Giuridico – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Identità di genere: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/identita-di-genere-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Tue, 28 Jun 2016 08:41:17 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2557 A cura di Anna Lorenzetti, Dipartimento Giurisprudenza, Università degli Studi di Bergamo.

La possibilità di modificare il sesso anatomico e anagrafico fu introdotta nel 1982 con la legge 164 “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, terza in Europa sulla materia. Questa normativa trovò la propria genesi nella necessità di regolarizzare la posizione di coloro che si erano sottoposti all’intervento di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali all’estero, ma che per l’assenza di una legge non potevano essere riconosciuti nella nuova identità in Italia.

Ovviamente, a distanza di trent’anni dall’approvazione della legge, si sono poste nuove istanze. Ad esempio, la disposizione che chiedeva l’intervento ‘quando’ e dunque ‘solo se’ necessario ha determinato alcuni quesiti, in particolare circa l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico e quindi circa la possibilità di modificare il proprio nome anche prescindendone. Inoltre, i giudici sono stati interpellati su quali siano i confini della ‘necessità’ e su quale tipo d’intervento chirurgico sia richiesto per concludere il percorso (deve riguardare i caratteri sessuali primari, con un impatto certamente più invasivo sulla salute della persona, o è sufficiente una modifica dei caratteri secondari, possibile anche con il solo trattamento ormonale?). Questi aspetti sono tutt’altro che marginali, in quanto l’interpretazione della legge 164 e le prassi in uso nelle strutture socio-sanitarie, di fatto, hanno considerato per lungo tempo come obbligatorio l’intervento chirurgico, anche qualora la persona interessata non lo desiderasse. Interrogata sul punto, la giurisprudenza di merito aveva richiesto – in larga maggioranza, e con poche eccezioni (Tribunale di Rovereto, 3 maggio 2013 et al.1) – l’effettuazione dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari, quale requisito indispensabile per concludere il percorso di cambiamento di sesso (Corte d’Appello di Bologna, 22 febbraio 2013 et al.2).

Si tratta di uno degli aspetti più controversi della legge, sul quale sono state chiamate ad esprimersi sia la Corte di Cassazione, sia la Corte costituzionale che hanno riconosciuto come è rimessa al giudice, con il supporto del sanitario, e da effettuare caso per caso, la valutazione circa la necessità o meno dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari ai fini della conclusione del ‘transito’3.
Recentemente, la legge 164/1982 è stata modificata, nell’ambito di una riforma volta alla semplificazione dei riti processuali (d.lgs. 150/2011), con un appesantimento nel percorso giudiziale di cambiamento del sesso, un allungamento dei tempi e un aggravio di costi. Secondo la nuova disciplina, le ‘controversie’ che riguardano la riassegnazione del sesso seguono il rito ordinario di cognizione, al giudizio partecipa il pubblico ministero e l’atto introduttivo del giudizio è divenuto un atto di citazione, che va notificato al coniuge e ai figli dell’attore (art. 31, D. Lgs. 150/2011).

Ponendo ora attenzione all’ambito lavorativo, si deve rilevare che nell’ordinamento italiano è assente una disciplina chiara e univoca che tuteli contro le discriminazioni in ragione dell’identità di genere, al pari di quanto accade, ad esempio, per l’orientamento sessuale con il decreto legislativo 216 del 2003. Questo appare significativo non soltanto in quanto all’accesso al lavoro o alla stabilità lavorativa è legata un’indipendenza economica che scongiura la marginalità sociale, ma anche perché si tratta di un ambito segnalato come particolarmente critico dalle persone transessuali che subiscono discriminazioni all’ingresso nel mondo del lavoro e nel mantenimento del posto di lavoro. Rispetto alla dimensione problematica della questione, i casi giunti nelle aule dei tribunali sono piuttosto ridotti numericamente e riguardano vicende di travestitismo, e principalmente licenziamenti a causa di un abbigliamento ritenuto non consono allo svolgimento delle mansioni assegnate.
Allargando il campo anche agli ordinamenti sovranazionali (internazionale ed euro-comunitario), una serie di significative pronunce – prima tra queste la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea “P contro S e Cornwall County Council”4ha contribuito ad estendere le tutele previste per le discriminazioni fondate sul sesso anche verso chi abbia cambiato sesso, senza però considerare la condizione di coloro che stanno ancora vivendo il ‘transito’ (ossia il passaggio da un sesso all’altro) o non intendano sottoporsi all’intervento.

