non solo quello di superare il pregiudizio che vede nella varianza di genere una patologia mentale, una visione che sta ‘bollando’ tutti coloro che non si conformano alle norme sociali connesse al genere assegnato alla nascita, ma quello di sostenere il riconoscimento della peculiare identità sviluppata dalle persone con una varianza di genere. Secondo tale prospettiva, la persona con varianza di genere costruisce una vera e propria nuova identità, maggiormente in linea con quelli che sono i propri gusti e le proprie preferenze, mettendo anche in discussione l’utilità, ed obbligo, di subire una operazione chirurgica ‘mutilante’ per vedere riconosciuta la propria identità. Per riferirsi a questi casi viene coniato da Virginia Prince, nel 1979, il termine transgender in opposizione al termine transessuale. Tale definizione consente di porre in luce i bisogni specifici della popolazione transgender, la quale rivendica la libertà di scivolare tra i generi sessuali senza dover ricorrere ad interventi medici e chirurgici.

Durante le fasi di preparazione per la quinta edizione del DSM (pubblicata nel 2013 negli USA, nel 2014 in Italia) si è animato un intenso dibattito con l’obiettivo di rivedere i criteri diagnostici del manuale. A tale processo di discussione hanno partecipato non solo gli psichiatri ma molteplici associazioni internazionali tra cui il WPATH, ovvero la World Professional Association for Transgender Health. Le posizioni teoriche emerse, e che hanno alimentato tale importante confronto, sono state sostanzialmente due. Da un lato vi è stata la tesi di coloro i quali hanno richiesto con forza la completa eliminazione di qualsiasi diagnosi connessa alla identità di genere. A sostegno di questa tesi è stato affermato che, generalmente, la diagnosi di malattia mentale produce un marchio, ovvero uno stigma, sulla persona che la riceve. Il permanere di una diagnosi nel DSM avrebbe comportato, pertanto, il perpetuarsi di una visione secondo cui coloro che richiedono il cambio di sesso sono ‘intrinsecamente patologici’. La posizione appena espressa può essere definita come quella della de-patologizzazione delle richieste di cambiamento di sesso. La seconda tesi che ha animato questo dibattito si è pronunciata, al contrario della precedente, in sfavore di una completa rimozione della categoria diagnostica dal DSM. Le ragioni, alla base di tale posizione, sono da rintracciarsi nel fatto che senza una diagnosi sarebbe divenuto impossibile, per i sistemi sanitari nazionali e le organizzazioni assicurative, coprire economicamente le cure mediche e chirurgiche. Secondo tale posizione, dunque, la completa rimozione della diagnosi avrebbe impedito l’accesso alle cure sanitarie gratuite, mettendo gravemente a rischio tutte le persone prive di una assicurazione personale o impossibilitate a sopperire economicamente alle ingenti spese mediche (Valerio & Fazzari, 2012).
Nella versione definitiva del DSM-5 la scelta della diagnosi di ‘Disforia di genere’ ha decretato, pertanto, la vittoria di una posizione intermedia tra le due appena citate. In effetti, sono state riconosciute sia l’esigenza di mantenere una diagnosi al fine di garantire l’accesso alle cure e sia, al contempo, la necessità di impiegare termini più neutrali, evitando accezioni stigmatizzanti.
Attualmente, in modo simile con quanto avvenuto per il DSM, è in atto il processo di revisione in vista dell’undicesima versione dell’ “International Classification of Disease” (ICD), la cui pubblicazione è prevista per il 2017. Analogamente alla American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, autrice di questo manuale, sta ipotizzando criteri diagnostici capaci di ridurre lo stigma associato alla diagnosi ed allo stesso tempo garantire l’accesso alle cure mediche. Stando all’attuale materiale pubblicato da alcuni membri del gruppo internazionale, la diagnosi proposta è quella di ‘Incongruenza di genere’.

In conclusione si può ricordare la legge n. 164 promulgata in Italia nel 1982, legge che consente l’operazione chirurgica di riassegnazione anagrafica del sesso. Questa legge, sebbene per l’epoca fosse all’avanguardia nell’intero panorama europeo, mostra oggi tutta una serie di limiti. Essa, infatti, obbliga le persone che desiderano modificare la propria identità anagrafica ad intervenire sul proprio corpo per modificare i caratteri sessuali. Tali manovre chirurgiche, il cui risultato è irreversibile, implicano la completa sterilizzazione della persona dal momento che vengono completamente asportati gli organi genitali. È evidente che in tale situazione non siano rispettati i diritti basilari della persona. A sostegno della necessità di un radicale ripensamento di tale apparato legislativo possiamo sottolineare anche la perdita di diritti sperimentata dalle persone transessuali quando, al momento del cambiamento anagrafico, vedono sciogliersi l’eventuale matrimonio precedentemente contratto. Tale situazione legislativa, quindi, appare ancora piuttosto lontana da quanto proposto da Thomas Hammarberg, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, che, nel 2009, ha indicato al Consiglio stesso una serie di raccomandazioni. Tra queste vi è l’invito a implementare una politica di tutela dei diritti per le persone con varianza di genere, contribuire a ridurre le discriminazioni che costantemente subiscono le persone transessuali/transgender in termini di crimini di odio e di transfobia e, naturalmente, sollecitare il legislatore ad abolire l’obbligo di sottoporsi ad interventi chirurgici che provocano la completa sterilizzazione, oggi ancora necessari per vedersi riconosciuta l’identità anagrafica che si sente propria.
Resta ancora moltissimo da fare. Ci auspichiamo che la comunità scientifica possa continuare a creare occasioni di scambio per meglio comprendere i bisogni di questa particolare popolazione che presenta varianza di genere poiché è solo attraverso l’impegno di tutte le istituzioni che è possibile superare i pregiudizi e riconoscere la particolarità e la specialità di queste esperienze umane significative. Ed in questo senso, l’auspicio non può che essere che l’intera società possa diventare maggiormente inclusiva, capace di riconoscere e valorizzare l’infinito apporto che ci viene offerto da ciascuna forma di diversità.

Nota:
Parti di questo contributo sono tratte da Valerio et al. (2001) “Il transessualismo. Saggi psicoanalitici” (FrancoAngeli). Valerio P. Fazzari P. (2012) “Alcune note sul ‘fenomeno transessuale’ oggi: un disturbo da depatologizzare?” (Mimesis). Vitelli R., Fazzari P., Valerio P. (2013) “Le varianti di genere e la loro iscrizione nell’orizzonte del sapere medico-scientifico: la varianza di genere è un disturbo mentale? Ma cos’è, poi, un disturbo mentale?” (FrancoAngeli).

Bibliografia

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Politiche di welfare e persone LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it/politiche-di-welfare-e-persone-lgbt/ Thu, 18 Dec 2014 09:00:09 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2149 A cura di Chiara Saraceno, Honorary Fellow al collegio Carlo Alberto di Torino.

Il sistema di welfare riguarda l’insieme delle misure di sostegno economico e di offerta di servizi che forniscono protezione agli individui e alle famiglie rispetto ai diversi rischi cui possono incorrere: malattia, disoccupazione, vecchiaia, costo dei figli, necessità di conciliare cure familiari e partecipazione al lavoro remunerato e così via. I sistemi di welfare differiscono tra loro, da un paese all’altro, per ampiezza e tipo dei rischi che coprono, per grado di universalismo, piuttosto che selettività e/o categorialismo e per grado di generosità.

Ha senso parlare di politiche di welfare specifiche per le persone LGBT, o si tratta piuttosto di considerare se, e in che misura, le persone LGBT e/o i loro familiari siano escluse di fatto o di principio da determinate politiche di welfare, nazionale o municipale, pubblico o privato (aziendale, assicurativo)? Probabilmente sono necessari entrambi gli approcci. Comunque vale la pena di rifletterci, senza dare nulla per scontato.

