Culturale – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 E dove si trova l’amore, se non in un romanzo? http://www.portalenazionalelgbt.it/e-dove-si-trova-lamore-se-non-in-un-romanzo/ Fri, 06 Feb 2015 11:05:58 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2438 A cura di Margherita Giacobino, saggista e traduttrice.

Nel 1981 la studiosa americana Lillian Faderman pubblicò un bel libro (in parte tradotto in italiano parecchi anni dopo nel volume “Una storia tutta per noi”) il cui titolo “Surpassing the Love of Man” era una citazione dalla Bibbia, laddove si parla dell’amore tra i due amici Davide e Gionata, che «supera l’amore delle donne». Faderman vi esaminava i rapporti di affettività e amore tra donne che, appunto, ‘superavano l’amore degli uomini’, ovvero erano più forti dei convenzionali legami di coppia eterosessuale. Il lavoro di Faderman copre un arco che va dal sedicesimo secolo, inizio dell’età moderna, fino agli anni Settanta del Novecento e ricostruisce i modi in cui è stato rappresentato in letteratura l’amore tra donne: ora demonizzato, ora ridicolizzato, ora trattato come una bizzarria di natura, immancabilmente visto attraverso occhi maschili in quei secoli in cui la scrittura pubblica è privilegio, appunto, del maschio.

Ma presto anche le donne cominciano a scrivere per un pubblico, e lo fanno dapprima timidamente e magari sotto pseudonimo nel Seicento, più arditamente nel Settecento – tanto da far pensare che siano state proprio le donne, con il loro interesse per le vicende private, il sentire, i rapporti interpersonali, a fondare il romanzo moderno, quello che si occupa soprattutto di raccontare lo sviluppo psicologico dei personaggi e le loro vicende personali. Se le donne per secoli sono ritenute a malapena soggetti (la ‘costola di Adamo’ resta a lungo priva di diritti civili e politici, e del diritto di parlare per sé in pubblico), con l’emancipazione che prende l’avvio nell’Ottocento le cose cambiano. In letteratura come nella vita, le donne, soprattutto quelle che hanno potuto studiare e coltivare un sogno di indipendenza, a volte fanno scelte alternative a quella della famiglia patriarcale, e focalizzano i loro affetti su altre donne. Quella che Faderman definisce ‘amicizia romantica’ è una modalità di rapporto che unisce molte coppie di amiche nell’Ottocento; si tratta di un legame molto forte, in cui non sempre la sessualità è vissuta, o riconosciuta come tale, ma viene comunque affermato il diritto e il bisogno di un dialogo privilegiato, a livello affettivo come intellettuale, con altre donne. Nel Novecento sarà la psicanalisi, con la sua enfasi sulla sessualità onnipresente nella vita e nei rapporti, a determinare la condanna sociale di questi rapporti di amicizia amorosa, oggetto di una nuova demonizzazione: le donne che preferiscono la compagnia di altre donne a quella dell’uomo sono ora trattate come malate, devianti, perverse. Bisognerà arrivare alla seconda grande ondata di femminismo, quella che comincia negli Stati Uniti negli anni Sessanta e travolge tutto il mondo occidentale, per cominciare a smantellare l’interdetto della società. Da allora, i movimenti femministi, giovanili, omosessuali e poi queer, determinano progressivi mutamenti nel sentire collettivo e nell’immagine dell’omosessualità femminile, come di quella maschile, della transessualità, del transgenderismo e di ogni posizionamento ‘anomalo’ nella sfera del genere e della sessualità. Ma il femminismo non è solo rivendicazione di libertà individuale: spesso, il suo pensiero va più in profondità, rendendosi conto che i diritti individuali non bastano, e non sono mai al sicuro, se non sono parte di una più grande rivendicazione dei diritti di tutti coloro che sono, in qualunque modo e misura, oppressi da un potere che li esclude, limitati da definizioni che li negano o li sviliscono.

Fino a qualche decennio fa, una giovane donna che andasse alla ricerca di storie di affettività e sessualità fra donne aveva grande difficoltà nel trovarne una che non fosse punitiva o catalogata come ‘vietata ai minori’. I personaggi di finzione che osavano sfidare l’interdetto patriarcale andavano incontro a solitudine, pazzia, suicidio e consimili happy end. Questo avveniva, naturalmente, molto più in letteratura che nella vita vera: nella realtà, donne che hanno vissuto felicemente, e qualche volta perfino apertamente, rapporti d’amore con altre donne sono esistite in varie epoche – ma poiché le storie che si raccontano sulla carta sono sempre soggette a censure maggiori di quelle che si vivono, spesso le vicende ritenute anomale vengono cancellate dalla memoria. Oggi per fortuna le cose stanno cambiando, e sono reperibili molti romanzi, saggi, biografie che esplorano l’affettività e la sessualità lesbica.
Tuttavia, pur tra censure di ogni tipo, scrittrici che hanno osato affrontare l’interdetto ce ne sono state fin dai primi del Novecento. Le più vicine a noi sono vissute in Francia, come la poeta Renée Vivien (nom de plume dell’inglese Pauline Tarn, che si stabilì a Parigi giovanissima), la prima a scrivere versi apertamente ‘saffici’, ovvero ispirati all’antica poeta greca Saffo, che celebrò l’amore per le fanciulle e la bellezza della vita in una comunità femminile. Personaggio di grandissimo interesse, colta, eccentrica, viaggiatrice, Renée Vivien dilapidò la sua vita in forme non molto diverse da quelle che potrebbe usare oggi una diva rock: alcol, droga, anoressia. Fu amante di Natalie Clifford Barney, una ricca americana, grande seduttrice e mecenate di artiste, che stabilì a Parigi un salon in cui si riuniva la mondanità intellettuale della capitale, e che fu frequentato anche dalla grande scrittrice Colette (che conosceva bene gli amori ‘irregolari’ e ne parlava in alcuni suoi scritti). Faceva parte della cerchia di Barney anche l’americana Djuna Barnes, che prima di arrivare a Parigi aveva vissuto a Berlino (altra città dove prosperò, fino all’avvento del nazismo, una cultura alternativa lesbica e gay), e che fu autrice di “La foresta della notte”, un elegante e difficile romanzo sugli amori tra due donne, Nora e Robin, in cui si rispecchia la vicenda autobiografica della stessa Barnes.
Gli anni Venti furono, in Europa come negli Stati Uniti, quelli della massima libertà di costume e di espressione, e diedero vita a vivaci sottoculture alternative. Ma il solo libro a tematica lesbica pubblicato in quegli anni che oltrepassò tutte le frontiere, suscitando enorme attenzione e scandalo, fu “Il pozzo della solitudine”, dell’inglese Marguerite Radcliffe Hall. Il romanzo racconta di Stephen, un’aristocratica che si sente più maschio che femmina, attratta dalle donne, che alla fine rinuncia a un amore appagante e corrisposto con la giovane Mary per non esporre quest’ultima alla condanna sociale. L’autrice, da parte sua, fu ben lontana dal fare questo sacrificio, e visse apertamente i suoi legami con donne. Il suo libro fu, per decenni, l’unico testo lesbico a diffusione mondiale – portavoce e simbolo non tanto dell’infelicità obbligatoria di chi fa scelte diverse, quanto dell’ipocrisia che esige che queste scelte non siano riconosciute come possibili o perfino felici.

Nel frattempo il clima politico si faceva più pesante, con i totalitarismi in Europa e la grande depressione in America. Le libertà individuali, prima fra tutte quella di espressione, si restringevano sempre di più, facendo posto a un soffocante controllo e conformismo. Ancora dopo la guerra, negli anni ’50, di omosessualità non si poteva parlare se non in termini negativi, come di uno stile di vita perverso, e perciò oggetto di condanna ma anche di grande, morbosa curiosità. Per questo negli Stati Uniti fioriva una sottoproduzione letteraria detta pulp, dal tipo di carta da poco prezzo che si usava per la stampa, nella quale figuravano spesso anche personaggi di donne ‘perdute’ e ‘viziose’: era l’epoca dell’ ‘amore che non osa dire il suo nome’, e delle vere e proprie persecuzioni contro gli omosessuali messe in atto dallo stato americano. Tuttavia anche allora voci discordanti si facevano sentire: nel 1952 la giovane scrittrice Patricia Highsmith, che poi diventerà famosa come giallista, pubblica il romanzo “The Price of Salt”, più tardi ripubblicato con il titolo di “Carol”. E’ la storia di due donne coraggiose e avventurose che sfidano l’interdetto sociale e affermano il loro amore; ma Highsmith lo pubblicò con uno pseudonimo, per non rovinarsi la carriera di scrittrice. Il libro conobbe un grande successo e ancora oggi è ristampato e letto in tutto il mondo, e ha ispirato il film omonimo di Todd Haynes.

