Omofobia e transfobia – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Omofobia: le fonti psico-sociali delle discriminazioni http://www.portalenazionalelgbt.it/omofobia-e-transfobia/ Thu, 24 Jul 2014 09:50:37 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1229 A cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma. Parti di questo articolo sono tratte da “Citizen gay. Affetti e diritti” di Vittorio Lingiardi (ed. Il Saggiatore, 2012) e da “Linee guida per la consulenza psicologica con persone lesbiche, gay, bisessuali” di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli (ed. Cortina, 2014).

Il 17 maggio di ogni anno si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, una ricorrenza riconosciuta nel 2007 dall’Unione europea e finalizzata a promuovere eventi internazionali di prevenzione e sensibilizzazione nei confronti di queste piaghe sociali e psicologiche. Scrivere, nello stesso contesto, di omosessualità, bisessualità, transgenderismo e transessualismo è problematico perché si corre il rischio di assimilare realtà e esperienze tra loro diverse. Inoltre, le omosessualità e le bisessualità (uso il plurale per sottolineare l’infinito articolarsi delle -sessualità, eterosessualità comprese) riguardano principalmente l’orientamento sessuale di un individuo. Le transessualità e, più in generale, le dimensioni transgender, invece, riguardano principalmente le identità e i ruoli di genere di un individuo.

Per motivi di spazio, in questo contributo parlerò principalmente di omofobia (ossia di disagio, paura, pregiudizi, svalutazione, avversione e/o ostilità, su base psicologico-individuale e/o ideologico-collettiva, nei confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità), ben consapevole dell’esistenza e dell’impatto psicologico e sociale della transfobia, ossia di pregiudizi e comportamenti negativi, stigmatizzanti, discriminatori e ostili, nei confronti della persona transessuali e transgender.

Per decenni gli studi scientifici hanno ‘indagato’ l’omosessualità come ‘problema’ da conoscere e, spesso, ‘risolvere’. È solo dai primi anni settanta che la comunità scientifica ha iniziato a considerare come oggetto di studio e ricerca non tanto l’omosessualità, quanto l’omofobia, nelle sue molte manifestazioni.
Se per tanti anni la domanda è stata «Perché sei omosessuale?» (domanda senza risposta, esattamente come «Perché sei eterosessuale?», anche se quest’ultima è raramente formulata), oggi la domanda è sempre più spesso «Perché sei spaventato dall’omosessualità o ostile alle persone omosessuali?». La ricerca sulle cause (il più delle volte considerate patologiche) dell’omosessualità ha progressivamente ceduto il passo alla ricerca sulle cause e le espressioni dell’omofobia.
Di pari passo è cambiata la pratica clinica, che ha abbandonato i modelli patologizzanti e bandito le cosiddette ‘terapie riparative’ (finalizzate alla cura dell’omosessualità), la cui inefficacia e i danni emotivi prodotti sono scientificamente ben documentati.

È uno psicologo, George Weinberg, a coniare, nel 1972, la parola omofobia per descrivere la paura irrazionale di trovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali e le reazioni di ansia, disgusto, avversione o intolleranza che alcuni eterosessuali possono provare nei confronti di persone gay e lesbiche. Dal problema sociale rappresentato dall’omosessualità Weinberg sposta l’attenzione a quello psicologico degli atteggiamenti verso di essa, privilegiando gli aspetti emotivi dell’omofobo più di quelli cognitivi. Tuttavia, pur annoverandola tra le ‘fobie classiche’, Weinberg sottolinea la portata aggressiva dell’omofobia e la propensione a convertirsi in violenza, caratteristiche che la qualificano come fobia ‘atipica’.
Il termine omofobia, infatti, porta l’attenzione soprattutto sulle cause individuali e irrazionali della ‘fobia’, trascurandone componenti cognitive e radici culturali e sociali, oltre che la parentela con altri modi di ‘odiare in prima persona plurale’, come la misoginia, la transfobia, il razzismo, la xenofobia. Molti studiosi preferiscono, dunque, il concetto multidimensionale di omonegatività, secondo il quale l’omofobia in senso stretto sarebbe solo un fattore nel contesto più ampio di atteggiamenti che coinvolgono il piano sociale, politico, culturale, legale, morale. In altre parole, molti dei comportamenti e affermazioni comunemente considerati omofobici o transfobici non sono principalmente basati sulla paura o l’imbarazzo, ma piuttosto sul pregiudizio e la disapprovazione.