Incomincerò dal secondo, apparentemente più semplice, sia concettualmente, sia a livello descrittivo. Ci sono degli ambiti di welfare da cui le persone LGBT sono escluse in quanto tali, in Italia? La risposta è positiva e riguarda situazioni in cui oggetto del welfare sono relazioni – di coppia o di generazione – più che l’individuo singolo. Esse dipendono dal mancato riconoscimento di uno statuto legale alla coppia e al genitore non biologico. Riguardano la pensione di reversibilità (non estendibile al compagno/a, e tantomeno ai suoi genitori in caso di necessità, ma neppure ai figli non biologici e non riconoscibili come propri legalmente). Riguardano l’impossibilità di far valere i figli che non si sono potuti riconoscere come componenti della famiglia ai fini dell’ottenimento degli assegni al nucleo familiare, o per fruire delle detrazioni per figli a carico (anche se questa impossibilità può essere più che compensata dal fatto che il reddito del compagno/a non rientra nel calcolo del reddito familiare e che l’unico genitore legale può fruire dell’intera detrazione). In parte le persone LGBT condividono questa situazione (ad esempio nel caso della pensione di reversibilità) con le coppie di sesso diverso che non sono sposate. Ciò non vale, tuttavia, nel caso dei figli (della coppia dello stesso sesso). Da quando, infatti, sono state eliminate tutte le differenze tra figli naturali e legittimi, gli unici figli a non essere equiparati e ad essere destinati a rimanere orfani di un genitore (quindi anche mancanti di tutto un ramo parentale, ad esempio dal punto di vista ereditario) sono i figli delle coppie dello stesso sesso o di una coppia in cui vi sia un partner transessuale, se non ha compiuto fino in fondo la transizione fisica all’altro sesso e quindi non ha potuto modificare lo stato civile. Sono i figli, quindi, ad essere maggiormente svantaggiati. Come disse Carlo Moro, giudice minorile, alcuni decenni fa a proposito dei figli naturali, essi sono singolarmente protetti in un paese in cui gran parte della protezione dei minori è affidata alle famiglie, anche allargate alla parentela (vedi la figura dei ‘familiari tenuti agli alimenti’, prevista dall’art. 433 del codice civile).
In altri settori la situazione è più a macchia di leopardo e con forti differenziazioni locali, (ad esempio nell’accesso all’edilizia popolare, sempre da parte di coppie, dato che i singoli non hanno quasi possibilità di accesso e comunque non verrebbe loro richiesto il loro orientamento sessuale). Per quanto riguarda il riconoscimento del diritto ad essere accompagnati e a far valere il proprio diritto e responsabilità di compagni/e nei luoghi di cura sanitaria mi risulta che, almeno sul piano formale, non esistano più discriminazioni, anche se il fatto di essere una coppia non è garantito automaticamente dal fatto di essere in una unione legale, quindi sempre vulnerabile (come per le coppie non sposate di sesso diverso). Ancor di più, paradossalmente, il riconoscimento dei diritti di coppia vale nel diritto penale, che riconosce i diritti di visita, quindi di solidarietà e cura, ai compagni/e allo stesso modo dei coniugi, a prescindere dal sesso (art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e art. 37 del D.P.R 30 giugno 2000, n. 230).
Variegato anche il settore del welfare aziendale, dove si passa da contratti (all’Ikea, in Telecom, in Intesa San Paolo) che riconoscono il congedo matrimoniale a tutte le coppie, a prescindere dal sesso e dallo status legale, ad altri che non riconoscono neppure, nel proprio sistema sanitario aziendale, le cure di maternità (esami medici, cure ospedaliere) alle compagne dei propri dipendenti, se non sono sposati. Queste discriminazioni si configurano anche come vere e proprie discriminazioni reddituali, dato che incidono su fringe benefits (ovvero elementi complementari alla retribuzione principale che consistono sostanzialmente nella concessione in uso di beni o servizi) economicamente non irrilevanti.

Quanto alla necessità di politiche di welfare specifiche per le persone LGBT, mi verrebbe da dire, ma la riflessione è aperta, che occorrerebbe innanzitutto sensibilizzare i servizi (i consultori familiari, l’assistenza sociale) all’esistenza di queste persone e ai problemi che possono incontrare nel corso della vita. C’è qui un ampio spazio non solo per l’iniziativa e la responsabilità della scuola e degli insegnanti, ma anche dei dirigenti dei servizi. È, quindi, importante l’impegno degli enti locali, in quanto garanti della qualità dei servizi sui territori di loro competenza. Un discorso a parte va fatto per le persone transessuali, sia nel corso del processo di transizione da un sesso all’altro, sia al suo compimento, se si compie, o nello stato in cui decidono di rimanere. Più che tendere a favorire e controllare una socializzazione (con forti rischi di stereotipia) al genere (più che al sesso) di arrivo, come ancora avviene, i servizi dovrebbero accompagnare e sostenere un processo che per forza di cose avviene ‘in pubblico’. Esso perciò richiede forti capacità di elaborazione, mediazione, collocazione di sé, da parte della persona coinvolta, ma anche comprensione e accompagnamento da parte del suo intorno sociale: famiglia, scuola, ambiente di lavoro, amicizie .
In alcuni paesi, infine, è stata messa a fuoco la questione della vecchiaia delle persone omosessuali, che, almeno per chi è anziano oggi, sembra essere caratterizzata da maggiori rischi di solitudine e di mancanza di reti familiari rispetto alle persone eterosessuali, anche se ciò, come per gli eterosessuali non (più) coniugati, vale più per i maschi che per le femmine. Allo stesso tempo, se sono in coppia, alle persone omosessuali è più difficile trovare ospitalità in case di riposo rispetto a coppie anziane di sesso diverso. Perciò, ad esempio in Germania, in collaborazione tra pubblico e privato si stanno organizzando case di riposo specificamente destinate alle persone omosessuali.
Sono prime riflessioni, che dovranno essere approfondite, integrate, anche criticate.

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Dallo pseudo-ermafroditismo alla intersessualità fino al DSD: le mille sfumature della medicalizzazione dei corpi intersessuati http://www.portalenazionalelgbt.it/dallo-pseudo-ermafroditismo-alla-intersessualita-fino-al-dsd-le-mille-sfumature-della-medicalizzazione-dei-corpi-intersessuati/ Fri, 01 Aug 2014 08:19:27 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1406 A cura di Daniela Crocetti, Ph.D. in Science, Technology and Humanities, Università degli Studi di Bologna.