Bisogna arrivare agli anni Sessanta, dopo la guerra e la ricostruzione, perché nuove voci si levino apertamente a sfidare le convenzioni. Non è un caso che questo accada di nuovo in Francia, dove l’esistenzialismo esaltava, fin dalla liberazione di Parigi, le scelte individuali. Nel 1966 esce a Parigi “Thérèse et Isabelle”, di Violette Leduc, un piccolo libro che contiene la storia d’amore tra due liceali, parte di un romanzo autobiografico pubblicato qualche anno prima, ma censurato nei suoi aspetti ritenuti più crudi e improponibili. Violette Leduc, donna e scrittrice di assoluta originalità, è forse la prima nella cultura europea a conferire status letterario alla scrittura dell’eros, sottraendola al sottogenere della pornografia. Scrittrice autentica e perciò non facile, Leduc fu una grande irregolare: bisessuale, si innamorava di donne etero o di uomini gay, conosceva quindi bene gli amori infelici, ma le sue storie sfidano il moralismo e raggiungono spesso l’altezza della poesia, e il suo coraggio fa di lei una precursora. Anni dopo, la scrittrice americana Kate Millett (autrice di romanzi di grande successo negli anni ’70 e ’80) dirà: «Non avrei potuto scrivere In volo se prima di me non ci fosse stata Violette Leduc. … Penso che ‘uscire dall’armadio’ mi abbia dato la possibilità di vivere la mia vita … mi ha fornito l’occasione di restare povera e non rispettabile. Non essere rispettabile è la cosa più importante. La rispettabilità è un disastro»1.
Come già detto, gli anni ’60 e ’70 segnano l’inizio di un’epoca nuova. I neri, le donne, i giovani, gli omosessuali, tutte le cosiddette minoranze, reclamano diritti e libertà, prendono la parola. È una rivoluzione pacifica, ovviamente difficile, e le sue conquiste non sono mai sicure, ma è di grande importanza. Uno degli effetti del femminismo è che si apre, nel mondo occidentale, un grande spazio di discussione ed espressione sulla sessualità, l’affettività, il corpo, l’eros. La letteratura ovviamente gioca in questo una parte di rilievo. Le voci più importanti che si levano a esplorare e celebrare l’amore tra donne vengono dall’America, e tra esse segnalo in particolare quelle di Adrienne Rich e Audre Lorde, che scrissero entrambe sia in versi sia in prosa. Le due scrittrici, che nella vita personale furono grandi amiche e trassero forza dal confrontarsi una con l’altra, erano l’una (Rich) bianca e di ascendenza ebraica, l’altra (Lorde) nera, figlia di migranti caraibici. Qui si comincia veramente a comprendere come un vero discorso sull’affettività e la sessualità tra donne comporti un allargamento di orizzonti e non possa prescindere dalla presa in considerazione di altre differenze (di razza, classe, cultura, età, religione ecc…) Quello che emerge dagli scritti di Rich e Lorde è la consapevolezza che, nel momento in cui una donna osa sottrarsi alle norme sociali che le impongono di pensare a se stessa soltanto in relazione all’uomo (come moglie, compagna, madre, o anche come eguale dell’uomo in senso acriticamente emancipatorio), allora scopre un intero mondo dentro di sé e nelle altre, un mondo fatto di differenze, che possono anche essere difficili da affrontare, ma che sono portatrici di ricchezza. L’amore e la sessualità non sono più il mitico e mistico ‘realizzarsi’ nell’unione con l’uomo, in cui la donna gioca il ruolo passivo di recipiente della pienezza e attività maschile, bensì diventano libertà, scoperta, creazione di nuovi linguaggi che possano superare i vecchi conflitti e le vecchie paure.
Audre Lorde è stata una figura importante nei movimenti americani per la liberazione delle donne, dei neri, degli omosessuali. Il suo lavoro, recentemente tradotto in italiano, è per molti versi anticipatore di problemi e questioni che stiamo affrontando anche oggi. «L’erotico – dice Audre Lorde – è stato spesso definito in modo erroneo dagli uomini, che lo hanno usato contro le donne. E’ stato ridotto a un insieme di sensazioni confuse, triviali, psicotiche e plastificate … (e) l’abbiamo confuso con il suo opposto, il pornografico. Ma la pornografia è la negazione diretta del potere dell’erotico, perché rappresenta la soppressione del sentire autentico. … L’erotico si colloca tra l’inizio del nostro senso di sé e il caos del nostro sentire più profondo. E’ un senso di soddisfazione interiore al quale, una volta sperimentato, sappiamo di poter aspirare. Perché dopo aver sperimentato la pienezza di questo sentire profondo e averne riconosciuto il potere, noi non possiamo, in onore e rispetto di noi, pretendere di meno da noi stesse. … In contatto con l’erotico, io divento meno disponibile ad accettare l’impotenza, o quegli altri stati dell’essere che mi vengono messi a disposizione ma non sono connaturati a me, come la rassegnazione, la disperazione, la cancellazione di sé, la depressione, l’auto-negazione»2. Nella sua narrazione autobiografica “Zami”, Lorde racconta i suoi primi venticinque anni di vita, i conflitti con la madre, il senso di non appartenenza a nessun gruppo, la scoperta dell’amore per le donne e della sessualità come momenti fondanti della sua integrità e libertà.
Se la grande ondata di femminismo americano degli anni ’70 produce molta letteratura che esalta le qualità positive dell’amore e dell’amicizia fra donne, non mancano però le voci che mettono l’accento sui problemi e i conflitti, sulla violenza che spesso le donne subiscono e su quella che può esistere anche all’interno dei rapporti più importanti della nostra vita, con i genitori, con le persone amate. Tra le autrici che meglio hanno dato voce a queste tematiche è Dorothy Allison; la sua scrittura è forte, coraggiosa, autentica: «Credo che il segreto dello scrivere sia che la miglior fiction arriva fin dove arriva il coraggio dello scrittore, e non oltre. – dice Allison – La miglior fiction viene dal luogo dove si nasconde il terrore, dall’orlo dei vostri peggiori incubi. … Io non scrivo per gente perbene. Io non sono una persona perbene. Né lo sono quelli di cui mi importa nella vita»3.

In Inghilterra, l’amore lesbico fa ufficialmente il suo rientro nel mainstream letterario, dopo “Il pozzo della solitudine”, negli anni ’90 con Jeannette Winterson, il cui primo libro, “Non ci sono solo le arance”, è il racconto grottesco, divertente e doloroso della scoperta di sé da parte di un’adolescente, dei suoi primi amori per altre ragazze e del terribile conflitto con una madre che professa una religiosità feroce e repressiva. Il tabù che imponeva di non parlare di ‘certi argomenti’ si sgretola rapidamente, e presto le scrittrici introducono personaggi e tematiche lesbiche nei romanzi, soprattutto quelli definiti di genere: il giallo (cito soltanto la norvegese Anne Holt, la cui protagonista è una detective tostissima che ama le donne), il romanzo storico (basti pensare a Sarah Waters, le cui gotiche, o barocche, trame girano spesso attorno ad amori tra donne).

Contemporaneamente, personaggi omosessuali, uomini e donne, o transessuali, cominciano ad apparire nel cinema e nelle fiction televisive. Questo non significa che di amore e sessualità tra donne si possa ormai parlare tranquillamente, soprattutto in Italia, né tantomeno che si sia detto tutto, e spesso accade che i libri che trattano questo argomento vengano considerati in una categoria a parte, riservata a un pubblico di nicchia: in altre parole, mentre dalla lettrice lesbica o dal lettore omosessuale o transessuale ci si aspetta che sia in grado di cogliere l’universale in una storia d’amore etero (per esempio, commuoversi per Romeo e Giulietta), il lettore etero o i critici che ne sono portavoce fanno a se stessi il torto di ritenersi molto meno capaci di attingere all’universale che può essere contenuto in una storia d’amore non eterosessuale.
Forse le cose stanno cambiando, pur in modo molto conflittuale. Da un lato si pensa, si legge, si parla, si vive, con più libertà, apertura e considerazione per gli altri – ma ci sono anche sacche di resistenza molto forti, arroccamenti a volte profondamente ipocriti su una ‘morale’ della condanna e dell’esclusione – e c’è, naturalmente, la presenza molto vicina a noi di ideologie e religioni che rifiutano quelle che per noi sono conquiste e manifestazioni di libertà. Forse perché risente maggiormente di queste contraddizioni, e perché le donne italiane non possono contare su una forte storia di emancipazione, l’Italia non ha dato molti contributi letterari su questi argomenti.
Tra le scrittrici italiane, ricordo Sara Zanghì, che si distingue per il tono caloroso e coraggioso della sua scrittura, e che nel volume a carattere autobiografico “Nebris” racconta la storia della giovane Tonia, che sceglie la fedeltà a se stessa anche a costo di sentirsi ‘sbagliata’ agli occhi degli altri, e sente in sé un rifiuto irriducibile a parlare il linguaggio della normalità eterosessuale così come quello della connivenza con la propria classe sociale. Quando infine si innamora di una compagna d’università, Rosa, l’accettazione è immediata e totale: «Ho creduto di non essere capace di amare, fino a quando mi sono innamorata di Rosa – dice Tonia alla madre – … non avevo mai pensato di potermi innamorare di una donna … e sai qual è stata la prima reazione? Di felicità, di pura felicità.»
Per alcuni anni a partire dal 2003, Mondadori ha pubblicato la raccolta “Principesse Azzurre”, curata da Delia Vaccarello e dedicata proprio al tema dell’amore tra donne, a cui hanno contribuito scrittrici italiane affermate ed esordienti. Oggi le lettrici che desiderino trovare libri che parlino di amicizia, amore e sesso tra donne hanno, anche in Italia, molte più opportunità che in passato; ma consiglio loro di non fermarsi ai romanzi che suscitano la sensazione di un momento, e di andare a cercare queste altre scrittrici di cui ho parlato, voci forse meno immediate, ma spesso più profonde e risonanti.

Note:
[1] Rivista “Masques”, autunno 1982, intervista a Kate Millett
[2] Da: “Usi dell’erotico. L’erotico come potere” in Lorde, A. (2014), Sorella Outsider, Il Dito e La Luna
[3] Da: “Survival Is The Least Of My Desires” (“La sopravvivenza è l’ultimo dei miei desideri”), in Allison, D. (1994), Skin

Bibliografia

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La visibilità dell’amore tra uomini: per una biblioteca contro l’omofobia http://www.portalenazionalelgbt.it/la-visibilita-dellamore-tra-uomini/ Thu, 05 Feb 2015 08:21:33 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2601 A cura di Francesco Gnerre, insegnante e saggista.

Fin dall’Ottocento, quando ancora non era stato coniato il termine ‘omosessualità’, i primi teorici della liberazione omosessuale hanno cercato nei libri e nella cultura del passato, una prima legittimazione del proprio orientamento e dei propri comportamenti. Tra Ottocento e Novecento sono nate così le prime antologie sull’amore tra uomini che raccoglievano testi degli antichi Greci, i sonetti di Michelangelo o di Shakespeare, le poesie di Rimbaud e Swinburne, fino a Byron e Platen (Zanotti, 2006). Si trattava di iniziare a costruire una tradizione in cui riconoscersi, perché il confronto con la storia e con l’immaginario giocano un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità degli individui e gli omosessuali, nell’immaginario culturale dominante, trovavano solo la loro negazione. Non avere una storia e una cultura con cui confrontarsi è come non esistere, come guardarsi allo specchio e non vedere nulla.