Tuttavia, sebbene abbia esteso la classificazione degli atteggiamenti antiomosessuali, il termine omonegatività è stato poco utilizzato. Gregory Herek, nel 1990, propone di utilizzare il termine eterosessismo, intendendo «un sistema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità non eterosessuali». In questo modo vuole ribadire come il pregiudizio antiomosessuale non sia solamente un’entità individuale e clinica, ma un fenomeno sociale le cui radici sono rintracciabili nelle ideologie culturali e nelle relazioni intergruppo.

Tornando alle dimensioni psicologiche, l’avversione o la diffidenza nei confronti di gay e lesbiche deriva dalla preoccupazione per un disordine, qualcosa di ‘fuori posto’ rispetto ad assegnazioni binarie rassicuranti e eteronormative del tipo ‘i maschi sono attratti dalle femmine’ e ‘le femmine sono attratte dai maschi’. Al punto da pensare che se una donna è attratta da una donna ‘non è una vera donna’ e se un uomo è attratto da un uomo ‘non è un vero uomo’ (confondendo così l’orientamento sessuale con l’identità di genere). Da qui il bisogno di darsi una rassicurazione riguardo alla propria ‘mascolinità’ o ‘femminilità’ e, implicitamente, alla propria ‘eterosessualità’. Un fondamento dell’omofobia, infatti, consiste in una sorta di polarizzazione difensiva dei ruoli di genere, che porta a temere o disprezzare i fantasmi di passività e dipendenza nell’uomo e di attività e autosufficienza nella donna. Si tratta di credenze ingenue e fortemente influenzate dagli stereotipi di genere, ma terribilmente efficaci nel lasciare pregiudizi e ingiustizie ‘al loro posto’.

Ad alimentare le radici più arcaiche dell’omofobia e della transfobia contribuisce certamente l’innegabile aumento della visibilità omo- e transessuale nella vita domestica, nella giurisdizione internazionale, nell’immaginario collettivo. Se in passato, lo scandalo era la ‘devianza’, oggi ciò che preoccupa e spaventa, fino all’odio, è la possibilità di una normalità omo- e transessuale e della sua realizzazione affettiva. Il problema, dunque, è la richiesta di appartenere a pieno diritto al tessuto sociale. In una parola, la cittadinanza.
Attraversando i territori più diversi, pubblici e privati, mediatici e istituzionali, l’omofobia può avere ripercussioni a breve e a lungo termine sulla salute psichica e fisica delle persone omosessuali. Il termine tecnico è minority-stress, condizione di disagio e/o sofferenza che si compone di tre dimensioni che si intrecciano e potenziano vicendevolmente:

  • a) esperienze vissute di discriminazione e violenza;
  • b) stigma percepito;
  • c) omofobia interiorizzata. Analogamente per la transfobia.

«Non occorre essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi» recita un verso di Emily Dickinson. I fantasmi dell’omofobia possono occupare la psiche in vari modi. Alcuni hanno la prepotenza del bullismo, altri possono sembrare addirittura pietosi e tolleranti (la tolleranza!, «una forma di condanna più raffinata», diceva Pier Paolo Pasolini).
Spesso eleggono a dimora la vita interiore delle persone omosessuali stesse, e producono autodisprezzo, vergogna, a volte la voglia di farla finita. Qui il termine tecnico è omofobia interiorizzata, a indicare l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una persona può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti della propria omosessualità. Lo stigma percepito riguarda, invece, il livello di vigilanza relativo alla paura di essere ‘identificati’ come gay o lesbiche, per cui quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto più alto sarà il grado di allerta e sensibilità all’ambiente. Rientra nella dimensione dello stigma percepito anche il timore per le reazioni che potrebbe suscitare il proprio coming out, per esempio in famiglia o sul posto di lavoro. Un altro termine di questo doloroso vocabolario è bullismo omofobico, in riferimento a azioni offensive a carattere omofobico subite da bambini/e o ragazzi/e da parte di uno o più membri del gruppo dei pari, intenzionalmente e ripetutamente nel corso del tempo. Le aggressioni, fisiche e/o verbali, sono dirette verso l’orientamento sessuale (reale o presunto) oppure verso il ruolo di genere (bullismo di genere) non conforme alle aspettative socioculturali.

Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei propri genitori, la derisione dei compagni di scuola, può essere davvero insopportabile. Fortunatamente a molte persone gay e lesbiche non mancano le capacità e le risorse per fronteggiare con successo le esperienze traumatiche, riorganizzando positivamente la propria vita. Alcune di loro, però, si mettono ingenuamente alla ricerca di interventi psicologico-comportamentali volti alla modifica del proprio orientamento sessuale. In questi casi, il compito degli psicologi e degli psicoterapeuti è riconoscere e affrontare senza pregiudizi i molti temi che possono riguardare la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender e delle loro famiglie: in una società dove le persone non eterosessuali vengono discriminate in dimensioni fondamentali della loro vita, è importante che i professionisti della salute mentale siano in grado di ascoltarle, comprendendo le loro difficoltà e aiutandole a vivere appieno la vita in tutti i suoi aspetti.

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Chi ha paura dei/delle trans? http://www.portalenazionalelgbt.it/chi-ha-paura-deidelle-trans/ Thu, 24 Jul 2014 09:45:14 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=3230 A cura di Giorgio Cuccio, attivista trans.

In Italia, nel 1982, viene approvata la legge 164/82 che riconosce la rettificazione anagrafica del nome e del sesso di una persona «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». Infatti è dagli anni ottanta che la legislazione italiana e la comunità medica, sulla spinta delle teorie psicologiche e sociologiche sul genere, sentono rispettivamente il dovere e l’interesse di prendere in carico le persone trans per ‘curare’ quello che fino ad oggi è stato chiamato ‘disturbo’ (DSM III e IV) e recentemente è stato rivisto come ‘disagio’ (Cfr. “Tra patologizzazione e de-patologizzazione”).
Va ricordato che la legge 164/82, a causa dell’ambiguità del testo, ha fatto sì che le persone trans, per ottenere il cambio dei documenti, dovessero sottoporsi obbligatoriamente ad interventi chirurgici sui genitali, al di là del reale desiderio di sottoporsi a tali interventi, mentre la comunità medica non ha proposto dei percorsi alternativi, lasciando all’interpretazione giuridica il compito di decidere sulla vita delle persone. In questi ultimi anni, sotto le spinte del movimento trans, sono state emesse alcune sentenze che autorizzano il cambio anagrafico senza l’obbligo degli interventi di sterilizzazione (Cfr. “Identità di genere”); dal canto suo la comunità scientifica sta riconoscendo la pluralità psicologica e fisica delle esperienze trans, non seguendo un unico criterio di valutazione e proposta di percorso. Rimangono tuttavia nel percorso di transizione problematiche legate al periodo-limbo che intercorre dall’inizio della transizione all’adeguamento dei documenti: la persona trans con le terapie ormonali si trova infatti a vivere nel genere scelto molto prima di potere avere accesso al cambio anagrafico e questo comporta una maggiore esposizione ad episodi di discriminazione, soprattutto nei luoghi di lavoro.

Nonostante l’attenzione della giurisprudenza, la società ha tenuto e continua a tenere le persone trans ai margini: l’immaginario collettivo relega soprattutto le donne trans ad una condizione di degenerazione, vizio ed emarginazione, attuando atteggiamenti discriminatori, denigratori, quando non apertamente persecutori e violenti. Secondo una statistica pubblicata sul sito TGEU, l’Italia, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2014, è stato il Paese europeo in cui sono state uccise il maggior numero di persone trans, senza contare gli innumerevoli casi di violenza come ‘la caccia alle trans’ del 2008 in un quartiere di Roma. Discorso a parte va fatto per gli uomini trans che per una minore visibilità subiscono forme di discriminazione più sottili, tranne in alcuni casi in cui l’accesso all’identità maschile viene scoperto e punito violentemente da quegli uomini che pensano di dovere ‘correggere’ e riportare al sesso biologico dei potenziali ‘usurpatori’ della mascolinità.

La parola transfobia, nell’uso comune, indica, dunque, forme di profonda avversione nei confronti delle persone trans come quelle appena descritte.