Obiettivo di questo articolo è discutere in chiave socio-storica le modalità con cui è stata interpretata l’esperienza dell’intersessualità nel corso dei secoli prestando particolare attenzione alle connessioni tra le norme sociali sul genere e la sessualità, la medicina e le esperienze delle persone intersex.
Le società occidentali dividono gli individui nelle rigide categorie di maschi e femmine e, a partire dall’appartenenza ‘biologica’ ad una di queste, collocano gli individui nelle altrettanto rigide categorie sociali di uomini e donne, ovvero presumono che esistano solo due sessi e, a partire da essi, solo due generi.
In occidente fino al 1800 questo processo era definito principalmente dagli aspetti somatici del corpo (le caratteristiche secondarie del sesso, quali la presenza del seno nelle donne e della barba negli uomini) e dalla forma dei genitali, ovvero venivano identificati come uomini e come donne coloro che sviluppavano un corpo considerato adeguato ad uno dei due sessi. Gli individui il cui corpo non rispondeva a questa dicotomia maschile/femminile (contemporaneamente biologica e sociale) venivano stigmatizzati. A questo processo di stigmatizzazione si aggiunse – dal tardo medioevo nelle culture europee e, successivamente, in quella del nord America – la criminalizzazione dell’omosessualità e le persone intersessuate vennero discriminate non solo in base alle differenze di genere, ma anche rispetto al loro presunto orientamento sessuale non eterosessuale. A questo proposito, il filosofo Michel Foucault ipotizza che dal 1600 al 1700 nelle società occidentali ci sia stato uno spostamento dalla considerazione del corpo-diverso inteso come mostruoso (contro l’ordine e regole della natura) alla considerazione di ciò che allora chiamavano ermafroditismo come una minaccia di omosessualità.
Sebbene già dal ‘600 ci siano casi di medici interpellati per stabilire ‘il vero sesso’ di una persona, è dal 1800 che emerge una vera e propria ossessione medica sui cosiddetti casi ‘di sesso dubbio’: viene quindi coniato il termine ‘pseudo-ermafrodito’ per indicare coloro che non è possibile indentificare chiaramente come maschi o come femmine in base alle loro caratteristiche fisiche. È in quegli anni, infatti, che la scienza medica scopre le funzioni differenti svolte dalle gonadi (ovaie nelle femmine e testicoli nei maschi) nella riproduzione, ed è da questo momento che esse cominciano ad essere considerate degli indicatori del sesso degli individui. Prima di allora si credeva che la vagina fosse un pene introflesso (e poco sviluppato), e che ovaie e testicoli svolgessero la medesima funzione. I medici allora pensarono di aver scoperto il ‘vero indicatore del sesso biologico degli individui’, laddove la forma dei genitali non corrispondeva al genere che si manifestava in altre parti del corpo.
Sulla base di questo presunto dato, i medici diventano i ‘guardiani’ del sesso legale (ovvero quello riconosciuto dai documenti di identità) e acquistano l’autorità di obbligare una persona ad assumere un’identità di genere piuttosto che un’altra in virtù del sapere medico. È il triste caso di Herculin Barbin raccontato da Michel Foucault, cresciuta femmina col nome di Alexina e morta suicida a 25 anni dopo 4 anni in cui venne obbligata a vivere da uomo in base a quanto stabilito dalle ricerche mediche sul suo conto.
Tuttavia non vi era consenso nella comunità scientifica su come procedere nell’attribuzione del sesso legale nei casi in cui il corpo presentasse elementi sia maschili che femminili. Certi medici insistevano sulla necessità che gli individui assumessero il sesso legale rispecchiato nella loro materia gonadica (ovaie o testicoli) a prescindere dall’aspetto del corpo, dalla forma dei genitali e dall’identità di genere percepita; altri medici, invece, consideravano prioritari gli aspetti sociali, ovvero l’identità di genere ma, soprattutto, l’orientamento sessuale, e insistevano sulla necessità che gli individui assumessero legalmente il genere che li rendeva eterosessuali ovvero il genere opposto rispetto a quello delle persone da cui erano affettivamente ed eroticamente attratte.
All’inizio del ‘900, invece, la medicina scopre ulteriori elementi del corpo che riguardano il sesso biologico come gli ormoni, i cromosomi sessuali e, da questi, anche i marcatori genetici. Il termine ‘intersessuale’, infatti, risale alla ricerca di Richard Goldschmidtpubblicata nel 1917 – sull’effetto degli ormoni nello sviluppo dei tratti sessuali delle farfalle. In questa ricerca Goldschmidt scoprì il ruolo degli ormoni nello sviluppo dei tratti sessuali e ipotizzò che essi giocassero un ruolo anche nei casi in cui gli individui presentavano elementi biologici di entrambi i sessi. Negli anni ’30 il noto endocrinologo ed embriologo Frank Lillie confermò questa teoria sull’impatto degli ormoni nello sviluppo del corpo sessuato, avanzando la tesi che il sesso biologico fosse composto dall’insieme di tutti questi elementi del corpo.
Negli anni ’50 John Money dell’Hopkins Institute negli Stati Uniti attraverso una ricerca sulle cartelle cliniche delle persone da lui ancora chiamate ‘pseudo-ermafroditi’, stabilì che esse non avevano particolari problemi psichici, ma che era necessario modificare (ovvero normalizzare) chirurgicamente i genitali laddove la loro forma o grandezza non corrispondeva in pieno al genere assegnato alla nascita. Negli stessi anni Andrea Prader sviluppa una scala di grandezza (la Prader scale) che codifica per la comunità medica la differenza tra i genitali maschili e quelli femminili.
Money fu una personalità rivoluzionaria per l’epoca, ma allo stesso tempo condizionò in maniera negativa la pratica medica dei decenni a seguire. Da un lato, infatti, egli sottolineò come quello che oggi chiamiamo ‘identità di genere’ sia un fatto sociale, condizionato più dall’ambiente in cui si cresce che dalla biologia. Dall’altro, pero, individuò proprio nella forma ‘normale’ dei genitali (secondo la scala di Prader, appunto) uno dei fattori cruciali per essere socialmente accettati come maschi o come femmine.
A partire da questo assunto diventò prassi intervenire chirurgicamente sui genitali del bambino prima dei tre anni in casi di genitali di grandezza non standard, senza informare i genitori del perché (per non insinuare dubbi rispetto al genere del bambino), spesso in direzione femminile. Dalla fine degli anni ‘90, con la scoperta di sempre più varietà di forme di intersessualità, si é pian piano smesso di assegnare il genere femminile a tutti i casi ambigui, benché gli interventi chirurgici precoci rimangano un problema in quanto questa procedura ha creato dei danni psicologici enormi a coloro che l’hanno subita, violando la loro intima percezione di sé come uomini o come donne e spesso eliminando la loro capacità di raggiungere un orgasmo nell’età adulta. Di questo modello ‘interventista’ fanno parte altre modalità mediche: l’asportazione di ovaie o testicoli per ‘proteggere’ l’identità di genere assegnata, gli spostamenti dell’uretra per agevolare l’urinare in piedi, le terapie ormonali per rinforzare il genere somatico, e così via. Tutte queste tecniche mediche, tuttavia, comportano problematiche e controindicazioni non indifferenti, e rispecchiano più una medicalizzazione di aspetti sociali della vita che non la ricerca di una buona salute fisica.
Negli ultimi decenni del ‘900, con il crescere della consapevolezza rispetto agli interventi non informati, attivisti e pazienti iniziano a problematizzare la prassi medica in vigore sia rispetto alla scala di grandezza standardizzata dei genitali per i bambini, sia rispetto all’urgenza di ‘normalizzare’ la forma dei genitali, reclamando il diritto a partecipare alla scelta dei medici attraverso una reale e ampia informazione.
A partire dagli anni ‘90, il termine ‘intersessualità’, dunque, assume un altro significato: la parola rispecchia le politiche identitarie di genere e la lotta per il riconoscimento dell’esistenza di corpi diversi in un mondo sempre più medicalizzato. Nel 2006 un gruppo di medici, attivisti, pazienti e accademici ha coniato il termine ‘DSD’, acronimo della dicitura inglese Disorders of Sex Development, tradotta in italiano con Disordini della Differenziazione Sessuale. Questo nuovo termine, seppur importante, rimane controverso: da un lato, crea una netta separazione tra gli aspetti sociali e quelli biologici, non medicalizzando più l’orientamento sessuale o i comportamenti di genere non stereotipati; dall’altro, mantiene la stessa cornice normativa e medicalizzante (utilizzando tra altro il termine ‘disordini’) che vorrebbe modificare.
L’introduzione del termine DSD è avvenuta parallelamente ad un nuovo modello di cura centrato sull’individuo (Patient Centered Care Model) che insiste sul consenso informato e sul coinvolgimento dell’individuo/paziente. Questo modello rispecchia un cambiamento pratico che dovrebbe (ma non sempre) posticipare gli interventi ‘normalizzanti’ irreversibili a un età in cui la persona stessa può essere coinvolta nella decisione. A questo viene aggiunto l’importantissimo lavoro di sostegno psicologico ai genitori, per far loro comprendere e amare i propri figli, spostando l’attenzione dalla ‘correzione’ medica della diversità alla sua accettazione sociale.

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Omofobia: le fonti psico-sociali delle discriminazioni http://www.portalenazionalelgbt.it/omofobia-e-transfobia/ Thu, 24 Jul 2014 09:50:37 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1229 A cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma. Parti di questo articolo sono tratte da “Citizen gay. Affetti e diritti” di Vittorio Lingiardi (ed. Il Saggiatore, 2012) e da “Linee guida per la consulenza psicologica con persone lesbiche, gay, bisessuali” di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli (ed. Cortina, 2014).