Dalle prime antologie, dello svizzero Heinrich Hossli, del tedesco Magnus Hirschefeld, dell’inglese Edward Carpenter, si passa negli stessi anni ad una rappresentazione più concreta dell’amore che ancora ‘non osa dire il suo nome’. Tuttavia spesso i libri che trattavano di omosessualità, soprattutto se caratterizzati da una visione liberatoria, non venivano pubblicati e, anche quando non interveniva una censura esterna, erano gli autori stessi ad autocensurarsi. Oggi, nella prospettiva di costruire una tradizione e una storia degli omosessuali, appare sempre più importante dare voce a chi è stato costretto a tacere e far emergere dal silenzio del passato le numerose testimonianze che la storia ufficiale ha taciuto o nascosto.

Tra queste voci è esemplare quella di Luigi Settembrini. Luigi Settembrini (1813-1876), come tutti gli omosessuali vissuti in periodi di forte repressione, nascondeva i suoi reali interessi affettivi e sessuali, ma ha avuto il coraggio di lasciarci un importante libricino, “I Neoplatonici”, probabilmente confidando in tempi migliori. Il libro, scritto presumibilmente durante la prigionia di Santo Stefano tra il 1849 e il 1859, è rimasto però nascosto e sconosciuto per più di un secolo, fino alla sua pubblicazione nel 1977. Nel 1937, infatti, il professor Raffaele Cantarella – direttore dell’officina dei Papiri Ercolanensi presso la biblioteca Nazionale di Napoli – nel cercare un manoscritto greco finito fuori posto, trova un fascicoletto intitolato “I Neoplatonici per Aristeo di Megara – traduzione dal greco” che il professore identifica immediatamente come un falso. La ricerca del vero autore è semplice, accanto al manoscritto ce n’è un altro della stessa carta, ma molto più voluminoso, “Ricordanze della mia vita” di Luigi Settembrini. E poiché la grafia dei due manoscritti è senza dubbio identica, ne risulta che anche la ‘traduzione dal greco’ è opera di Settembrini. Imbarazzato per lo ‘strano’ contenuto del libro, il professor Cantarella lo ripone in un cassetto, ma, raccogliendo informazioni sul testo, viene a sapere che il manoscritto non è passato inosservato, che è conosciuto dai maggiori studiosi napoletani, da Benedetto Croce a Francesco Torraca, che hanno tuttavia deciso di comune accordo di non renderlo pubblico per non infangare la figura di Settembrini, ‘martire patriottico dei Borboni’ e tra i più esemplari padri della patria. Il breve romanzo, liquidato sommariamente dai suoi censori come un ‘errore letterario’, è in realtà uno spiraglio su una tragedia ed è una favola antica e moderna al tempo stesso, perché per la prima volta l’amore tra due uomini è rappresentato come una relazione di una vita ed è basato, oltre che sull’attrazione fisica, sulla stima e sul rispetto reciproco. Non è un caso che sia stato proprio questo aspetto a scandalizzare il professor Cantarella, il quale, di fronte all’ultima pagina del romanzo, concludeva, sconsolato, che «è difficile evitare l’impressione piuttosto disgustosa di questo senile ritrovarsi che non giustifica nemmeno l’innocenza fisica e psicologica della fanciullezza».

Un altro caso di autocensura di grande interesse è quello del romanzo “Maurice”, scritto nei primi del Novecento, dello scrittore inglese Edward Morgan Forster. In questo caso non ci troviamo nel sogno dell’antica Grecia di Settembrini, ma nella più concreta Inghilterra vittoriana, dove l’omosessualità era un reato perseguito dalla legge.
“Maurice” racconta la storia della faticosa presa di coscienza della propria omosessualità da parte del protagonista e della decisione di vivere il proprio orientamento sessuale e affettivo, rifiutando ogni schema prefissato e sfidando la legge. In gioventù Maurice sperimenta i suoi primi turbamenti omoerotici, vive un amore tutto platonico con Clive, suo compagno di studi, che tuttavia decide di sposare una donna, come impongono le regole sociali, pur nella consapevolezza che vivrà una vita che non corrisponde ai suoi reali desideri. Maurice è deluso, prova in tutti i modi a ‘curarsi’ e a ‘guarire’ per seguire anch’egli le orme dell’amico, ma proprio quando va in visita da Clive, ormai sposato, e conosce il giovane guardiacaccia Alec, capisce che non ci si realizza negando se stessi e la sua vita diviene una sfida alla società e alle istituzioni che non riconoscono il suo amore. Maurice e Alec si amano e decidono di passare insieme la loro vita. Così «gli amanti la fanno franca e di conseguenza raccomandano il crimine», scrive Forster. «Il lieto fine s’imponeva perentoriamente – scrive ancora Forster in una nota introduttiva al romanzo – in caso contrario non mi sarei preso il disturbo di scrivere. Avevo stabilito che, almeno nella narrativa, a due uomini sia lecito innamorarsi e restar tali per quella durata perpetua che la narrativa consente, e in questo senso Maurice ed Alec vagano ancora oggi nella macchia.» (Forster 1972). Proprio questo sviluppo positivo della storia che non indugia nella vittimizzazione – come sostenne il suo stesso autore – è ciò che rese il libro non pubblicabile quando venne scritto. Scritto negli anni 1913-1914, infatti, “Maurice” sarà dato alle stampe nel 1971 dopo la morte dell’autore e reca sul frontespizio la dedica «A un anno più felice», ad un periodo cioè in cui le persone omosessuali sarebbero potute finalmente uscire dalla clandestinità e dall’anonimato.

Libri di narrativa o di poesia che hanno provato a rappresentare in vario modo l’amore tra uomini, cominciano comunque a circolare agli inizi del Novecento, dalle poesie di Walt Whitman a “I turbamenti del giovane Torless” (1906) di Robert Musil, da “La morte a Venezia” (1912) di Thomas Mann a “Corydon” ( 1924) di André Gide a “Il libro bianco” (1928) di Jean Cocteau, fino a libri più vicini a noi come “La stanza di Giovanni” (1956) di James Baldwin, “La statua di sale” (1948) di Gore Vidal, e l’elenco potrebbe continuare. Anche in Italia, dove più forti erano i problemi di censura e di autocensura, tracce di omosessualità possiamo trovarle nelle opere di Umberto Saba, di Aldo Palazzeschi, di Giovanni Comisso, di Carlo Coccioli e di molti autori del Novecento (Gnerre, 2000). Si tratta di opere di grande interesse per una storia del rapporto tra letteratura e omosessualità, ormai considerate dei ‘classici’ della cultura omosessuale, dove però, a parte rare eccezioni, il personaggio omosessuale è, se non il corruttore, il ‘malato’ che ha bisogno di comprensione e non un personaggio positivo e propositivo nei confronti della vita. Si tratta, inoltre, di testi isolati, al di fuori di una logica legata ad una nuova consapevolezza gay, di là da venire, i cui stessi autori, spesso, non riconoscono né l’esistenza né la necessità di una cultura e di una letteratura gay.
Il personaggio omosessuale di questa tipologia di libri è in genere una vittima predestinata, che sopporta tutte le ingiustizie e le discriminazioni, come se dovesse scontare chissà quali colpe. Così, per esempio, il narratore del romanzo “Gli occhiali d’oro” di Giorgio Bassani del 1957, perseguitato anche lui durante il regime fascista in quanto ebreo, che pure mostra comprensione per l’omosessuale dottor Fadigati, scrive ad un certo punto: «andavamo cercando su quel volto familiare le prove, i segni, starei per dire le macchie visibili del suo vizio, del suo peccato», e il dottor Fadigati «si accontentava di niente, in fondo, o almeno così sembrava. Più che restare lì, nel nostro scompartimento di terza classe, con l’aria del vecchio che si scalda in silenzio davanti a un bel fuoco, altro non pretendeva».
Quando la rappresentazione dell’omosessuale non si adeguava alla cultura dominante, non era la vittima predestinata e l’amore gay diventava nell’immaginario un amore possibile e magari felice, il libro in genere non veniva pubblicato, come si è visto nei ‘casi’ di Settembrini, di Forster e di altri, tra cui vale la pena citare ancora il ‘caso’ di “Ernesto” di Umberto Saba, un romanzo percorso da una forte carica liberatoria, scritto nel 1953, ma pubblicato solo molti anni dopo la morte del suo autore, nel 1975.