Il termine ‘fobia’ intesa come paura – più o meno razionale – di essere contaminati, aggrediti, influenzati, appare poco adeguato a descrivere l’atteggiamento di discriminazione o marginalizzazione che si ha verso le persone trans. Tuttavia, dato che l’esperienza trans ridefinisce uno dei cardini con cui siamo abituati a catalogare il mondo, ovvero l’interconnessione tra sesso e genere, per cui ad una certa anatomia corrisponde in modo indissolubile un’identità sessuale ben precisa, allora forse la parola ‘fobia’ può tornare utile per definire il senso di smarrimento che le persone trans possono provocare negli altri – al di là della loro volontà.

Nella maggior parte dei casi però più che ‘fobia’ sarebbe corretto usare la parola ‘odio’.

È la difesa dei propri stereotipi mentali che muove alla discriminazione: ad esempio, l’accusa di ambiguità, ovvero l’idea – vera o presunta – che la persona che abbiamo davanti non corrisponda alle nostre aspettative in termini di consonanza sesso-genere, dissimula una discriminazione basata su pregiudizi ideologici giustificati in termini etici (non è moralmente legittimo identificarsi in un genere diverso da quello con cui si è nati/e) o estetici (sono uomini o donne improbabili rispetto ai canoni estetici socialmente accettati). E tuttavia l’ambiguità, per quanto all’apparenza sia ciò che viene condannato, in realtà è spesso quello che viene ricercato e chiesto alle persone trans, purché si rimanga nella clandestinità, nel tabù, nell’illusione della trasgressione.

A volte il pregiudizio viene utilizzato in modo pretestuoso e si fonda sull’opportunismo: si preferisce aderire ad un atteggiamento discriminatorio per conformismo, al fine di ottenere consenso o sentirsi parte di una maggioranza. In questo caso «la discriminazione è attuata ogni qual volta se ne presentino l’occasione e l’opportunità: è un atteggiamento discrezionale nell’interesse del discriminante per allontanare il sospetto di essere diversi», per dirla con le parole di Diana Nardacchione. La discriminazione può essere quindi silenziosa in quanto attuata in modo non plateale o violento, ma agita attraverso l’esclusione, la sottovalutazione, l’inferiorizzazione. Questa discriminazione strisciante si riscontra soprattutto nei luoghi di lavoro dove le persone trans sono vulnerabili sia quando vivono la loro situazione nell’anonimato per paura di essere scoperte, sia quando sono visibili e quindi esposte ad atteggiamenti di pregiudizio conformista, alla sopraffazione e all’abuso di colleghi e datori di lavoro. Ciò rende le persone trans dei lavoratori/delle lavoratrici docili ed efficienti.

Come si è detto l’esperienza trans mette in discussione il paradigma dei due generi ed è per questo che si assiste ad una continua creazione di termini che provano a definire un’esperienza complessa e unica rispetto alle sensibilità e ai vissuti di ciascuno. A volte queste parole vengono proposte – o imposte – dai media, dalle scienze mediche e psicosociali; altre volte sono le stesse persone trans che cercano parole che possano raccontare un’esperienza al di là di stereotipi e luoghi comuni. Terzo sesso, transessuale, transgender, gender variant, MtF (male to female) e FtM (female to male), trans, eccetera sono tentativi di definire e definirsi sia ai propri occhi che e a quelli degli altri. Il linguaggio dunque può essere un campo aperto alla creatività così come diventare uno strumento di potere nel momento in cui serve a disconoscere o annullare le esperienze e le soggettività: l’uso arbitrario che i media fanno del maschile e del femminile per parlare delle persone trans denuncia, molto più di tante altre situazioni, l’atteggiamento discriminatorio con cui la società si pone verso l’esperienza trans. Attraverso il linguaggio le persone trans vengono ricondotte al sesso assegnato alla nascita, sottolineandolo come un dato immodificabile e imprescindibile; anche quando si ostenta un certo liberalismo, il richiamo al genere/sesso o al nome di nascita è immancabile per rimarcare un passaggio che non avrà mai piena legittimità in quanto non ab origine (per un corretto utilizzo del linguaggio si rimanda alle “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT“).