Il 17 maggio di ogni anno si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, una ricorrenza riconosciuta nel 2007 dall’Unione europea e finalizzata a promuovere eventi internazionali di prevenzione e sensibilizzazione nei confronti di queste piaghe sociali e psicologiche. Scrivere, nello stesso contesto, di omosessualità, bisessualità, transgenderismo e transessualismo è problematico perché si corre il rischio di assimilare realtà e esperienze tra loro diverse. Inoltre, le omosessualità e le bisessualità (uso il plurale per sottolineare l’infinito articolarsi delle -sessualità, eterosessualità comprese) riguardano principalmente l’orientamento sessuale di un individuo. Le transessualità e, più in generale, le dimensioni transgender, invece, riguardano principalmente le identità e i ruoli di genere di un individuo.

Per motivi di spazio, in questo contributo parlerò principalmente di omofobia (ossia di disagio, paura, pregiudizi, svalutazione, avversione e/o ostilità, su base psicologico-individuale e/o ideologico-collettiva, nei confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità), ben consapevole dell’esistenza e dell’impatto psicologico e sociale della transfobia, ossia di pregiudizi e comportamenti negativi, stigmatizzanti, discriminatori e ostili, nei confronti della persona transessuali e transgender.

Per decenni gli studi scientifici hanno ‘indagato’ l’omosessualità come ‘problema’ da conoscere e, spesso, ‘risolvere’. È solo dai primi anni settanta che la comunità scientifica ha iniziato a considerare come oggetto di studio e ricerca non tanto l’omosessualità, quanto l’omofobia, nelle sue molte manifestazioni.
Se per tanti anni la domanda è stata «Perché sei omosessuale?» (domanda senza risposta, esattamente come «Perché sei eterosessuale?», anche se quest’ultima è raramente formulata), oggi la domanda è sempre più spesso «Perché sei spaventato dall’omosessualità o ostile alle persone omosessuali?». La ricerca sulle cause (il più delle volte considerate patologiche) dell’omosessualità ha progressivamente ceduto il passo alla ricerca sulle cause e le espressioni dell’omofobia.
Di pari passo è cambiata la pratica clinica, che ha abbandonato i modelli patologizzanti e bandito le cosiddette ‘terapie riparative’ (finalizzate alla cura dell’omosessualità), la cui inefficacia e i danni emotivi prodotti sono scientificamente ben documentati.

È uno psicologo, George Weinberg, a coniare, nel 1972, la parola omofobia per descrivere la paura irrazionale di trovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali e le reazioni di ansia, disgusto, avversione o intolleranza che alcuni eterosessuali possono provare nei confronti di persone gay e lesbiche. Dal problema sociale rappresentato dall’omosessualità Weinberg sposta l’attenzione a quello psicologico degli atteggiamenti verso di essa, privilegiando gli aspetti emotivi dell’omofobo più di quelli cognitivi. Tuttavia, pur annoverandola tra le ‘fobie classiche’, Weinberg sottolinea la portata aggressiva dell’omofobia e la propensione a convertirsi in violenza, caratteristiche che la qualificano come fobia ‘atipica’.
Il termine omofobia, infatti, porta l’attenzione soprattutto sulle cause individuali e irrazionali della ‘fobia’, trascurandone componenti cognitive e radici culturali e sociali, oltre che la parentela con altri modi di ‘odiare in prima persona plurale’, come la misoginia, la transfobia, il razzismo, la xenofobia. Molti studiosi preferiscono, dunque, il concetto multidimensionale di omonegatività, secondo il quale l’omofobia in senso stretto sarebbe solo un fattore nel contesto più ampio di atteggiamenti che coinvolgono il piano sociale, politico, culturale, legale, morale. In altre parole, molti dei comportamenti e affermazioni comunemente considerati omofobici o transfobici non sono principalmente basati sulla paura o l’imbarazzo, ma piuttosto sul pregiudizio e la disapprovazione.

Tuttavia, sebbene abbia esteso la classificazione degli atteggiamenti antiomosessuali, il termine omonegatività è stato poco utilizzato. Gregory Herek, nel 1990, propone di utilizzare il termine eterosessismo, intendendo «un sistema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità non eterosessuali». In questo modo vuole ribadire come il pregiudizio antiomosessuale non sia solamente un’entità individuale e clinica, ma un fenomeno sociale le cui radici sono rintracciabili nelle ideologie culturali e nelle relazioni intergruppo.

Tornando alle dimensioni psicologiche, l’avversione o la diffidenza nei confronti di gay e lesbiche deriva dalla preoccupazione per un disordine, qualcosa di ‘fuori posto’ rispetto ad assegnazioni binarie rassicuranti e eteronormative del tipo ‘i maschi sono attratti dalle femmine’ e ‘le femmine sono attratte dai maschi’. Al punto da pensare che se una donna è attratta da una donna ‘non è una vera donna’ e se un uomo è attratto da un uomo ‘non è un vero uomo’ (confondendo così l’orientamento sessuale con l’identità di genere). Da qui il bisogno di darsi una rassicurazione riguardo alla propria ‘mascolinità’ o ‘femminilità’ e, implicitamente, alla propria ‘eterosessualità’. Un fondamento dell’omofobia, infatti, consiste in una sorta di polarizzazione difensiva dei ruoli di genere, che porta a temere o disprezzare i fantasmi di passività e dipendenza nell’uomo e di attività e autosufficienza nella donna. Si tratta di credenze ingenue e fortemente influenzate dagli stereotipi di genere, ma terribilmente efficaci nel lasciare pregiudizi e ingiustizie ‘al loro posto’.

Ad alimentare le radici più arcaiche dell’omofobia e della transfobia contribuisce certamente l’innegabile aumento della visibilità omo- e transessuale nella vita domestica, nella giurisdizione internazionale, nell’immaginario collettivo. Se in passato, lo scandalo era la ‘devianza’, oggi ciò che preoccupa e spaventa, fino all’odio, è la possibilità di una normalità omo- e transessuale e della sua realizzazione affettiva. Il problema, dunque, è la richiesta di appartenere a pieno diritto al tessuto sociale. In una parola, la cittadinanza.
Attraversando i territori più diversi, pubblici e privati, mediatici e istituzionali, l’omofobia può avere ripercussioni a breve e a lungo termine sulla salute psichica e fisica delle persone omosessuali. Il termine tecnico è minority-stress, condizione di disagio e/o sofferenza che si compone di tre dimensioni che si intrecciano e potenziano vicendevolmente:

  • a) esperienze vissute di discriminazione e violenza;
  • b) stigma percepito;
  • c) omofobia interiorizzata. Analogamente per la transfobia.

«Non occorre essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi» recita un verso di Emily Dickinson. I fantasmi dell’omofobia possono occupare la psiche in vari modi. Alcuni hanno la prepotenza del bullismo, altri possono sembrare addirittura pietosi e tolleranti (la tolleranza!, «una forma di condanna più raffinata», diceva Pier Paolo Pasolini).
Spesso eleggono a dimora la vita interiore delle persone omosessuali stesse, e producono autodisprezzo, vergogna, a volte la voglia di farla finita. Qui il termine tecnico è omofobia interiorizzata, a indicare l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una persona può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti della propria omosessualità. Lo stigma percepito riguarda, invece, il livello di vigilanza relativo alla paura di essere ‘identificati’ come gay o lesbiche, per cui quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto più alto sarà il grado di allerta e sensibilità all’ambiente. Rientra nella dimensione dello stigma percepito anche il timore per le reazioni che potrebbe suscitare il proprio coming out, per esempio in famiglia o sul posto di lavoro. Un altro termine di questo doloroso vocabolario è bullismo omofobico, in riferimento a azioni offensive a carattere omofobico subite da bambini/e o ragazzi/e da parte di uno o più membri del gruppo dei pari, intenzionalmente e ripetutamente nel corso del tempo. Le aggressioni, fisiche e/o verbali, sono dirette verso l’orientamento sessuale (reale o presunto) oppure verso il ruolo di genere (bullismo di genere) non conforme alle aspettative socioculturali.

Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei propri genitori, la derisione dei compagni di scuola, può essere davvero insopportabile. Fortunatamente a molte persone gay e lesbiche non mancano le capacità e le risorse per fronteggiare con successo le esperienze traumatiche, riorganizzando positivamente la propria vita. Alcune di loro, però, si mettono ingenuamente alla ricerca di interventi psicologico-comportamentali volti alla modifica del proprio orientamento sessuale. In questi casi, il compito degli psicologi e degli psicoterapeuti è riconoscere e affrontare senza pregiudizi i molti temi che possono riguardare la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender e delle loro famiglie: in una società dove le persone non eterosessuali vengono discriminate in dimensioni fondamentali della loro vita, è importante che i professionisti della salute mentale siano in grado di ascoltarle, comprendendo le loro difficoltà e aiutandole a vivere appieno la vita in tutti i suoi aspetti.

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Chi ha paura dei/delle trans? http://www.portalenazionalelgbt.it/chi-ha-paura-deidelle-trans/ Thu, 24 Jul 2014 09:45:14 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=3230 A cura di Giorgio Cuccio, attivista trans.

In Italia, nel 1982, viene approvata la legge 164/82 che riconosce la rettificazione anagrafica del nome e del sesso di una persona «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». Infatti è dagli anni ottanta che la legislazione italiana e la comunità medica, sulla spinta delle teorie psicologiche e sociologiche sul genere, sentono rispettivamente il dovere e l’interesse di prendere in carico le persone trans per ‘curare’ quello che fino ad oggi è stato chiamato ‘disturbo’ (DSM III e IV) e recentemente è stato rivisto come ‘disagio’ (Cfr. “Tra patologizzazione e de-patologizzazione”).
Va ricordato che la legge 164/82, a causa dell’ambiguità del testo, ha fatto sì che le persone trans, per ottenere il cambio dei documenti, dovessero sottoporsi obbligatoriamente ad interventi chirurgici sui genitali, al di là del reale desiderio di sottoporsi a tali interventi, mentre la comunità medica non ha proposto dei percorsi alternativi, lasciando all’interpretazione giuridica il compito di decidere sulla vita delle persone. In questi ultimi anni, sotto le spinte del movimento trans, sono state emesse alcune sentenze che autorizzano il cambio anagrafico senza l’obbligo degli interventi di sterilizzazione (Cfr. “Identità di genere”); dal canto suo la comunità scientifica sta riconoscendo la pluralità psicologica e fisica delle esperienze trans, non seguendo un unico criterio di valutazione e proposta di percorso. Rimangono tuttavia nel percorso di transizione problematiche legate al periodo-limbo che intercorre dall’inizio della transizione all’adeguamento dei documenti: la persona trans con le terapie ormonali si trova infatti a vivere nel genere scelto molto prima di potere avere accesso al cambio anagrafico e questo comporta una maggiore esposizione ad episodi di discriminazione, soprattutto nei luoghi di lavoro.

Nonostante l’attenzione della giurisprudenza, la società ha tenuto e continua a tenere le persone trans ai margini: l’immaginario collettivo relega soprattutto le donne trans ad una condizione di degenerazione, vizio ed emarginazione, attuando atteggiamenti discriminatori, denigratori, quando non apertamente persecutori e violenti. Secondo una statistica pubblicata sul sito TGEU, l’Italia, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2014, è stato il Paese europeo in cui sono state uccise il maggior numero di persone trans, senza contare gli innumerevoli casi di violenza come ‘la caccia alle trans’ del 2008 in un quartiere di Roma. Discorso a parte va fatto per gli uomini trans che per una minore visibilità subiscono forme di discriminazione più sottili, tranne in alcuni casi in cui l’accesso all’identità maschile viene scoperto e punito violentemente da quegli uomini che pensano di dovere ‘correggere’ e riportare al sesso biologico dei potenziali ‘usurpatori’ della mascolinità.

La parola transfobia, nell’uso comune, indica, dunque, forme di profonda avversione nei confronti delle persone trans come quelle appena descritte.

Il termine ‘fobia’ intesa come paura – più o meno razionale – di essere contaminati, aggrediti, influenzati, appare poco adeguato a descrivere l’atteggiamento di discriminazione o marginalizzazione che si ha verso le persone trans. Tuttavia, dato che l’esperienza trans ridefinisce uno dei cardini con cui siamo abituati a catalogare il mondo, ovvero l’interconnessione tra sesso e genere, per cui ad una certa anatomia corrisponde in modo indissolubile un’identità sessuale ben precisa, allora forse la parola ‘fobia’ può tornare utile per definire il senso di smarrimento che le persone trans possono provocare negli altri – al di là della loro volontà.

Nella maggior parte dei casi però più che ‘fobia’ sarebbe corretto usare la parola ‘odio’.

È la difesa dei propri stereotipi mentali che muove alla discriminazione: ad esempio, l’accusa di ambiguità, ovvero l’idea – vera o presunta – che la persona che abbiamo davanti non corrisponda alle nostre aspettative in termini di consonanza sesso-genere, dissimula una discriminazione basata su pregiudizi ideologici giustificati in termini etici (non è moralmente legittimo identificarsi in un genere diverso da quello con cui si è nati/e) o estetici (sono uomini o donne improbabili rispetto ai canoni estetici socialmente accettati). E tuttavia l’ambiguità, per quanto all’apparenza sia ciò che viene condannato, in realtà è spesso quello che viene ricercato e chiesto alle persone trans, purché si rimanga nella clandestinità, nel tabù, nell’illusione della trasgressione.

A volte il pregiudizio viene utilizzato in modo pretestuoso e si fonda sull’opportunismo: si preferisce aderire ad un atteggiamento discriminatorio per conformismo, al fine di ottenere consenso o sentirsi parte di una maggioranza. In questo caso «la discriminazione è attuata ogni qual volta se ne presentino l’occasione e l’opportunità: è un atteggiamento discrezionale nell’interesse del discriminante per allontanare il sospetto di essere diversi», per dirla con le parole di Diana Nardacchione. La discriminazione può essere quindi silenziosa in quanto attuata in modo non plateale o violento, ma agita attraverso l’esclusione, la sottovalutazione, l’inferiorizzazione. Questa discriminazione strisciante si riscontra soprattutto nei luoghi di lavoro dove le persone trans sono vulnerabili sia quando vivono la loro situazione nell’anonimato per paura di essere scoperte, sia quando sono visibili e quindi esposte ad atteggiamenti di pregiudizio conformista, alla sopraffazione e all’abuso di colleghi e datori di lavoro. Ciò rende le persone trans dei lavoratori/delle lavoratrici docili ed efficienti.

Come si è detto l’esperienza trans mette in discussione il paradigma dei due generi ed è per questo che si assiste ad una continua creazione di termini che provano a definire un’esperienza complessa e unica rispetto alle sensibilità e ai vissuti di ciascuno. A volte queste parole vengono proposte – o imposte – dai media, dalle scienze mediche e psicosociali; altre volte sono le stesse persone trans che cercano parole che possano raccontare un’esperienza al di là di stereotipi e luoghi comuni. Terzo sesso, transessuale, transgender, gender variant, MtF (male to female) e FtM (female to male), trans, eccetera sono tentativi di definire e definirsi sia ai propri occhi che e a quelli degli altri. Il linguaggio dunque può essere un campo aperto alla creatività così come diventare uno strumento di potere nel momento in cui serve a disconoscere o annullare le esperienze e le soggettività: l’uso arbitrario che i media fanno del maschile e del femminile per parlare delle persone trans denuncia, molto più di tante altre situazioni, l’atteggiamento discriminatorio con cui la società si pone verso l’esperienza trans. Attraverso il linguaggio le persone trans vengono ricondotte al sesso assegnato alla nascita, sottolineandolo come un dato immodificabile e imprescindibile; anche quando si ostenta un certo liberalismo, il richiamo al genere/sesso o al nome di nascita è immancabile per rimarcare un passaggio che non avrà mai piena legittimità in quanto non ab origine (per un corretto utilizzo del linguaggio si rimanda alle “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT“).