In questo processo una linea di demarcazione importante fu alla fine degli anni Sessanta del Novecento la rivolta di Stonewall. Nel giugno del 1969, come è noto, per la prima volta nella storia, gay, lesbiche e travestiti rifiutarono il loro ruolo di vittime e di fronte all’ennesima irruzione provocatoria della polizia in un bar gay di New York, lo “Stonewall Inn” , reagirono dando vita a due giorni di vera e propria guerriglia urbana che spiazzò anche la polizia, abituata alla remissività degli omosessuali. La rivolta di Stonewall resta un punto di non ritorno. «E’ stata la nostra presa della Bastiglia», dirà un personaggio del noto romanzo di Edmund White “La bella stanza è vuota”.
Dal punto di vista letterario, secondo White, tra i maggiori scrittori gay contemporanei, prima di Stonewall non esistevano che due tipi di romanzo omosessuale maschile: uno che tendeva a scusare l’omosessualità, destinato essenzialmente a lettori eterosessuali, concepito per provare che gli omosessuali sono delle creature smarrite, sensibili, che di solito hanno il buon gusto di suicidarsi e non è perciò necessario perseguitarli; l’altro, destinato a un pubblico gay, di solito venduto sottobanco, di taglio pornografico, spesso firmato con uno pseudonimo.
Dopo Stonewall, dice White, nasce invece un nuovo fenomeno, la ‘letteratura gay’ vera e propria: una letteratura scritta da uomini gay, destinata essenzialmente a uomini gay, che rappresenta uomini esplicitamente omosessuali. Un momento importante di questa nuova realtà è proprio la pubblicazione nel 1971 di “Maurice”, il romanzo postumo di Edgar Morgan Forster. Il nuovo momento storico non è ancora «l’anno più felice» auspicato dall’autore di “Maurice”, ma la pubblicazione del romanzo di Forster è comunque un momento importante nel processo di affermazione di una letteratura gay. Anche altri libri, scritti negli anni o nei secoli precedenti, sono pubblicati proprio nel corso degli anni Settanta, quando la liberazione gay esplode in tutto l’Occidente e anche in Italia vedono la luce libri come “I Neoplatonici” di Settembrini e “Ernesto” di Umberto Saba.
Non si pubblicano solo libri precedentemente rimasti chiusi in un cassetto. Si esplora tutta una nuova realtà e gli scrittori, soprattutto negli Stati Uniti, e successivamente anche in Europa, iniziano a dare una nuova immagine dell’omosessuale, a raccontare una realtà nuova, dove l’omosessuale, liberato dai sensi di colpa interiorizzati, non è più la vittima predestinata e rassegnata, ma una persona che rivendica il suo modo di essere e il suo stile di vita.

Oggi finalmente una cultura gay esiste, però non sempre viene riconosciuta come tale. Anche in Italia gli autori che rappresentano la molteplicità di comportamenti omosessuali sono tanti. Si pensi, per fare solo qualche nome, ai libri di Pier Vittorio Tondelli, di Aldo Busi, di Matteo B. Bianchi, di Gianni Farinetti, di Walter Siti, di Alessandro Golinelli, di Gilberto Severini, di Mario Fortunato, di Ivan Cotroneo, di Fabio Bo e di molti altri. Nei romanzi di questi autori è scomparso ogni aspetto problematico relativo all’omosessualità e l’essere gay è, nella vasta gamma dei comportamenti affettivi e sessuali, solo una delle possibilità, fra le altre, che molti personaggi vivono con naturalezza o anche con spregiudicatezza, e se emergono problemi, questi non sono certo dovuti all’omosessualità dei personaggi, ma all’omofobia dell’ambiente sociale e culturale.
Una raccolta di racconti del 2007 di Fabio Bo è emblematicamente intitolata, dal nome di uno dei racconti, “Prendere o lasciare”. Si tratta di un titolo assertivo che suggerisce, pur nella varietà delle storie narrate, un filo conduttore comune: gli omosessuali sono cresciuti e si sono emancipati; la loro condizione non costituisce più un problema e non stanno più ad aspettare che siano gli altri a legittimare la loro esistenza; si sono autolegittimati e la loro vita la vivono, organizzata in coppia o da single, facendo i conti quotidianamente con le gioie e le delusioni, con l’esaltazione di un nuovo amore o con la nostalgia di una giovinezza sfiorita, con le cose belle o noiose della vita. Sono persone di settanta anni o ragazzi di sedici, hanno i loro riti elaborati in secoli di repressione, i loro luoghi di incontro, i loro modi di socializzare, e a guardarli davvero da vicino, forse non hanno niente di diverso dagli altri. Siamo così, sembra dire il narratore, e questa è la nostra realtà. Se non vi sta bene non è un problema nostro: prendere o lasciare.

L’importanza che il tema ha assunto, in particolare proprio nella letteratura, non ha però trovato ancora una organica sistemazione né nella critica letteraria, né nelle storie della letteratura. Gli autori stessi, e le case editrici, tendono molto spesso a non mettere in evidenza il tema dell’omosessualità col timore che questi libri possano entrare a far parte di un circuito marginale e settoriale e non della letteratura con la ‘L’ maiuscola, ovvero di perdere quel carattere di universalità proprio della grande letteratura. L’assenza del tema o il suo occultamento, soprattutto nella critica e nelle storie letterarie, nasceva (e spesso ancora nasce) da forme, spesso inconsapevoli, di omofobia, dall’abitudine a censurare un argomento che per secoli è stato tabù. E’ come se esistesse ancora in qualche modo il pregiudizio secondo cui parlare di ciò che avviene tra un uomo e una donna appartenga alla ‘natura umana’ e ‘universale’, mentre parlare di ciò che succede a due uomini debba essere confinato nel ‘particolare’ e nello ‘speciale’.
Si pensi, per esempio, alla corposa tradizione di poesia gay italiana. La poesia, forse perché più elitaria, è stata spesso molto più libera e spregiudicata e situazioni gay attraversano, molto più che la narrativa, tutto il Novecento: da Saba a Penna, a Pasolini, a Bellezza, a Buffoni. Anche in questo caso però il tema è ignorato dalle antologie di poesia d’amore dove l’amore è sempre quello eterosessuale, e dai testi scolastici, dove pure si possono leggere alcune poesie di poeti gay, che però hanno per oggetto qualsiasi tema, ma non l’amore gay (Baldoni, 2012).
Per molti aspetti, insomma, il tema appare ancora problematico. Se prima non veniva esplicitato per evidenti problemi di censura e di autocensura, ora si dice spesso che non è necessario evidenziarlo perché non esiste più il problema e chi insiste a parlare di letteratura gay o di cultura gay rischia di apparire una persona legata ancora ad una fase di militanza che non avrebbe più motivo di esistere perché ormai nella cultura e nella società il tema gay sarebbe stato totalmente metabolizzato.
L’esperienza gay, in realtà, è ancora in larga parte clandestina e un ragazzo che scopre di essere gay, soprattutto se non vive in una grande città, non ha sufficienti punti di riferimento per vivere con una certa serenità il suo orientamento. Qualora ce ne fosse bisogno, i drammatici suicidi di giovani gay, convinti di essere gli unici al mondo, sono lì a dimostrare questa realtà di fatto. A questo si aggiunge che in Italia, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, l’esperienza LGBT non è ancora legittimata sul piano dei diritti.
Perché non promuovere allora una maggiore diffusione della cultura gay e non contemplare nelle biblioteche scolastiche, accanto a sezioni dedicate al razzismo e all’antisemitismo e in genere a tematiche relative all’inclusione e al rispetto di tutti, una sezione dedicata all’omofobia e alla letteratura di argomento omosessuale? Gli adolescenti gay si sentirebbero meno soli.
«Io penso – mi ha detto nel corso di un’intervista lo scrittore Colm Toibin (autore di importanti libri gay da “Il faro di Blackwater” a “The Master”) – che i libri di James Baldwin, di David Leavitt, di Edmund White, di Alan Hollinghurst sono importantissimi per i gay: è come incontrare qualcuno che condivide la tua vita, le tue emozioni. E questo è fondamentale perché ci sono immagini comuni, storie e situazioni da condividere e che non siano solo suicidi e disperazioni.» (Gnerre e Leonardi, 2007).
Questi libri, però, non sono importanti solo per i lettori gay. Ponendosi in modo problematico e/o liberatorio rispetto al comportamento omosessuale, destrutturando i modelli vigenti e gli stereotipi, questi libri aiutano tutti e tutte a confrontarsi con le molteplici forme relative alla sessualità e a combattere l’omofobia. Perché l’omofobia nasce dall’ignoranza e la letteratura, straordinario luogo simbolico di sperimentazione dell’utopia di un diverso futuro, aiuta a considerare praticabile e possibile ciò che non c’è fino a che non è stato scritto, fa emergere dal silenzio sentimenti ed emozioni che accompagnano gli amori tra persone dello stesso sesso, rende familiari comportamenti troppo spesso circondati ancora da un alone di peccaminoso e di proibito.

Bibliografia

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Famiglie arcobaleno e letteratura per l’infanzia: l’esperienza di “Lo Stampatello” http://www.portalenazionalelgbt.it/famiglie-arcobaleno-e-letteratura-per-linfanzia/ Wed, 15 Oct 2014 09:59:39 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1780 A cura di Mara Pieri, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel 2011 nasce “Lo Stampatello”, la prima casa editrice italiana che racconta l’omogenitorialità a bambini e bambine. Il motto dell’avventura editoriale è “Parlami in stampatello”: l’idea di Francesca Pardi e Maria Silvia Fiengo, le fondatrici, è quella di proporre temi complessi, delicati e sfaccettati con un linguaggio semplice, chiaro e diretto. In poco tempo, l’attività della casa editrice si estende anche a temi come l’omoaffettività e le esperienze che meno trovano posto nella letteratura per l’infanzia ma che vissute in prima persona possono far sorgere nei bambini e nelle bambine domande e curiosità. Oggi “Lo Stampatello” conta un catalogo di più di 30 libri, tra cui diverse traduzioni di pubblicazioni internazionali. Francesca Pardi, autrice e co-fondatrice, ci racconta com’è nata e come si è sviluppata l’attività della casa editrice.

Com’è nata l’idea di fondare “Lo Stampatello”?

L’avventura de “Lo Stampatello” nasce dall’idea mia e della mia compagna, Maria Silvia. Noi siamo due donne che hanno fatto un famiglia attraverso l’inseminazione eterologa in Olanda. La nostra prima figlia è nata nel 2002, e nel 2010, quando aveva 8 anni, incominciando ad andare a scuola, ha iniziato anche a dover affrontare le domande e le curiosità dei compagni e delle compagne rispetto al fatto di avere due mamme. Essendo timida e riservata, non aveva molta voglia di rispondere a queste domande, e ci disse «Ma non c’è un libro per far capire queste cose agli altri bambini?». Noi abbiamo una libreria di libri per bambini molto fornita, e da lì, prendendo illustrazioni e pezzi di racconti diversi, le ho costruito la storia della nostra famiglia: così facendo, ci siamo però rese conto che in Italia non c’era niente di questo genere. A quel punto, ho chiesto ad un’amica di illustrare la storia, e abbiamo iniziato a farla circolare: ha funzionato molto bene, sia con i bambini e le bambine sia con i genitori. Molti, infatti, avevano magari avuto l’esigenza o il desiderio di raccontare quest’esperienza ma non sapevano come fare. Altre famiglie, quindi, hanno iniziato a chiedercelo, dandoci lo stimolo per mandare la proposta a diverse case editrici. Una di esse, in particolare, ha in prima battuta accettato di pubblicarci, per poi ritrattare considerando l’argomento troppo delicato: nonostante la delusione, questo ci ha fatto capire che quello che stavamo facendo poteva avere anche un riscontro in ambito editoriale. “Lo Stampatello” nasce quindi per pubblicare questo libro.