L’ultima direttiva del Parlamento europeo in materia di contrasto alle discriminazioni uomo/donna in ambito lavorativo (n. 54 del 2006) ha ‘accolto’ i risultati delle pronunce della Corte di Lussemburgo, senza però imporre agli Stati membri l’obbligo di estendere le tutele per le discriminazioni di genere ai casi di transessualismo o transgenderismo. Questa posizione è stata interpretata come un significativo rafforzamento delle tutele, peraltro avallata da una serie di documenti normativi, di soft law, orientati nel senso di una maggiore garanzia in numerosi ambiti, tra i quali occupazione, sanità, istruzione (Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014; Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri). Da ultimo, si veda la Risoluzione 2048 (2015) che invita gli Stati membri ad attivarsi per conseguire il pieno riconoscimento di diritti e libertà per le persone transessuali e transgender.

Anche la Corte europea dei diritti umani si è occupata a più riprese della condizione giuridica delle persone transessuali, a partire dal leading case“Christine Goodwin contro Regno Unito”, decisione dell’11 luglio 2001 – in cui è stato riconosciuto il diritto della persona che ha cambiato sesso di coniugarsi con una persona di sesso opposto a quello acquisito.
Rispetto all’ambito familiare, in Italia la condizione transessuale non è ostativa al matrimonio con una persona del sesso opposto a quello acquisito con la riassegnazione anagrafica, né all’adozione di un minore o al mantenimento di rapporti affettivi con la prole avuta prima del cambiamento di sesso. Recentemente, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 170 del 2014, ha deciso circa il caso di sopravvivenza del matrimonio regolarmente contratto prima di sottoporsi all’intervento chirurgico e divenuto same-sex dopo l’intervento chirurgico di uno dei coniugi. Alla luce della necessità di tutelare un legame validamente sorto, ma considerando altresì che in Italia il matrimonio presuppone l’unione di un uomo e una donna, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della norma che impone lo scioglimento automatico del vincolo in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi. Tuttavia, ha rimesso al legislatore la definizione di un modello di regolamentazione, comunque diverso dal matrimonio, in grado di fornire una tutela alla coppia. Di recente, la questione è stata decisa dalla Corte di Cassazione che, sulla base di quanto affermato dalla Consulta, ha affermato la necessità di mantenere valido il matrimonio divenuto fra due persone dello stesso sesso, fino a quando il legislatore non consenta alla coppia di dare vita ad altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti e obblighi (Corte di Cassazione, 21 aprile 2015, n. 8097). La recente approvazione del testo di legge sulle unioni civili, cd. Legge Cirinnà ha previsto che “La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” (art. 1, co. 26, L. 76/2016) e che “Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile” (art. 1, co. 27, L. 76/2016).

La vicenda dei migranti merita una segnalazione peculiare, posto che l’Italia considera la condizione transessuale come possibile motivo di richiesta e riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 8, co. 1, lett. d, D. Lgs. 251/2007, come modificato dal D. Lgs. 18/2014), mentre non è prevista una normativa di contrasto alla transfobia.

Occorre infine ricordare che l’espressione ‘identità di genere’ ha fatto la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione regionale. Con la legge n. 63 del 2004, la Regione Toscana, seguita qualche anno dopo da Liguria e Marche ha, infatti, menzionato espressamente l’identità di genere tra i fattori di discriminazione vietati. Recentemente, la Regione Piemonte ha approvato la legge regionale 5 del 2016 (“Norme di attuazione del divieto di ogni forma di discriminazione e della parità di trattamento nelle materie di competenza regionale”), in cui è esplicitamente vietata ogni forma di discriminazione anche in ragione dell’identità di genere. Di identità di genere si trova inoltre menzione in alcune leggi regionali di settore che riguardano il contrasto alla violenza5 e l’ambito socio-sanitario6.