Per definire questo insieme di atteggiamenti sociali sarebbe, dunque, preferibile parlare di trans-negatività e non di transfobia, in modo da potere attuare pratiche di decostruzione di luoghi comuni e pregiudizi, ovvero pratiche di trans-positività, come ad esempio legittimare la percezione di sé della persona trans, utilizzando il genere scelto e/o la definizione che la persona dà di sé, anche quando le apparenze sembrano contraddire quella definizione. Esistono già buone pratiche che si stanno muovendo in tal senso: la possibilità in alcune Università di utilizzare il nome scelto, prima del cambio anagrafico, sul libretto universitario (ad esempio presso l’Università degli Studi di Torino)1; così come in alcuni ospedali la possibilità di essere ricoverato nei reparti del genere di elezione, sempre prima del cambio anagrafico. Un approccio di trans-positività permette alle persone trans di vivere la propria esperienza come un fatto positivo e arricchente per sé e per gli altri.

Nota:
[1] Vari sono gli Atenei, oltre all’Università di Torino, che lo hanno adottato, ad esempio Bari, Bologna, Catania, Genova, Napoli, Padova, Palermo, Pisa, Trento, Urbino, Venezia, Verona.

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Le date simboliche contro l’omofobia e la transfobia: il 17 maggio e il 20 novembre http://www.portalenazionalelgbt.it/idahot-e-t-dor/ Mon, 21 Jul 2014 09:15:48 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=1376 A cura di Beatrice Gusmano, sociologa, Gruppo di redazione.

Il 17 maggio e il 20 novembre costituiscono le due date simboliche strettamente legate all’impegno delle Istituzioni, delle Organizzazioni e della cittadinanza contro l’omofobia e la transfobia.
Il 17 maggio si celebra in tutto il mondo la Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia (IDAHOT, International Day Against Homophobia and Transphobia, nell’acronimo inglese). Il 20 novembre di ogni anno ricorre la Giornata Internazionale in ricordo delle persone transessuali e transgender uccise dalla violenza transfobica (T-DoR, International Transgender Day of Remembrance nell’acronimo inglese).

17 maggio (IDAHOT)

Il 17 maggio 1990, l’Assemblea Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rimosse l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali contenuta nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD 10: International Classification of Diseases), contribuendo a scrivere una pagina fondamentale nella storia dei Diritti Umani.
Questa giornata ha avuto un impatto profondo sulla vita delle persone lesbiche, gay e bisessuali perché da un lato ha contribuito a cancellare l’immagine della malattia mentale che ricadeva su di esse già dal secolo precedente, dall’altro ha favorito la messa in discussione di pregiudizi e discriminazioni ancora diffusi nella nostra società.

Grazie all’opera di Luis George Tin, uno scrittore e attivista per i diritti LGBT francese, fu creata nel 2004 a Parigi un’associazione chiamata “Comitato IDAHO”, con l’obiettivo di promuovere il 17 maggio di ogni anno la celebrazione della Giornata Internazionale contro l’omofobia. Dopo una campagna durata quasi un anno, la Giornata venne celebrata per la prima volta il 17 maggio del 2005 con iniziative di attiviste/i LGBT di vari Paesi del mondo finalizzate a rendere visibile l’esistenza dell’omofobia come paura e pregiudizio sociale nei confronti delle persone omosessuali e a sensibilizzare la cittadinanza e le Istituzioni sulle diverse forme di discriminazione e violenza di cui sono oggetto le persone LGBT.

Gli eventi e le iniziative messe in campo dalle attiviste e dagli attivisti LGBT per l’IDAHO non vennero sempre accolti con favore, e la preoccupazione per il ripetersi di numerosi episodi di discriminazione e violenza nei confronti delle persone omosessuali portarono il Parlamento Europeo, il 26 aprile 2007, ad adottare una Risoluzione sull’omofobia in Europa che condannava i discorsi d’odio e le violenze omofobiche e indiceva il 17 maggio di ogni anno quale Giornata internazionale contro l’omofobia in Europa.
Nel 2009, l‘aumento di casi di violenza nei confronti delle persone transessuali e transgender e l’accresciuta consapevolezza all’interno della comunità LGBT delle specifiche istanze del movimento transessuale portarono a cambiare il nome della Giornata in Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia, o IDAHOT (International Day Against Homophobia and Transphobia).

A partire dalla sua istituzione, l’Associazione “Comitato IDAHO” ha lanciato in rete un proprio sito ufficiale per spiegare la storia e le motivazioni della Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, valorizzare gli eventi che in occasione di questa data si svolgono in tutto il mondo, offrire a Organizzazioni e Istituzioni strumenti per promuovere campagne di sensibilizzazione, attività e progetti di intervento.
Le motivazioni storiche del 17 maggio l’hanno resa una data fondamentale per le Istituzioni che, con l’adesione alla celebrazione della Giornata, testimoniano il loro impegno contro le discriminazioni e la violenza nei confronti delle persone LGBT e per il riconoscimento dei loro diritti.