Come nasce invece la vera e propria casa editrice?

Subito dopo, abbiamo chiesto ad Altan di illustrare una storia che avevo scritto: avevamo la fantasia di lavorare con un illustratore del suo calibro, e ha accettato. È nato così “Piccolo Uovo”, che ha segnato la nascita di una vera casa editrice. Il libro ha scatenato diverse reazioni, in positivo, con il supporto di molti ambienti, anche politici, e in negativo, con le polemiche scatenate da “Forza Nuova”. Questo in realtà ha fatto sì che il libro avesse molta visibilità, e ci facesse conoscere in Italia. Abbiamo poi trovato un libro edito in 15 paesi del mondo, ma non in Italia, intitolato “Il grande grosso libro delle famiglie”: abbiamo quindi deciso di tradurlo e pubblicarlo, instaurando un rapporto con una casa editrice inglese che adotta uno sguardo che in Italia è ancora poco diffuso. In sostanza, noi abbiamo di fatto sdoganato, nel nostro paese, la possibilità di parlare di omosessualità con i bambini e le bambine: sembrava infatti fosse un tema che per forza dovesse essere connesso solo ed esclusivamente con la sessualità, mentre, al contrario, coinvolge molti altri aspetti, l’affettività, la famiglia, l’identità, e questo, soprattutto noi genitori arcobaleno, lo sappiamo molto bene.
Fin dall’inizio, comunque, abbiamo cercato di fare un ampio discorso inclusivo, non solo incentrato sui temi LGBT, ma, più in generale, sul raccontare all’infanzia realtà negate e sguardi minoritari, con la pubblicazione, ad esempio, di libri dedicati all’immigrazione, come “Il mio primo giorno in Italia”, e alla separazione.

Com’è stata accolta l’idea e in che modo è iniziata la diffusione dei libri?

In generale l’accoglienza dell’ambiente della letteratura per l’infanzia è stata molto positiva. Allo stesso tempo, c’è comunque un aspetto commerciale da considerare, per cui magari molte case editrici sarebbero state pronte ad affrontare i temi che noi proponiamo in linea teorica, ma non si prendevano il rischio economico di provarci. Ci voleva un filo di incoscienza, e noi l’abbiamo avuto!
Ora riusciamo a vivere grazie a un enorme lavoro di rete e passaparola che ha permesso a “Lo Stampatello” di essere accolta molto bene. La vittoria del Premio Andersen con “Piccolo Uovo” è stata, a sua volta, una grande spinta a continuare: la partecipazione di Altan ha permesso di trovare un distributore anche se, al tempo, avevamo solamente due libri in catalogo. In quel momento è stata fondamentale la rete messa in gioco dalle associazioni LGBT, ed è anche grazie a loro se ora abbiamo guadagnato un nostro posto nello scenario dell’editoria italiana, pur continuando a faticare economicamente. È stato un tale investimento di passione ed energia che spesso ci siamo dette che, avesse anche dovuto finire in quel momento, ne sarebbe comunque valsa la pena.
Al momento siamo riuscite a stampare tutti i libri del catalogo, e riusciamo, in qualche modo, ad andare in pari economicamente, pur dovendo affrontare il rischio economico della stampa: ora abbiamo il nostro piccolo tesoro di libri stampati, e contiamo di venderli a poco a poco.

Come si muove la letteratura per l’infanzia sui temi LGBT in Italia e all’estero?

La nostra impressione è che in Italia si stiano muovendo molte cose: in particolare, si sta creando molta attenzione sulle tematiche di genere, e sul lavoro con gli stereotipi, forse anche per un discorso di quantità di persone che compra i libri e ha interesse per questi temi. Questo è positivo anche per il lavoro che facciamo noi, se consideriamo che omofobia e stereotipi di genere sono strettamente legati l’uno all’altro.
Anche noi, dunque, abbiamo affrontato il tema, pubblicando alcuni libri dedicati. In “Raffi”, raccontiamo la storia di un ragazzino a cui piace lavorare a maglia; in “La principessa salvata dai libri”, invece, protagonista è una principessa che passa il suo tempo su un albero aspettando un principe, finché, a convincerla a scendere, sarà un lavoro in biblioteca.
All’estero, invece, molti concetti sono acquisiti, per cui c’è un supporto anche istituzionale al cambiamento sociale: le istituzioni si fanno carico del cambiamento, e sono riuscite, in molti paesi, a realizzare un contesto nel quale alcuni concetti sono dati per scontati. Qui, purtroppo, le cose funzionano al contrario, per cui il cambiamento parte dal basso, e non viene sempre sostenuto dalle istituzioni.
Noi abbiamo instaurato legami con diverse case editrici, con le quali abbiamo dei rapporti di collaborazione, e con cui cerchiamo di condividere gli spazi promozionali e fieristici: si tratta di case editrici piccole e indipendenti, che si occupano di argomenti che creano una nicchia di pubblico. Essendo una casa editrice indipendente, abbiamo anche noi la possibilità di lavorare in autonomia rispetto ai temi e di collaborare per gli aspetti più promozionali con altre case editrici indipendenti, costruendo comunque il nostro percorso nella nicchia contenutistica che ci caratterizza.

Avete instaurato un dialogo particolare con le scuole e gli insegnanti?

Le scuole sono un veicolo educativo importantissimo: tuttavia, gli insegnanti si trovano in una condizione molto particolare, perché da una parte, sono realmente ‘sul campo’, in quanto lavorano fianco a fianco con i bambini e le bambine, e si relazionano direttamente con i genitori, ma, dall’altra, rispondono anche ai loro dirigenti scolastici. Ciò fa sì che, quando i dirigenti scolastici sono aperti, si riesca a costruire un dialogo. Gli insegnanti sono davvero sul campo, e, dunque, sono davvero dalla parte dei bambini. In particolare, nella scuola d’infanzia si assumono un compito educativo enorme. Successivamente, certo, si concentrano maggiormente sul rendimento e quindi hanno meno opportunità di lavorare sull’educazione a stare insieme e su aspetti relazionali.
Noi abbiamo incontrato moltissimi insegnanti bravi, disposti all’ascolto ma anche a mettersi in discussione rispetto ai loro stessi pregiudizi: anche nei casi in cui all’inizio si trovavano resistenze, l’interesse a far star bene i bambini e le bambine in classe era comunque talmente alto da permettere di creare un dialogo.
Abbiamo lavorato molto anche insieme all’Associazione Famiglie Arcobaleno, poco a livello istituzionale ma molto a livello di rapporti diretti con le scuole. Per esempio, abbiamo organizzato un incontro di autoformazione per insegnanti di scuole di ogni grado, affinché lavorassero insieme su storie realmente accadute e da noi raccontate, e, dopo una discussione in gruppi di lavoro, trovassero delle proposte educative per affrontare quelle specifiche criticità. Come Famiglie Arcobaleno, infatti, noi vediamo le criticità, ma le competenze educative sono degli insegnanti, ed è importante metterle in gioco.
È importante tenere presente che ci sono diversi livelli di omofobia sperimentata dai bambini e dalle bambine. Se alle scuole materne l’omofobia non è praticamente agita, e si pone solo un problema di legittimazione della famiglia, alle elementari già si incomincia a dire ‘gay’ come insulto: i bambini e le bambine figli di famiglie arcobaleno sanno che cosa significa ‘gay’, ed iniziano dunque a percepire che esiste uno stigma sociale riguardo ai propri genitori. Alle medie, poi, si crea un problema di bullismo, per cui lo stigma prende la forma di discriminazioni, che, anche se spesso non vengono rivolte verso i nostri figli e le nostre figlie, sono comunque visibili: per questo motivo, ci sembra più che mai importante parlare di questi temi fin dall’età della scuola materna.

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Le rappresentazioni dell’intersessualità: tra visibilità e stereotipi nella letteratura http://www.portalenazionalelgbt.it/le-rappresentazioni-dellintersessualita-tra-visibilita-e-stereotipi/ Fri, 01 Aug 2014 07:50:44 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1408 A cura di Daniela Crocetti, Ph.D. in Science, Technology and Humanities, Università degli Studi di Bologna.

Obiettivo di questo articolo è esplorare come la produzione culturale racconta l’intersessualità e discutere alcuni degli stereotipi e pregiudizi su questa esperienza a partire da due romanzi sul tema reperibili in italiano: “Middlesex” e “Golden Boy”.