Note:
[1] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono Tribunale di Messina, 4 novembre 2014; Tribunale di Genova, 5 marzo 2015.
[2] Altre recenti sentenze che vanno in questa direzione sono: Tribunale di Roma, 18 luglio 2014, n. 34.525; Tribunale Vercelli, 12 dicembre 2014, n. 159; Tribunale di Catanzaro, 30 aprile 2014; Tribunale di Potenza, 20 febbraio 2015.
[3] Corte di Cassazione 15138/2015; Corte costituzionale 221/2015; Anche la Corte europea dei diritti umani, nel caso Y.Y. c. Turchia (appl. 14793/08, sentenza 10 marzo 2015), è intervenuta sul tema, dichiarando l’irragionevolezza della normativa interna che richiedeva la preventiva sterilizzazione della persona che intendeva sottoporsi all’intervento chirurgico. Peraltro, l’attualità del tema è attestata dalla recente approvazione della legge maltese (“Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act”) che afferma il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, allo sviluppo della persona in accordo all’identità di genere, ma soprattutto all’autodeterminazione sulla scelte che riguardano il proprio corpo, di cui è garantita l’integrità. In particolare, viene sancito che il riconoscimento dell’identità di genere e della possibilità di modifica anagrafica non può essere subordinato all’intervento chirurgico, né alla terapia ormonale o psichiatrica (art. 3, par. 4).

[4] Tra le altre pronunce si ricorda il caso C-117/01, “K.B. – National Health Service Pensions Agency, Secretary of State for Health”, deciso il 7 gennaio 2004.

[5] Così, ad es. art. 4, L.R. Piemonte 16/2009 del Piemonte sui Centri antiviolenza.

[6] Ad esempio, la L.R. Puglia 23/2008, che ha approvato il Piano regionale salute 2008-2010.

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Lavoro: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/lavoro-guida-alla-normativa-e-alla-giurisprudenza/ Thu, 06 Nov 2014 11:53:43 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1936 A cura di Tiziana Vettor, Dipartimento dei Sistemi Giuridici, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

In ambito lavorativo la tutela delle persone omosessuali è stata introdotta nell’ordinamento italiano dal d.lgs. n. 216 del 2003 con cui il legislatore ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, intesa come «assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale» (art. 1 d.lgs. 216/2003). Per effetto della trasposizione della direttiva europea, modificata dalla l. n. 101 del 2008 di conversione del d.l. n. 59 del 2008, a seguito una procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea contro l’Italia (n. 2006/2441), lo Statuto dei Lavoratori è stato integrato (art. 2 d.lgs. n. 216/2003) con un espresso divieto di discriminazione di cui all’art. 15 della l. n. 300 del 1970 alle ipotesi di atti o patti diretti a fini di discriminazione basata sull’orientamento sessuale e la “Disciplina dei licenziamenti individuali” di cui alla l. n. 108 del 1990, con la previsione della nullità del licenziamento discriminatorio anche in ragione dell’orientamento sessuale (art. 3 d.lgs. n. 216/2003).

Il decreto legislativo ha determinato l’introduzione nel nostro ordinamento delle nozioni di discriminazione, ‘diretta’, «quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga» (art. 2, 1° co. lett.a, d.lgs. n. 216 del 2003) e ‘indiretta’, «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (art. 2, 1° co. lett.b, d.lgs. n. 216 del 2003).