Per definire questo insieme di atteggiamenti sociali sarebbe, dunque, preferibile parlare di trans-negatività e non di transfobia, in modo da potere attuare pratiche di decostruzione di luoghi comuni e pregiudizi, ovvero pratiche di trans-positività, come ad esempio legittimare la percezione di sé della persona trans, utilizzando il genere scelto e/o la definizione che la persona dà di sé, anche quando le apparenze sembrano contraddire quella definizione. Esistono già buone pratiche che si stanno muovendo in tal senso: la possibilità in alcune Università di utilizzare il nome scelto, prima del cambio anagrafico, sul libretto universitario (ad esempio presso l’Università degli Studi di Torino)1; così come in alcuni ospedali la possibilità di essere ricoverato nei reparti del genere di elezione, sempre prima del cambio anagrafico. Un approccio di trans-positività permette alle persone trans di vivere la propria esperienza come un fatto positivo e arricchente per sé e per gli altri.

Nota:
[1] Vari sono gli Atenei, oltre all’Università di Torino, che lo hanno adottato, ad esempio Bari, Bologna, Catania, Genova, Napoli, Padova, Palermo, Pisa, Trento, Urbino, Venezia, Verona.

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Identità di Genere: quale genere di identità? http://www.portalenazionalelgbt.it/identita-di-genere-quale-genere-di-identita/ Fri, 27 Jun 2014 08:22:22 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1389 A cura di Lia Viola, Ph.D. in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione, Università degli Studi di Torino.

La prima domanda dinanzi alla notizia di una nuova nascita è quasi sempre relativa al sesso: maschio o femmina? Il desiderio che sta dietro a tale quesito è quello di potersi immaginare il futuro del nascituro: avrà una vita da uomo o da donna? Culla rosa o nastrino azzurro? Queste semplici domande – che diamo spesso per scontate e a cui non prestiamo attenzione – possono essere ritenute uno dei segnali che ci indica quanto la nostra società tenda a dividere rigidamente gli esseri umani in due sole categorie: maschi e femmine nonché a ritenere che una persona nata con un sesso maschile crescerà automaticamente e irreversibilmente con un’identità di genere da uomo e viceversa.
Eppure non tutti la pensano così: esistono culture che hanno sviluppato rappresentazioni diverse del genere e del suo rapporto con il sesso. Uno sguardo a queste altre realtà può esserci di aiuto per capire i processi di costruzione sociale del genere e come esso si sviluppi in maniera differente a seconda del contesto culturale di riferimento.
Gli Inuit dell’Artico alla nascita di un bambino erano, diversamente da noi, soliti dare poca importanza al suo sesso biologico. Essi infatti ritenevano che bisognasse capire quale antenato viveva in questo nuovo corpo, poiché ogni nascita non era altro che la reincarnazione di un individuo vissuto in precedenza. Poteva dunque accadere che in un bambino con un sesso maschile vivesse un antenato donna. Se ciò succedeva, gli Inuit stabilivano che, a dispetto del sesso biologico, il genere del bambino sarebbe stato femminile. In alcuni casi, ma non tutti, durante l’adolescenza la persona transitava verso il genere corrispondente al sesso. Sembrerebbe dunque che per gli Inuit l’anatomia umana, seppur abbia un suo valore, non sia l’unica variabile che determina il genere di un individuo.
La società occidentale, invece, tende a cercare nella biologia molte delle risposte ai comportamenti umani, come se bastasse avere un’anatomia femminile per sentirsi donna. O, ancor di più, come se, chiunque abbia un’anatomia femminile, ‘debba’ assolutamente sentirsi donna. Se provassimo a guardare noi stessi con occhi esterni forse troveremmo bizzarro notare quanto il nostro sguardo sia focalizzato sui genitali di un bambino: come se nella loro forma si potesse davvero leggere il futuro del neonato e capire se tra dieci o vent’anni avrà voglia di indossare una gonna o camminare su dei tacchi alti.
Ampliare il nostro sguardo verso altre società ci può forse aiutare a mettere in discussione le nostre categorie di pensiero e analizzare come il genere non sia mero riflesso di processi biologici. Per esempio, i Dogon del Mali, presso cui fece ricerca Marcel Griaule negli anni Trenta del Novecento, sapevano che la visione di genere di ogni persona è una questione complessa in cui la cultura gioca un ruolo molto importante. Essi, infatti, ritenevano che il bambino nascesse androgino e che la società avesse il ‘dovere’ di modellare il suo genere. Quindi secondo i Dogon il sesso biologico non è sufficiente per definire l’identità di genere del bambino. Piuttosto questa, per formarsi, ha bisogno di un intervento culturale.
In sintesi, gli Inuit ci hanno ricordato come, invece di considerare unicamente il sesso biologico, si possa scegliere di chiedere agli antenati quale sia il futuro di genere di un individuo. I Dogon ci hanno inoltre insegnato come la visione di genere di una persona sia un delicato meccanismo in cui la cultura ha un peso determinante. In conclusione di queste prime riflessioni potremmo dunque dire che il genere che ognuno svilupperà nel corso della propria vita sarà il frutto dell’interazione di tante variabili e dunque che non è detto che il sesso biologico sia l’unica fonte a cui attingere per immaginare il futuro di un bambino o di una bambina.
Infatti, durante la crescita alcune persone possono sviluppare un’identità di genere diversa da quella che è stata loro attribuita alla nascita. In Occidente siamo soliti usare i termini transessualità o transgenderismo per definire tali persone. Ancora una volta, l’esperienza di transitare da una categoria di genere all’altra non è esclusiva solo della nostra società. Per esempio in Sud Africa alcuni sangoma (guaritori) presentano un’identità di genere diversa dal sesso biologico. I sangoma sono delle persone che hanno ricevuto il potere medico attraverso l’esperienza della possessione. Si ritiene, infatti, che vi siano degli antenati morti troppo presto, che non hanno finito di fare tutto ciò che dovevano e che dunque cerchino dei corpi per concludere il loro percorso di vita. Attraverso un periodo di iniziazione e apprendistato il sangoma impara ad accogliere e gestire la possessione e in cambio riceverà il potere medico: la capacità di guarire le malattie. È un percorso molto complicato, e faticoso, in cui il corpo fa da tramite tra esistenze terrene e spirituali.
Ciò che del percorso di un sangoma ci interessa qui analizzare è il suo rapporto con la visione di genere. Infatti gli spiriti sembrano non dare molta importanza, almeno non quanto noi, alla coincidenza tra sesso e genere, e scelgono i corpi da possedere in base a parametri non meramente biologici. Dunque ogni tanto succede che un corpo di donna sia posseduto da uno spirito maschile e viceversa. Così inevitabilmente i sangoma modelleranno il proprio genere in base a quello dello spirito.
Se compariamo queste esperienze di vita con la nostra società ci rendiamo subito conto delle profonde differenze che esistono. In Occidente le persone transessuali sono ritenute, dalla scienza biomedica, come affette da disforia di genere. Se un sangoma del Sud Africa arrivasse in Italia si troverebbe dunque a essere classificato all’interno di una categoria psichiatrica che traduce la sua esperienza di vita attraverso il linguaggio della malattia: proprio lui (o lei) che i malati di norma li cura. La scienza psichiatrica occidentale classifica le persone transessuali come affette da disforia di genere proprio in virtù della nostra convinzione che sesso e genere siano legati da un nesso indissolubile. La questione qui non è quella di stabilire se la possessione degli spiriti sia in sé più ‘vera’ della biologia ma piuttosto di rendersi conto come un fenomeno possa essere guardato da più punti di vista. È dunque importante riflettere sul fatto che la nostra società, così come le altre, nel tentativo di comprendere la vita umana ha creato un modello relativo: esso è solo uno dei tanti possibili. Da questo punto di vista il processo di guardare alla forma anatomica di un corpo per decidere quale genere dovrà avere non ha in sé maggior valore di verità che chiedere agli antenati quale sarà il futuro di un bambino. È una vista parziale che si sofferma su un solo dato scordando di considerare che tante variabili contribuiscono a creare il profilo di genere di una persona.
Nelle società occidentali le persone transessuali hanno portato avanti una riflessione sul rapporto tra sesso e genere e sulle sfumature che questo può assumere in ognuno di noi. Ciò ha spinto la scienza psichiatrica a interrogarsi sulle proprie categorie diagnostiche e a iniziare un percorso che si spera possa condurre alla completa depatologizzazione del transessualismo. I primi passi lungo questa strada hanno visto un riconoscimento del fatto che l’identificazione di genere di una persona possa essere diversa da quella assegnata alla nascita senza che questo sia, di per sé, un indicatore di patologia psichiatrica. Piuttosto la scienza biomedica oggi ritiene che la disforia di genere possa provocare una sofferenza psichica notevole e che dunque le persone transessuali abbiano il diritto di modellare il corpo attraverso la chirurgia estetica e le cure ormonali.
Ma se il genere non è legato per forza al sesso e se alcune persone possono avere in sé sia l’esperienza del maschile che quella del femminile, cosa ci fa credere che il genere sia una identità fissa e immutabile? Gli Inuit attribuivano un genere alla nascita e poi a volte, durante l’adolescenza, esso veniva cambiato. Dunque consideravano che il genere potesse variare lungo il corso della vita individuale. Similmente in Sud Africa vi sono dei sangoma che vivono l’esperienza di essere posseduti da due antenati di sesso opposto e che dunque modellano la propria visione di genere in relazione a quale spirito sia più forte dentro di loro. Il corpo diviene così un luogo abitato da più forze che indirizzano i (o le) sangoma verso una rappresentazione altalenante del genere: a volte maschile e a volte femminile.
Su questo punto è forse importante tornare un attimo tra i Dogon del Mali che ci insegnavano che i bambini nascono androgini, pervasi sia di mascolinità che di femminilità. Essi ritenevano che fosse compito degli adulti scolpire il genere sui corpi dei neonati rimuovendo ciò che di maschile vi era in un corpo femminile (il clitoride) e ciò che di femminile in uno maschile (il prepuzio). I Dogon si arrogavano dunque il diritto di scegliere per il bambino, di sottrarlo all’androginia originaria incidendo il genere sul suo corpo. Seppur noi tradizionalmente non siamo abituati a intervenire sui genitali di un neonato, in fondo seguiamo un processo molto simile: decidiamo che un bambino crescerà come maschio o come femmina, lo educhiamo a questa dicotomia e se ciò non succede lo categorizziamo come malato.
Se ascoltassimo a fondo i Dogon, e la loro esigenza di modellare i corpi, intuiremmo che c’è una questione importante che sta alla base del bisogno di definizione. I bambini, secondo i Dogon, possono contenere dentro di loro sia il maschile che il femminile ma crescendo vengono esposti alla volontà della società che ‘incide’ su di loro un genere costringendoli ad abbandonare l’androginia originaria. Però, come alcuni/e sangoma ci insegnano, vi sono corpi che non amano essere classificati, che vorrebbero poter esprimere liberamente le loro esistenze senza doversi per forza identificare nel maschile o nel femminile. Noi siamo soliti chiamarli, qui in Occidente, transgender: essi sfuggono alle categorie e ci insegnano che in ognuno di noi vi può essere una compresenza di caratteri di mascolinità e di femminilità.
L’esperienza di genere più che un’identità fissa è quindi un viaggio in cui nulla è dato per scontato.