“Middlesex” dello scrittore statunitense Jeffrey Eugenides è il primo romanzo in lingua italiana che parla di intersessualità ed è stato pubblicato nel 2003. È una saga familiare che segue le vicende della famiglia Stephanides tra la Grecia – da cui negli anni ’20 del ‘900 fuggono i fratelli Letfy e Desdemona – e gli Stati Uniti – dove i due decidono di stabilirsi e, infrangendo divieti consolidati, di sposarsi.
La protagonista del libro è Cal – nipote dei due – a cui in adolescenza viene diagnosticato il deficit di 5α-reduttasi ovvero una sindrome per la quale il corpo – nonostante siano presenti cromosomi cosiddetti maschili XY – si sviluppa in maniera ‘femminile’ a causa dell’assenza dell’enzima che converte il testosterone nella sua forma ‘attiva’, il DHT (Diidrotestosterone). La diagnosi di intersessualità diventa il motore narrativo per esplorare il percorso di crescita di Cal attraverso gli stereotipi omofobi e di genere presenti nella società occidentale e per offrire un affresco familiare dove l’affetto fatica a vincere sui pregiudizi e sulla vergogna. Cal, come molte persone intersessuate nella realtà, è oggetto di molteplici esami medici e viene spinta – dai medici e dai genitori – a sottoporsi ad interventi chirurgici e terapie per ‘normalizzare’ il suo corpo ‘da donna’ poiché questa sindrome può portare – con l’aumento del livello ormonale durante la pubertà – ad una ‘mascolinizzazione’ dei tratti somatici. La strada scelta dalla protagonista, però, è opposta: rifiutare la medicalizzazione e iniziare un viaggio – metaforico e reale – alla ricerca di sé mettendo in discussione – talvolta molto faticosamente – le dicotomie tra sesso e genere e ricostruendo la sua genealogia familiare.
“Middlesex” e’ una bella saga familiare, che introduce il tema dei traumi provocati dalla mancata comunicazione tra medici, genitori e figli e l’assenza di autodeterminazione delle persone intersex. Il libro, tuttavia, contiene anche alcuni stereotipi di cui è bene essere consapevoli per comprendere al meglio questa esperienza. In primo luogo la diagnosi di Cal viene collegata alla consanguineità dei nonni: sebbene sia in parte vero che la consanguineità può essere un fattore di rischio, questo non rispecchia le esperienze della stragrande maggioranza delle persone intersex e delle loro famiglie e rischia di riprodurre uno stigma sociale che non ha fondamento. In secondo luogo, la transizione della protagonista da un’identità di genere femminile ad una maschile e la sua relazione con un’amica viene descritta come la scoperta della ‘sua vera natura biologica’ perdendo l’occasione di raccontare la complessità di relazioni che possono esservi tra identità, corpo biologico e orientamento sessuale. La confusione tra orientamento sessuale e identità di genere, infatti, ha oscurato a lungo i reali desideri delle persone intersessuate. Laddove, infatti, una persona, diagnosticata con una qualche forma di intersessualità, dimostri un orientamento omosessuale si mette in discussione la sua identità di genere senza consultarne il parere. Se, dunque, come nel caso della protagonista del romanzo, alcune persone possono decidere di identificarsi con il genere opposto a quello con cui sono state cresciute, altre vorrebbero mantenere l’identità di genere assegnata loro alla nascita, anche quando si sentono attratte da persone del loro sesso.

Dieci anni dopo “Middlesex”, nel 2014 è stato pubblicato “Golden Boy” dell’esordiente Abigail Tarttelin. “Golden Boy” racconta la storia di Max adolescente ‘d’oro’ – gentile, corteggiato dalle ragazze, eccellente a scuola, ottimo calciatore – e della sua famiglia – borghese e progressista – alle prese con una diagnosi d’intersessualità. Diversamente da “Middlesex”, però, la diagnosi non arriva in adolescenza, ma alla nascita e il comportamento dei genitori non è di medicalizzazione, ma di accoglienza della diversità di cui il figlio è portatore. Nonostante queste premesse positive, però, a complicare il quadro (e forse a renderlo più realistico) ci sono l’ingresso in adolescenza di Max, e tutto quello che ciò comporta in termini di esplorazione di sé e dei rapporti (anche erotici ed affettivi) con gli altri, e la campagna elettorale del padre per la quale ‘il segreto’ di Max deve rimanere tale per evitare la vergogna e la stigmatizzazione sociale. Alcuni fatti drammatici, però, obbligheranno tutti a fare i conti con questa esperienza e a rompere il silenzio.
Da un lato, l’autrice racconta con acume e tatto come la vergogna nata dalla stigmatizzazione della propria diversità possa portare una persona a subire violenze (fisiche e psicologiche) e, soprattutto, a sentirsi colpevole delle violenze subite. Come ci hanno insegnato moltissimi attivisti intersex, infatti, l’idea che l’intersessualità sia qualcosa di cui vergognarsi e che deve essere nascosta ad ogni costo è la cosa che provoca i traumi maggiori: è la stigmatizzazione sociale sulla diversità a creare sofferenze e non la diversità del proprio corpo. Dall’altro, però, proprio per la scelta di utilizzare un fatto estremamente drammatico (in questo caso una violenza sessuale) per dare il via al percorso di riflessione su di sé di Max e dei suoi familiari, si corre il rischio di perpetrare degli stereotipi sulle persone intersex, annoverando le loro esperienze di vita sempre e comunque nell’ambito del drammatico senza lasciare spazio per narrazioni meno sensazionali e appetibili dal punto di vista letterario, ma forse più veritiere.
E’ però pregevole che l’autrice racconti le esplorazioni identitarie del protagonista senza necessariamente fare riferimento alla ‘fluidità di genere’ (il cosiddetto ‘continuum’ tra maschile e femminile): in alcuni casi, infatti, la narrativa ha raccontato l’esperienza dell’intersessualità collegandola ad un’attitudine genderqueer ovvero un’identità o un comportamento di genere fluido tra maschile e femminile che invece non corrisponde necessariamente a come si sentono le persone intersex.
In questo senso la letteratura può essere un buon strumento per creare immaginario, rompere il silenzio e sfidare la vergogna attorno all’esperienza dell’intersessualità. Allo stesso modo, però, a fronte di un’esperienza poco conosciuta come quella dell’intersessualità, l’immaginazione letteraria può creare dei fraintendimenti rispetto alle reali esperienze delle persone intersex: questo articolo vuole essere una bussola per orientarsi tra questi due aspetti.

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Le date simboliche contro l’omofobia e la transfobia: il 17 maggio e il 20 novembre http://www.portalenazionalelgbt.it/idahot-e-t-dor/ Mon, 21 Jul 2014 09:15:48 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1376 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

Il 17 maggio e il 20 novembre costituiscono le due date simboliche strettamente legate all’impegno delle Istituzioni, delle Organizzazioni e della cittadinanza contro l’omofobia e la transfobia.
Il 17 maggio si celebra in tutto il mondo la Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia (IDAHOT, International Day Against Homophobia and Transphobia, nell’acronimo inglese). Il 20 novembre di ogni anno ricorre la Giornata Internazionale in ricordo delle persone transessuali e transgender uccise dalla violenza transfobica (T-DoR, International Transgender Day of Remembrance nell’acronimo inglese).

17 maggio (IDAHOT)

Il 17 maggio 1990, l’Assemblea Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rimosse l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali contenuta nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD 10: International Classification of Diseases), contribuendo a scrivere una pagina fondamentale nella storia dei Diritti Umani.
Questa giornata ha avuto un impatto profondo sulla vita delle persone lesbiche, gay e bisessuali perché da un lato ha contribuito a cancellare l’immagine della malattia mentale che ricadeva su di esse già dal secolo precedente, dall’altro ha favorito la messa in discussione di pregiudizi e discriminazioni ancora diffusi nella nostra società.

Grazie all’opera di Luis George Tin, uno scrittore e attivista per i diritti LGBT francese, fu creata nel 2004 a Parigi un’associazione chiamata “Comitato IDAHO”, con l’obiettivo di promuovere il 17 maggio di ogni anno la celebrazione della Giornata Internazionale contro l’omofobia. Dopo una campagna durata quasi un anno, la Giornata venne celebrata per la prima volta il 17 maggio del 2005 con iniziative di attiviste/i LGBT di vari Paesi del mondo finalizzate a rendere visibile l’esistenza dell’omofobia come paura e pregiudizio sociale nei confronti delle persone omosessuali e a sensibilizzare la cittadinanza e le Istituzioni sulle diverse forme di discriminazione e violenza di cui sono oggetto le persone LGBT.

Gli eventi e le iniziative messe in campo dalle attiviste e dagli attivisti LGBT per l’IDAHO non vennero sempre accolti con favore, e la preoccupazione per il ripetersi di numerosi episodi di discriminazione e violenza nei confronti delle persone omosessuali portarono il Parlamento Europeo, il 26 aprile 2007, ad adottare una Risoluzione sull’omofobia in Europa che condannava i discorsi d’odio e le violenze omofobiche e indiceva il 17 maggio di ogni anno quale Giornata internazionale contro l’omofobia in Europa.
Nel 2009, l‘aumento di casi di violenza nei confronti delle persone transessuali e transgender e l’accresciuta consapevolezza all’interno della comunità LGBT delle specifiche istanze del movimento transessuale portarono a cambiare il nome della Giornata in Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia, o IDAHOT (International Day Against Homophobia and Transphobia).

A partire dalla sua istituzione, l’Associazione “Comitato IDAHO” ha lanciato in rete un proprio sito ufficiale per spiegare la storia e le motivazioni della Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, valorizzare gli eventi che in occasione di questa data si svolgono in tutto il mondo, offrire a Organizzazioni e Istituzioni strumenti per promuovere campagne di sensibilizzazione, attività e progetti di intervento.
Le motivazioni storiche del 17 maggio l’hanno resa una data fondamentale per le Istituzioni che, con l’adesione alla celebrazione della Giornata, testimoniano il loro impegno contro le discriminazioni e la violenza nei confronti delle persone LGBT e per il riconoscimento dei loro diritti.

Da due anni, proprio nella giornata del 17 maggio, ha luogo il “Forum europeo IDAHO”, un incontro tra rappresentanti di Governi, Enti Locali, Organizzazioni non governative e Associazioni finalizzato a promuovere l’emancipazione delle persone LGBT, combattere la violenza e la discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere, fare il punto della situazione sui risultati delle politiche messe in atto e sulla cooperazione in Europa e nel mondo.
Il Forum europeo ha avuto luogo per la prima volta a L’Aja nel 2013, su iniziativa del Governo dell’Olanda, e nel 2014 a La Valletta, organizzato dai Governi di Malta e Svezia. In particolare, in quest’ultima occasione, è stata sottoscritta una Carta di Intenti dai rappresentanti dei Governi di 17 Paesi europei tra cui l’Italia.
Tra i punti salienti della Carta vi è il richiamo al principio dell’universalità e inderogabilità dei Diritti Umani riaffermando che valori culturali, tradizionali e religiosi non possono essere invocati per giustificare alcun tipo di discriminazione, inclusa quella per orientamento sessuale e identità di genere. Nella Carta di Intenti, i Paesi sottoscrittori dichiarano la loro intenzione di intraprendere ogni utile azione al fine di rimuovere e punire qualsiasi forma di discriminazione connessa all’orientamento sessuale e all’identità di genere di una persona .