Tra i comportamenti discriminatori rientrano, per espressa previsione, sia le molestie, intese come quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 del 2003), sia le eventuali istruzioni discriminatorie (ordini) impartite dal datore di lavoro (art. 2, 4° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

L’ambito di applicazione comprende sia il settore privato che il pubblico impiego, e riguarda tutte le fasi in cui si articola il rapporto di lavoro, dall’accesso all’impiego, alle condizioni di lavoro, alla retribuzione, al licenziamento (art. 3 d.lgs. n. 216 del 2003). La tutela giurisdizionale è stata innovata dall’art. 34, 34° co., del d.lgs. n. 150 del 2011 che ha ricondotto tutte le controversie in materia di discriminazione (comprese quelle di cui all’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, all’art. 4 del d. lgs. n. 215 del 2003, all’articolo 3 della l. n. 67 del 2006 e all’articolo 55-quinquies del d.lgs. n. 198 del 2006) nell’ambito del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis, 702-ter, 702-quater c.p.c. (art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011). La disciplina, riguardante la semplificazione dei riti, è inoltre intervenuta a modificare il sistema probatorio previgente, introducendo una parziale inversione dell’onere probatorio, con la conseguenza che spetta ora al convenuto, e non alla presunta vittima, dimostrare l’insussistenza della discriminazione, anche in relazione alla utilizzabilità, ai fini della presunzione della discriminazione, di dati di carattere statistico (art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011). Quanto ai rimedi, sempre ai sensi del d. lgs. 150 del 2011 (art. 28), con l’ordinanza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Il giudice, con il provvedimento ed entro il termine ivi fissato, accertata la condotta discriminatoria può ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate che, nel caso di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente. Invero il d.lgs. n. 216 del 2003, in questo modificato dalla legge n. 101 del 2008, ha esteso il novero dei soggetti legittimati ad agire in giudizio consentendo la rappresentanza, oltre alle organizzazioni sindacali, anche alle associazioni e alle organizzazioni che a diverso titolo si occupano della tutela delle persone discriminate (art. 5, 1° co., d.lgs. n. 216 del 2003) e prevedendo la possibilità di intervenire anche nei casi in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, co. 2° co., d.lgs. n. 216 del 2003).

Infine, la normativa impone al giudice di tener conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero una ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento.

Lo specifico strumento normativo previsto a tutela delle persone omosessuali ha avuto una scarsa applicazione in sede giudiziale, tanto che risulta reperibile un’unica pronuncia resa dal giudice del lavoro di Bergamo1, confermata in sede d’appello2, con la quale, previo accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese da un noto avvocato italiano, consistenti nell’avere affermato, nel corso di un programma radiofonico, di non voler assumere nel proprio studio avvocati, collaboratori o lavoratori omosessuali, è stata disposta la condanna del medesimo al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla ricorrente Associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford ed a pubblicare l’ordinanza a proprie spese su uno dei principali quotidiani del Paese. Il Tribunale di Bergamo ha ritenuto punibile a norma della direttiva, anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisca o renda maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, richiamando le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (causa “C-81/12 Associatia Accept”, nonché causa “C-54/07 Feryn NV”), chiarendo come sul piano concreto le dichiarazioni possano avere verosimilmente ostacolato o potranno verosimilmente ostacolare in futuro la stessa presentazione di curricula all’avvocato resistente da parte di aspiranti avvocati, collaboratori o dipendenti omosessuali.

La tutela antidiscriminatoria nei confronti dei lavoratori è completata dalla previsione di cui all’art. 21 della l. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato Lavoro) che ha apportato modifiche agli artt. 1, 7 e 57 del d.lgs. n. 165 del 2001. Con essa si prevede che le PP.AA. adottino al proprio interno un “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”, formato da un/a componente designato/a da ciascuna delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello di amministrazione e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione. La novità, costituita dalla previsione normativa di un organismo che assume – unificandole – tutte le funzioni che la legge, i contratti collettivi e altre disposizioni attribuiscono ai Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing da tempo operanti nella Pubblica Amministrazione risiede nell’ampliamento delle garanzie, oltre che alle discriminazioni legate al genere, anche ad ogni altra forma di discriminazione, diretta ed indiretta, che possa discendere da tutti quei fattori di rischio richiamati dalla legislazione comunitaria: età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e lingua, estendendola all’accesso, al trattamento e alle condizioni di lavoro, alla formazione, alle progressioni in carriera e alla sicurezza. Il Comitato ha tuttavia solamente compiti propositivi, consultivi e di verifica e si pone nell’ottica di una ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico. Le modalità di funzionamento dei Comitati unici di garanzia sono disciplinate da linee guida contenute nella Direttiva governativa del 4 marzo 2011 emanata di concerto dal Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Pubblicata, G.U. 11.6.2011, n. 134.