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Orientamento sessuale: storia di un concetto moderno http://www.portalenazionalelgbt.it/storia-concetto-moderno/ http://www.portalenazionalelgbt.it/storia-concetto-moderno/#respond Tue, 03 Jun 2014 08:55:40 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=10 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

L’orientamento sessuale è una delle componenti dell’identità sessuale, insieme a sesso biologico, identità di genere e ruolo di genere. Questi elementi costituiscono la percezione che ogni individuo ha della propria identità come essere sessuato, di come considera se stesso e di come desidera essere considerato dall’esterno. Tale complessa rappresentazione della sessualità è però cambiata nel corso della storia, così come è cambiata la concezione di ciò che si ritiene ‘sessuale’, tanto che quello che intendiamo oggigiorno con l’espressione ‘orientamento sessuale’ risale solamente alla seconda metà dell’800: la stigmatizzazione dell’omosessualità, infatti, è servita per definire l’eterosessualità come forma data per scontata ed universale di sessualità. Forse non tutte e tutti sanno che i termini ‘omosessualità’ ed ‘eterosessualità’ si plasmano solo all’interno dei nascenti Stati-nazione, quando le scienze prendono il posto della religione nel condannare determinati comportamenti e nel definire i confini della normalità.
La prima apparizione su carta stampata della parola ‘omosessuale’ si attribuisce a Károly Mária Benkert, scrittore ungherese anche chiamato con il nome tedesco Karol-Maria Kertbeny, autore nel 1869 di un pamphlet anonimo contro la proposta di accogliere nell’ordinamento prussiano una legge anti-sodomia. Anche il termine ‘eterosessuale’ viene coniato in quel contesto per definire l’attrazione sessuale tra persone di sesso diverso. La diffusione dei termini ‘omosessuale’ e ‘eterosessuale’ tra gli esperti medici per indicare una netta divisione identitaria tra persone omosessuali ed eterosessuali si deve al libro del 1886 dello psichiatra e neurologo tedesco Richard von Krafft-Ebing, “Psychopathia sexualis” – in cui, peraltro, compare anche il termine ‘lesbica’. Bisognerà invece aspettare il volgere del secolo affinché anche il termine ‘bisessuale’, prima utilizzato per definire le persone ermafrodite, acquisisca il significato che gli attribuiamo ora di attrazione sia per il sesso femminile che per quello maschile.

Sebbene non sia facile ripercorrere i significati che nella storia occidentale sono stati dati al comportamento omosessuale, su un aspetto c’è piena condivisione: prima dell’800 non esisteva nel senso comune la concezione di ‘orientamento sessuale’, e il mondo non era nettamente diviso tra eterosessuali e omosessuali. Inoltre, per quel che riguarda le relazioni tra donne, è importante in primo luogo tenere in considerazione un dato di fatto fondamentale, ovvero che la Storia – della sessualità così come di tutti gli altri ambiti della vita – è stata scritta fino a tempi molto recenti solo dagli uomini e sugli uomini: questo fa sì che, ad oggi, sia ancora difficile rinvenire documenti che riportino narrazioni d’amore di donne per altre donne. Il neologismo ‘lesbian herstory’ definisce proprio lo sforzo fatto nell’ultimo mezzo secolo da storiche, teoriche femministe e attiviste per ricostruire le storie lesbiche del passato. L’eccezione più conosciuta a questa invisibilizzazione risale alla Grecia Antica, in particolare al VI secolo a.c., periodo in cui Saffo visse a Lesbo: dalla poetessa e dall’isola derivano infatti i due aggettivi più diffusi per definire le donne lesbiche che intraprendono rapporti saffici.

Gli studi storici e antropologici occidentali hanno suddiviso l’interpretazione delle relazioni omoerotiche in tre momenti che si sovrappongono, dato che la divisione ha una finalità prettamente analitica ma i passaggi storici sono molto più graduali e lenti rispetto alle date simboliche che vengono scelte per fissarli, e alcuni modelli permangono nel tempo a seconda della cultura di riferimento o della classe sociale di appartenenza.

Il primo modello di relazione omoerotica individua come discrimine l’età. Ad esempio nell’antica Grecia, i rapporti sessuali omoerotici facevano parte dell’iniziazione alla vita adulta dei giovani maschi e costituivano un rito di passaggio nell’acquisizione della virilità: avvenivano tra un uomo adulto libero, che ricopriva il ruolo penetrativo, quindi considerato attivo, e un adolescente libero nel ruolo ricettivo, quindi considerato passivo. Tali rapporti prevedevano una forte disparità di potere e di prestigio, confermata anche dalla differenza di ruoli che segnalava la diseguaglianza sociale: in questo periodo storico, dunque, l’opposizione non era tanto tra persone omosessuali ed eterosessuali (concetti che all’epoca non esistevano), quanto tra una sessualità attiva, esercitata da uomini adulti e liberi, e una sessualità passiva, espressa da soggetti considerati inferiori quali donne e adolescenti. Anche nella Firenze rinascimentale riscontriamo il tipo di relazione omoerotica caratterizzata da una forte disparità di età: le fonti storiche ci trasmettono frequenti relazioni nel campo delle arti tra maestro adulto e giovane allievo.