In Italia l’IDAHOT viene celebrato dalle Istituzioni centrali (Presidenza della Repubblica, Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri) e locali (Regioni, Province, Comuni) nei luoghi istituzionali con la partecipazione di personalità del mondo della cultura, dell’economia e dello spettacolo e con il coinvolgimento delle Associazioni LGBT italiane e internazionali. Nei piccoli e grandi centri del nostro Paese, inoltre, si svolgono il 17 maggio per iniziativa di Associazioni ed Enti Locali eventi in piazza, flash-mob, dibattiti, spettacoli teatrali, veglie di preghiera per le vittime dell’omotransfobia all’interno di alcune Chiese, mostre e concerti dedicati.

Nel corso degli anni il numero di Organizzazioni e Istituzioni impegnate per realizzare eventi e iniziative nella giornata del 17 maggio è sensibilmente cresciuto, ed oggi l’IDAHOT viene celebrato in più di 120 Paesi del mondo.

20 novembre (T-DoR)

L’efferato assassinio di una popolare donna transgender afro-americana, Rita Hester, il 28 novembre 1998 ad Allston negli USA, suscitò un’ondata di commozione e profonda adirazione nella comunità transessuale e rock-n-roll della cittadina vicina a Boston. Alla veglia organizzata in ricordo della vittima parteciparono oltre duecentocinquanta persone che marciarono con una candela nelle mani. Questa veglia ispirò la nascita del progetto web “Remembering Our Dead”, in ricordo dei nostri defunti, e la successiva commemorazione, nel 1999 a San Francisco, delle persone transessuali e transgender uccise dalla violenza transfobica, con una veglia pubblica illuminata dalla luce delle candele.
La partecipazione della cittadinanza a quegli eventi portò la comunità transessuale e transgender a individuare la data del 20 novembre per ricordare nelle piazze di tutto il mondo le persone transessuali/transgender vittime di violenza con l’istituzione del T-DoR (International Transgender Day of Remembrance in inglese). Il momento più importante della Giornata è costituito dalla veglia al lume delle candele (candlelight vigil in inglese), la cui luce vuole simboleggiare il ricordo delle vite delle persone transessuali e transgender stroncate dalla violenza e uccise.
Come l’IDAHOT, il T-DoR costituisce anche l’occasione per Istituzioni e Organizzazioni di esprimere ferma condanna della violenza transfobica e riflettere sui pregiudizi verso le persone transessuali/transgender ancora così diffusi nella nostra società. Il sito web dedicato al T-DoR presenta la storia e le motivazioni della Giornata del 20 novembre e riporta le veglie candlelight che si svolgono nei vari Paesi del mondo. Sono anche presenti suggerimenti per l’organizzazione del T-DoR sulla base delle esperienze condotte negli anni precedenti. Sul sito, inoltre, sono ricordati i nomi delle persone transessuali/transgender brutalmente uccise ogni anno.

Come in molti Paesi del mondo, anche in Italia il T-Dor viene celebrato nelle piazze delle principali città con veglie illuminate da candele, lettura di brani e poesie accompagnata da musiche, e altre iniziative di informazione e sensibilizzazione.

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DIVERGENTI: l’identità di genere raccontata in un festival di cinema http://www.portalenazionalelgbt.it/divergenti-lidentita-di-genere-raccontata-in-un-festival-di-cinema/ Wed, 25 Jun 2014 11:07:21 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1083 A cura di Mara Pieri, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel 2008 nasceva a Bologna il primo festival di cinema trans italiano, “Divergenti”: da sette edizioni, il festival presenta film internazionali che raccontano l’identità di genere attraverso le sfumature più diverse, portando in Italia autori, autrici e artisti da tutto il mondo, e proponendo al pubblico riflessioni e sfide sempre diverse: ne abbiamo parlato con Luki Massa, direttrice artistica del festival.

“Divergenti” ha appena chiuso la settima edizione: qual è il bilancio per il 2014?

Possiamo fare diversi bilanci. Dal punto di vista della qualità della proposta cinematografica, continuiamo a registrare di anno in anno una maturità sempre maggiore sia in termini di elaborazione dell’esperienza trans che di uso consapevole e comunicativamente efficace del linguaggio cinematografico. Se nelle prime edizioni la chiave vittimistica era quella dominante, sia nelle fiction che, a maggior ragione, nei documentari, adesso l’approccio narrativo è molto più articolato e ampio: storie come quella di Beatrice, protagonista del film “Fuoristrada”, vincitore quest’anno sia del premio del pubblico che del premio della giuria di qualità, ci raccontano un cambiamento che sta già avvenendo, in cui il transessualismo può essere un percorso gioioso e intenso alla ricerca della felicità. Inoltre, anche quest’anno, il riscontro del pubblico è cresciuto ed è aumentata la percentuale di pubblico trans: questo mi fa molto piacere perché coinvolgere le persone trans era fin dall’inizio uno degli obiettivi del festival.

Com’è nato “Divergenti” e come è cambiato nel corso degli anni?

Il festival è nato nel 2008 da un forte desiderio del MIT (Movimento Identità Transessuale): stanche di vedere le persone transessuali in bilico tra l’invisibilità e la stigmatizzazione, tra il pregiudizio e la vittimizzazione nei media e nel cinema mainstream, Marcella Di Folco, Porpora Marcasciano e le attiviste del MIT hanno deciso di creare un festival che contribuisse a riscrivere la storia trans, a far circolare un immaginario del transessualismo più variegato e complesso e a trasmettere la ‘favolosità’ dell’esperienza trans. Per farlo hanno coinvolto me nella direzione artistica e nella scelta dei film, come esperta di cinema, in particolare cinema lesbico e femminista, che aveva un rapporto politico e affettivo molto stretto con il MIT. Nel corso degli anni il gruppo di lavoro è cresciuto, coinvolgendo ragazze e ragazzi trans anche molto giovani. Inoltre sono stati invitati sempre più spesso ospiti internazionali, dai registi alle pioniere del movimento, dai protagonisti dei film alle artiste trans. Una novità degli ultimi due anni è la giuria di qualità formata da giornaliste/i, critiche/i, scrittrici, direttori di altri festival italiani.

Il festival costituisce un’eccellenza italiana: in che modo viene percepito anche all’estero e quali sono i rapporti con altri festival e organizzazioni internazionali?

In Italia Divergenti rappresenta l’unico festival cinematografico a tematica transessuale, transgender e intersex. Le uniche altre due esperienze in Europa sono i festival di Amsterdam e Parigi, con cui abbiamo collaborato in alcune occasioni. All’estero il festival è sicuramente percepito come importante occasione di visibilità del cinema a tematica trans, considerando che sono molto cresciute negli anni le autocandidature di film. Inoltre i progetti europei che il Mit realizza hanno permesso di far confluire nel festival occasioni importanti di confronto internazionale sulle tematiche trans, come ad esempio il workshop su transessualismo e media realizzato lo scorso anno insieme alle e agli attiviste/i inglesi di Trans Media Watch.

“Divergenti” ha contribuito a cambiare il mondo LGBT in Italia: quali sono le sfide per le prossime edizioni?

Il festival ha il merito di aver facilitato l’emersione e la discussione di alcune tematiche importanti all’interno del movimento LGBTQ: penso all’intersessualità così come al dibattito sulla depatologizzazione che proprio quest’anno è stato il focus del Festival. La prima sfida per il futuro è sicuramente quella di continuare a proporre film e eventi culturali di qualità nonostante i tagli alla cultura che ovviamente colpiscono anche noi. Un’altra sfida è quella di portare Divergenti in viaggio per l’Italia, come è già stato fatto quest’anno con “Divergenti Speciale Napoli”.

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“Nessuno Uguale”: l’orientamento sessuale tra gli/le adolescenti. Intervista a Claudio Cipelletti, regista del film http://www.portalenazionalelgbt.it/nessuno-uguale-lorientamento-sessuale-tra-i-giovani-intervista-a-claudio-cipelletti-regista-del-film/ Thu, 15 May 2014 10:23:35 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=564 A cura di Mara Pieri, sociologa, Gruppo di redazione.

Alla fine degli anni ’90, su iniziativa di Agedo (Associazione di Genitori, parenti e amici di persone LGBT), nasce Nessuno uguale, un documentario che parla di orientamento sessuale, pregiudizi e coming out con adolescenti di varie scuole superiori milanesi e giovani gay e lesbiche. Il documentario è tuttora utilizzato come strumento educativo, grazie alla grande capacità di raccontare che cosa significa essere ‘diverso/a’ nell’età adolescenziale. Ora il documentario è a disposizione su questo portale. Ne abbiamo pertanto parlato con Claudio Cipelletti, regista del film.

Da che cosa è nata l’idea di “Nessuno uguale” e quale è stato il background del progetto?