Infine, si potrà accedere a una tutela giuridica anche per colpire trattamenti penalizzanti in ambito lavorativo legati all’identità sessuale, e cioè quando sussista un conflitto tra identità di genere e sesso fisico. È questo quanto ha affermato la Corte di giustizia dell’Unione europea (“P contro S e Cornwall County Council”), la quale ha infatti ricondotto le discriminazioni nei confronti delle persone transessuali nell’ambito delle discriminazioni di sesso (Cfr. “Identità di genere”).

Note:
[1] Tribunale Bergamo, sez. lavoro, ord. 6/8/2014 n. 791
[2] Corte d’Appello Brescia, sez. lavoro, sent. 23/1/2015 n. 529

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Omofobia e transfobia: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/omofobia-e-transfobia-guida-alle-normative/ Fri, 18 Jul 2014 10:42:53 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2530 A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

Il termine omofobia fa la sua prima comparsa durante la seconda metà del secolo scorso nel linguaggio delle scienze psicologiche ma il suo utilizzo si estende presto all’ambito giuridico, quando, tanto a livello nazionale che europeo e internazionale, inizia a manifestarsi con forza l’esigenza di tutelare l’orientamento sessuale e l’identità di genere (Cfr. “Orientamento sessuale” e “Identità di genere”). Al fine di cogliere il significato di tale neologismo vale la pena prendere a prestito la definizione offerta dal Parlamento dell’Unione europea nella sua “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006 in cui, al considerando B, l’omofobia viene descritta come «una paura e un’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio ed analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». Ciò che più rileva al fine di comprendere la normativa e la giurisprudenza in materia è il fatto che tale peculiare paura si esplica attraverso comportamenti pregiudizievoli per la comunità omosessuale e transessuale. Riportando ancora le parole del Parlamento europeo utilizzate nella Risoluzione appena citata, nonché, con formulazioni quasi identiche, in altri documenti più recenti, quali la “Risoluzione sulla lotta all’omofobia in Europa” del 24 maggio 2012 e la “Risoluzione sulla tabella di marcia dell’UE contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere” del 4 febbraio 2014, essa «si manifesta nella sfera pubblica e in quella privata sotto forme diverse, come le dichiarazioni inneggianti all’odio e l’istigazione alla discriminazione, la ridicolizzazione, la violenza verbale, psicologica e fisica così come la persecuzione e l’omicidio, la discriminazione in violazione del principio di parità, nonché le limitazioni ingiustificate e irragionevoli dei diritti».1

Fermo appare dunque il rifiuto delle molteplici modalità di manifestazione dell’omofobia e della transfobia da parte dell’Unione europea, ma non solo: anche il Consiglio d’Europa, attraverso la Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri nel 2010 ha invitato gli Stati membri ad adottare misure idonee a prevenire e combattere gli episodi di omofobia e transfobia, così come, nell’ambito delle Nazioni Unite, la Risoluzione del Consiglio per i diritti umani del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” contiene un esplicito riferimento alla necessità di contrastare gli atti di violenza motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. L’obiettivo di reprimere i fenomeni legati all’omofobia e alla transfobia occupa quindi da qualche tempo un posto non irrilevante nell’agenda politica internazionale ed europea e, di conseguenza, in quella della maggior parte degli ordinamenti democratici del mondo: tutt’altro che agevole si sta però rivelando la decisione su quali siano le misure normative che il raggiungimento di tale obiettivo richiede di adottare.