Il secondo modello di relazione omoerotica, che si afferma nel discorso pubblico a partire dalla seconda metà dell’800, è il paradigma dell’inversione di genere come malattia e come perversione. La novità di questo paradigma risiede nell’interpretazione dell’inversione in quanto malattia mentre, in altri periodi storici e contesti geografici, l’inversione di genere è considerata legittima e dà luogo a soggetti riconosciuti socialmente: alcuni esempi sono i Berdache nell’America settentrionale, i Ciukci nella Siberia settentrionale e i Daiacchi nel Borneo, ovvero giovani uomini che rivestono il ruolo sociale di donna e ricoprono a volte ruoli di prestigio. Questo paradigma segna un cambio epocale di prospettiva in cui il soggetto omosessuale inizia a essere considerato una specie a sé stante su cui la società può agire forme di controllo al fine di ricondurre dentro ai rigidi confini di genere i soggetti considerati malati. Esso permane ancora oggi, quando si confonde l’orientamento sessuale con l’identità di genere, o quando si associano all’omosessualità caratteristiche che nulla hanno a che fare con l’orientamento sessuale, come ad esempio la predisposizione alla perversione e alla menzogna per ambo i sessi, la sensibilità e la dolcezza negli uomini omosessuali, la scontrosità nelle donne lesbiche.
Prima della seconda metà dell’800, il diritto canonico e le leggi colpevolizzavano gli atti omosessuali attraverso le definizioni di ‘peccato‘ e ‘reato‘ che comportavano sanzioni e punizioni corporali nei confronti di chi si macchiava di tale atto. Le scienze che si affermano in questo periodo (pedagogia, medicina e psicologia), tuttavia, vanno oltre la condanna di un mero comportamento, fino a quel momento considerato accidentale nella vita di qualunque individuo, e intraprendono il tentativo di classificare le persone considerate intrinsecamente devianti: attraverso la patologizzazione e la ricerca dell’origine di quella che viene considerata una vera e propria malattia avviene il passaggio da ‘comportamenti’ a ‘soggetti’ devianti.
In questo periodo si afferma l’idea che non è solo la sessualità non finalizzata alla riproduzione che deve essere condannata, ma che particolare attenzione deve essere prestata proprio all’oggetto del desiderio, ovvero a chi prova desiderio per persone del proprio stesso sesso, in quanto è attraverso questo desiderio che vengono messi in discussione i rigidi confini di genere e i ruoli nella società. Prende forma un’interpretazione della relazione omoerotica che ricalca il modello eterosessuale, in cui quindi gli uomini omosessuali vengono considerati non solo invertiti in quanto effeminati, ma malati in quanto rinunciano al proprio potere e ricoprono un ruolo passivo all’interno della coppia. Allo stesso modo, le donne che intraprendono relazioni con donne vengono considerate mascoline (e dunque malate) in quanto osano sottrarsi al potere maschile che le vuole subordinate nello spazio domestico, votate alla famiglia e alla maternità e assenti nello spazio pubblico. All’interno di una relazione omoerotica, dunque, solo uno dei due componenti viene considerato perverso, ovvero quello che disconosce i confini di genere: l’uomo effeminato (ma non l’uomo attivo), da un lato, e la donna mascolina (ma non la donna passiva), dall’altro.

Le condizioni sociali che hanno permesso l’affermarsi di un sistema teso a disciplinare il soggetto omosessuale sono da ricondurre ai grandi cambiamenti comportati dai processi di industrializzazione e urbanizzazione: la presenza maschile nell’arena pubblica viene messa in discussione dall’entrata nel mondo del lavoro delle donne. Di fronte a questo cambiamento, il potere che in quell’epoca si era sempre retto su una divisione netta tra i generi (e tra gli spazi che maschi e femmine occupavano) si sente minacciato, e corre ai ripari: sono da condannare sia l’uomo che rinuncia al proprio privilegio comportandosi da ‘femmina’, sia qualunque donna che osi sfidare il controllo maschile comportandosi da uomo. Da notare che le donne che hanno relazioni con altre donne vengono rappresentate non solo come virili, ma anche come prostitute (in quanto provano piacere nell’avere relazioni erotiche): non era al tempo concepibile, infatti, che una donna volesse provare piacere, per di più con un’altra donna, motivo per cui si pensava che dovesse avere delle disfunzioni che le facevano provare un desiderio maschile (cioè un desiderio sessuale verso una donna) in un corpo femminile; non a caso, spesso queste donne vestivano abiti maschili per poter vivere le proprie relazioni al di fuori delle mura domestiche (e per poter occupare uno spazio pubblico che altrimenti sarebbe stato loro negato).

Il terzo modello di relazione omoerotica fa riferimento alle relazioni egualitarie, in cui non vi è differenziazione di ruoli ma uno status sociale simile tra le/i partner (in cui quindi non vi è gerarchia all’interno della coppia). Benché la storia ci consegni diffuse testimonianze di relazioni egualitarie, è nella seconda metà del ‘900 che si affermano alcuni cambiamenti culturali, storici ed economici che comportano la legittimità sociale delle relazioni egualitarie, tanto tra le persone eterosessuali che tra quelle omosessuali: l’innalzamento del livello di istruzione, il boom economico, l’aumento del tasso di lavoro retribuito delle donne, l’affermarsi di valori anti-autoritari e, soprattutto, la messa in discussione della rigidità dei ruoli di genere (e quindi il venir meno del cosiddetto binarismo di genere).
Questo punto di svolta viene portato allo scoperto da un interessante quanto controverso studio condotto nell’America degli anni ’50 da Alfred Kinsey. Kinsey, biologo che inizia a interessarsi di sessuologia, conduce in quegli anni la prima ricerca empirica su larga scala sul comportamento sessuale umano, facendo emergere dati rispetto alle pratiche sessuali non finalizzate alla riproduzione, tanto inaspettati per l’epoca quanto statisticamente e culturalmente rilevanti. Attraverso migliaia di interviste a uomini e donne di diverse classi sociali statunitensi, Kinsey e la sua équipe hanno messo in luce come pratiche sessuali quali la masturbazione, la sessualità al di fuori del matrimonio o le esperienze omosessuali, non siano atti compiuti da persone malate e perverse, ma siano presenti nella vita della maggior parte degli individui. Rispetto all’orientamento sessuale, il rapporto Kinsey è il primo a mettere in discussione la rigidità della dicotomia ‘omosessuale’ / ‘eterosessuale’ e ad allargare i confini di due prototipi che venivano interpretati come vicendevolmente escludenti: dalla ricerca emerge come la maggior parte delle persone intervistate si collochi lungo un continuum i cui estremi (il comportamento esclusivamente eterosessuale e quello esclusivamente omosessuale) non sono tanto abitati quanto le sfumature che intercorrono tra questi estremi (la famosa ‘scala di Kinsey’). Evidenziando la continuità tra omosessualità ed eterosessualità emersa dalle interviste, Kinsey apre dunque la strada alla depatologizzazione dell’omosessualità che troverà riscontro nella decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di rimuovere l’omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie il 17 maggio 1990. La data, per il suo portato simbolico di cambiamento, viene ricordata ogni anno attraverso la “Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia” (IDAHOT)

Un’altra data simbolica che contribuisce a ridefinire il concetto di orientamento sessuale in termini positivi è il 28 giugno 1969, giorno di inizio a New York della rivolta di Stonewall, momento a cui si ascrive la nascita dei movimenti lesbici, gay e trans. L’orientamento sessuale inizia a essere pubblicamente visibile, ed emerge la differenza tra le specificità: il termine ‘gay’ diviene un marchio di orgoglio, grazie anche al suo significato di ‘gaio’; allo stesso tempo, la parola ‘lesbica’ inizia a essere utilizzata per esplicitare la differenza con l’esperienza gay maschile.

In conclusione, da questa rapida panoramica emerge chiaramente come sia il contesto culturale e storico di riferimento che assegna, di volta in volta, diverse accezioni e diverse sanzioni all’orientamento sessuale: cambiando il modello di riferimento, di conseguenza cambiano anche il peso discriminatorio e il potenziale liberatorio insiti nella rappresentazione sociale delle esperienze sessuali, identitarie e affettive degli individui.

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