“Nessuno uguale” è nato nel 1997-1998. In quel momento, Agedo aveva aperto un primo canale di lavoro con Gustavo Pietropolli Charmet, psicologo dell’età adolescenziale, per fare un convegno su adolescenza e omosessualità. Si trattava di un’assoluta novità abbinare il discorso dell’adolescenza e quello dell’omosessualità, sembrava inopportuno e anche scandaloso, come se l’omosessualità fosse una condizione che non appartiene alla adolescenza ma ad altre età. In quel contesto, Paola dall’Orto – la fondatrice di Agedo – mi invitò a progettare un video con lo scopo strategico di raggiungere le famiglie, perché era difficilissimo per Agedo avere la possibilità di incontrare gli altri genitori con figli e figlie omosessuali: i genitori avevano paura a mostrarsi, a confrontarsi, c’era moltissima difficoltà e omertà. Quindi è nata l’idea di entrare nelle scuole, contattare i ragazzi e le ragazze e iniziare a lavorare con loro, che comunque sono molto più avanti – come sempre – sulle cose che li riguardano direttamente. Il lavoro è iniziato in questo modo, e abbiamo potuto sviluppare il progetto con la Provincia di Milano, l’allora Servizio Audiovisivi Medialogo che ha creduto nell’operazione.

Il video fa dialogare tra loro storie parallele di giovani gay e lesbiche e di adolescenti che si trovano a parlare di omosessualità: come è stato costruito il rapporto con loro che ha poi permesso che si raccontassero con tanta naturalezza?

Un presupposto fondamentale è stato di concentrarci sull’adolescenza, e quindi su quello che l’adolescenza comporta: entrare nel mondo adulto, confrontarsi con gli adulti e con i pari, costruendo ‘chi sono io’, cioè la mia identità di persona nel mondo, con la paura del giudizio che accomuna tutti. Partendo dall’idea che questa è l’atmosfera in cui ogni adolescente si muove, il discorso sull’omosessualità nell’adolescenza ha tenuto conto di questo dato. L’altro presupposto era quello di costruire il confronto tra persone che non comunicano normalmente in modo esplicito: da un lato, adolescenti che si ritengono eterosessuali e che si presentano come tali nel film, che non sanno nulla di ‘dove stanno questi gay’, ma credono di sapere molte cose sull’omosessualità – che in realtà è il portato della costruzione culturale che chiamiamo pregiudizio, ovvero credere di sapere qualcosa senza averlo mai approfondito. Dall’altro lato, invece, ragazzi gay e ragazze lesbiche che hanno preso coscienza di sé molto presto, attraversando questo percorso da soli e che appaiono, per certi versi, più maturi dei loro compagni e delle loro compagne eterosessuali perché hanno dovuto sbattere il naso contro qualcosa di molto duro. Il documentario fa, però, emergere come tutti gli adolescenti nel periodo di crescita si trovino a vivere situazioni difficili o problematiche e come questo accomuni tutte e tutti indipendentemente dall’orientamento sessuale. La preparazione del documentario è avvenuta sempre con l’aiuto di professionisti, Roberto Del Favero, psicologo, e Stefania Zaccherini Marangoni, formatrice: con loro abbiamo capito che dovevamo impostare le cose in questo modo e che doveva essere un confronto tra adolescenti capace di dribblare il pregiudizio.

Quali sono state le maggiori difficoltà riscontrate nella realizzazione del progetto?

La maggiore difficoltà è stata costruire i gruppi adeguatamente, e io l’ho fatto appoggiandomi per una prima fase al lavoro di Arcigay nelle scuole. Già allora infatti Arcigay faceva formazione, soprattutto nei momenti di autogestione, in cui si parlava apertamente di omosessualità: lì ho cominciato a capire che ragazzi e ragazze potevo invitare, scegliendo anche quelli apertamente omofobi, o che esprimevano con franchezza e veemenza la loro difficoltà, perché altrimenti avremmo realizzato un documentario ‘politically correct’ di nessuna utilità. Poi, attraverso altri canali o il passaparola, sono riuscito a contattare ragazzi gay e ragazze lesbiche più grandi, che hanno finito il liceo.

Il video si propone sia come documentario che come vero e proprio strumento educativo: quali sono stati gli sviluppi del progetto? Quale circuitazione ha avuto e con quali esiti?

Già allora ho costruito quest’esperienza con un occhio agli Stati Uniti, in particolare al lavoro di Debra Chastnoff e Helen Cohen, “It’s elementary“: un lavoro brillante e straordinario che a metà degli anni ’90 si è proposto di parlare di omosessualità alle elementari e lo faceva, nonostante le autrici fossero lesbiche, solo con insegnanti eterosessuali. Il documentario scatenò una polemica mediatica micidiale negli Stati Uniti. Il risultato però è un film bellissimo che molto pragmaticamente dimostra che parlare ai ragazzi e alle ragazze di amore e non di sesso è possibile, anche quando non è solamente eterosessuale, e che prima che si sedimenti il pregiudizio bambini e bambine sono molto più liberi e capaci di andare oltre le etichette sociali. “Nessuno uguale” nasce da quell’esperienza riportata da noi: io l’ho fatto perché sentivo il bisogno bruciante di farlo, io stesso ho vissuto quell’esperienza di isolamento che raccontano i ragazzi gay e le ragazze lesbiche e non mi sembrava tollerabile che questa storia continuasse a ripetersi. Volevo riuscire a raccontare questo percorso perché altri ne venissero a conoscenza prima di cadere nella disperazione, volevo che avesse una funzione di diffusione culturale e di prevenzione. Mi sono tuttavia stupito del fatto, però, che è rimasto l’unico esempio: non c’erano, allora, prodotti analoghi, ma non ne sono stati fatti neanche dopo. Per questo motivo viene ancora utilizzato: in realtà le cose nel profondo non sono cambiate moltissimo, è cambiata molto l’apparenza dei problemi, ma non ci sono altri documentari informativi e didattici, ma non prescrittivi, ovvero capaci semplicemente di mostrare nel profondo, senza veli, i percorsi di questi ragazzi e ragazze. Il documentario inoltre dimostra qualcosa di alto valore formativo: bastano due giorni di lavoro in un gruppo di adolescenti che non si conoscono e vengono da scuole diverse per dare dei risultati strepitosi, e questo andrebbe fatto sempre nella nostra scuola perché quel percorso per loro è stato indimenticabile, ha segnato la vita e la crescita in modo positivo.
L’utilizzo didattico successivo purtroppo è stato molto spontaneo, mai pienamente istituzionalizzato: abbiamo tentato di fare una distribuzione nazionale nelle scuole ma di fatto non è stato possibile, e solo la Regione Piemonte e il Comune di Torino hanno avuto la sensibilità, le possibilità e le strutture per proporre il VHS nelle scuole e nelle biblioteche comunali o di abbinarlo a progetti formativi. Quindi è tutto in mano a insegnanti che per passaparola lo hanno conosciuto e utilizzato, e questo continua ad avvenire, perché ce lo chiedono, si fanno lavori di formazione. “Nessuno uguale” poi ha prodotto un secondo step ancora più importante: una volta che è stato usato dai figli per fare coming out in casa e aprire il dialogo con i propri genitori, i genitori stessi hanno cominciato ad affluire ad Agedo con meno paura, ed è stato possibile mettere in cantiere “Due volte genitori“, un documentario sulle famiglie e sui genitori, che ha avuto ancora più diffusione.

Hai avuto modo di incontrare nuovamente i protagonisti e le protagoniste del video a distanza di tempo?

Due settimane fa abbiamo fatto una proiezione all’università di Bologna con grandissimo successo con Margherita, una delle ragazze che era nel film, ed è ancora legata al progetto; sono in contatto con alcuni e alcune di loro, ma con altri ci siamo persi. La mia idea era di fare un aggiornamento di “Nessuno uguale” ai giorni nostri coinvolgendo i ragazzi e le ragazze di allora, facendo un confronto fra generazioni in questo momento.

Il video è stato realizzato alla fine degli anni ‘90, quando ancora molti cambiamenti nel mondo LGBT e, in generale, nella possibilità di accedere a informazioni non erano avvenuti. Se il progetto si ripetesse attualmente, quali pensa che sarebbero le differenze?

Purtroppo quello che è cambiato è fondamentalmente la tecnologia della comunicazione: i ragazzi e le ragazze di “Nessuno uguale” non avevano neanche il telefonino, figuriamoci Internet 2.0 e i social! Oggi sarebbe un po’ paradossale sostenere di essere ‘l’unico sulla terra’, perché, effettivamente, se ci si connette ad Internet è possibile entrare in contatto con coetanei e coetanee omosessuali. Si tratta però di una nuova solitudine che non è sinonimo di crescita. In un certo senso siamo in balia di un’overdose mediatica: è andata consolidandosi un’immagine mediatica ed esteriore attorno all’omosessualità, neanche sull’omosessualità, che non ha nulla a che vedere con i percorsi di cui si parla nel film. Nella sostanza secondo me non è cambiato nulla: io credo che la comunicazione di per sé non agevoli il processo di crescita se non è accompagnata da un percorso formativo adeguato e dall’assunzione di responsabilità del mondo scolastico, cosa che come sappiamo non sempre avviene. Spesso i mezzi di comunicazione e la facilità di accesso alle informazioni generano confusione e influiscono erroneamente sull’opinione pubblica: per esempio la parola outing è stata introdotta dai media per dire coming out, è piaciuto il suono di quella parola, ma non ci si è accorti che è un termine omofobico e scorretto.

A quali progetti sta lavorando attualmente?

Non ho progetti in cantiere al momento, ma ci sono tre temi su cui mi piacerebbe lavorare. Uno è quello dei matrimoni: dopo aver parlato di difficoltà di coming out adolescenziali, difficoltà di coming out in famiglia, volevo raccontare come si sta in coppia, come vivono le coppie di lunga data, cosa comporta il fatto di non avere un riconoscimento esterno. Altri due temi sono quello del transgenderismo e della transessualità e quello dell’immigrazione e dell’omosessualità, le seconde generazione di immigrati ed il coming out in culture diverse. Sono però tutti progetti molto complessi e ambiziosi che sono ancora nella sfera delle ipotesi.
Voglio concludere ringraziando moltissimo Agedo, perché è stata una forza propulsiva: io negli anni ’90 avevo voglia di lavorare su e con le scuole, ma non l’avrei fatto senza lo stimolo di Paola Dall’Orto che come me aveva un’esigenza militante straordinaria.

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