Sono ormai diverse le legislazioni penali nazionali che, contemplando i c.d. crimini d’odio, prevedono che la motivazione omotransfobica alla base di un reato costituisca una circostanza aggravante nella determinazione della pena e che sanzionano i c.d. discorsi d’odio, ovvero quelle espressioni, in forma orale o scritta, che incitano, incoraggiano o giustificano la discriminazione e l’ostilità nei confronti della popolazione omosessuale o transessuale.
Il legislatore italiano non è ancora intervenuto in tal senso ma è attualmente in esame al Senato il Disegno di legge S-1052 (c.d. Disegno di legge Scalfarotto) recante “Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia” approvato dalla Camera dei Deputati il 19 settembre 2013 che, integrando la Legge n. 654 del 1975 (c.d. Legge Reale, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite nel 1966) e la Legge n. 205 del 1993 (c.d. Legge Mancino), punisce l’istigazione a commettere o la commissione di atti di discriminazione e di violenza motivati da omofobia o transfobia ed estende ai reati fondati sull’omofobia o transfobia l’aggravante della pena fino alla metà già prevista per i per i crimini commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’introduzione di una disciplina penalistica per contrastare gli episodi legati a omofobia e transfobia, peraltro già tentata a più riprese nel corso della XVI legislatura, ha suscitato e continua a suscitare un vivace dibattito non solo politico, ma anche giuridico, soprattutto in ragione della compressione del diritto fondamentale di manifestare il proprio pensiero che la sanzione del discorso d’odio andrebbe a determinare. La questione relativa al delicato bilanciamento tra libertà di espressione e diritto a non subire discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale è stata affrontata dalla Corte europea diritti umani che, con la decisione “Vejdeland e altri c. Svezia” del 2012, ritenendo non lesiva dell’art. 10 della CEDU la condanna penale dei ricorrenti, responsabili della distribuzione di volantini omofobi in una scuola, ha ammesso che l’esercizio della libertà di espressione può subire restrizioni volte alla tutela della reputazione e dei diritti della comunità omosessuale. Tuttavia, pare importante sottolineare che i giudici di Strasburgo non hanno sancito alcun obbligo in capo agli Stati membri del Consiglio d’Europa di vietare le dichiarazioni pubbliche omofobe o transfobe, anzi è ribadito il dovere dei singoli ordinamenti che adottano o mantengono normative volte a reprimere i discorsi d’odio di dimostrare che l’esigenza di limitare la libertà fondamentale di espressione è dettata da «bisogni sociali pressanti» (§ 51 della sentenza) e che le misure previste si rivelino «proporzionate» (§ 52 della sentenza) rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere. Inoltre, non può evincersi dalla pronuncia che sia conforme alla CEDU la repressione penale di qualunque espressione o condotta omofoba a prescindere dal contesto in cui si verifica: particolare attenzione viene, infatti, rivolta dai giudici di Strasburgo al fatto che i volantini censurati erano stati depositati negli armadietti personali degli alunni, avessero come destinatari individui «impossibilitati a rifiutarli» e che, in ragione della giovane età, erano da ritenersi fortemente «sensibili e impressionabili» (§ 56 della sentenza).

Merita infine segnalare come l’assenza di una normativa specifica volta al contrasto dell’omofobia non abbia impedito ad alcuni giudici italiani di attribuire rilevanza penale ad alcune manifestazioni di odio omofobico. Ad esempio, il Tribunale di Busto Arsizio ha di recente ritenuto sussistente l’esimente della provocazione ex art. 599 c.p. ove la condotta sia stata determinata dall’altrui fatto ingiusto consistente nell’affermazione per cui l’omosessualità è un’aberrazione genetica contro natura, mentre il Tribunale di Torino, in funzione di giudice d’appello, ha confermato la pronuncia del Giudice di Pace che ha condannato un uomo per lesioni personali e ingiurie ai danni di un collega perchè omosessuale, riconoscendo ed evidenziando il contenuto omofobico delle espressioni cui ripetutamente era stata esposta la vittima.
Anni prima, del resto, la Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 10248 del 2010, aveva già chiarito che l’utilizzo del termine ‘gay’ configura il reato di ingiuria qualora venga «riferito a precisi fatti ritenuti disdicevoli, focalizzati come tali con inequivoco intento denigratorio e che esprimono riprovazione per le tendenze omosessuali del soggetto a cui si rivolge l’offesa».

Note:
[1] Considerando B della “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006.

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