Da due anni, proprio nella giornata del 17 maggio, ha luogo il “Forum europeo IDAHO”, un incontro tra rappresentanti di Governi, Enti Locali, Organizzazioni non governative e Associazioni finalizzato a promuovere l’emancipazione delle persone LGBT, combattere la violenza e la discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere, fare il punto della situazione sui risultati delle politiche messe in atto e sulla cooperazione in Europa e nel mondo.
Il Forum europeo ha avuto luogo per la prima volta a L’Aja nel 2013, su iniziativa del Governo dell’Olanda, e nel 2014 a La Valletta, organizzato dai Governi di Malta e Svezia. In particolare, in quest’ultima occasione, è stata sottoscritta una Carta di Intenti dai rappresentanti dei Governi di 17 Paesi europei tra cui l’Italia.
Tra i punti salienti della Carta vi è il richiamo al principio dell’universalità e inderogabilità dei Diritti Umani riaffermando che valori culturali, tradizionali e religiosi non possono essere invocati per giustificare alcun tipo di discriminazione, inclusa quella per orientamento sessuale e identità di genere. Nella Carta di Intenti, i Paesi sottoscrittori dichiarano la loro intenzione di intraprendere ogni utile azione al fine di rimuovere e punire qualsiasi forma di discriminazione connessa all’orientamento sessuale e all’identità di genere di una persona .

In Italia l’IDAHOT viene celebrato dalle Istituzioni centrali (Presidenza della Repubblica, Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri) e locali (Regioni, Province, Comuni) nei luoghi istituzionali con la partecipazione di personalità del mondo della cultura, dell’economia e dello spettacolo e con il coinvolgimento delle Associazioni LGBT italiane e internazionali. Nei piccoli e grandi centri del nostro Paese, inoltre, si svolgono il 17 maggio per iniziativa di Associazioni ed Enti Locali eventi in piazza, flash-mob, dibattiti, spettacoli teatrali, veglie di preghiera per le vittime dell’omotransfobia all’interno di alcune Chiese, mostre e concerti dedicati.

Nel corso degli anni il numero di Organizzazioni e Istituzioni impegnate per realizzare eventi e iniziative nella giornata del 17 maggio è sensibilmente cresciuto, ed oggi l’IDAHOT viene celebrato in più di 120 Paesi del mondo.

20 novembre (T-DoR)

L’efferato assassinio di una popolare donna transgender afro-americana, Rita Hester, il 28 novembre 1998 ad Allston negli USA, suscitò un’ondata di commozione e profonda adirazione nella comunità transessuale e rock-n-roll della cittadina vicina a Boston. Alla veglia organizzata in ricordo della vittima parteciparono oltre duecentocinquanta persone che marciarono con una candela nelle mani. Questa veglia ispirò la nascita del progetto web “Remembering Our Dead”, in ricordo dei nostri defunti, e la successiva commemorazione, nel 1999 a San Francisco, delle persone transessuali e transgender uccise dalla violenza transfobica, con una veglia pubblica illuminata dalla luce delle candele.
La partecipazione della cittadinanza a quegli eventi portò la comunità transessuale e transgender a individuare la data del 20 novembre per ricordare nelle piazze di tutto il mondo le persone transessuali/transgender vittime di violenza con l’istituzione del T-DoR (International Transgender Day of Remembrance in inglese). Il momento più importante della Giornata è costituito dalla veglia al lume delle candele (candlelight vigil in inglese), la cui luce vuole simboleggiare il ricordo delle vite delle persone transessuali e transgender stroncate dalla violenza e uccise.
Come l’IDAHOT, il T-DoR costituisce anche l’occasione per Istituzioni e Organizzazioni di esprimere ferma condanna della violenza transfobica e riflettere sui pregiudizi verso le persone transessuali/transgender ancora così diffusi nella nostra società. Il sito web dedicato al T-DoR presenta la storia e le motivazioni della Giornata del 20 novembre e riporta le veglie candlelight che si svolgono nei vari Paesi del mondo. Sono anche presenti suggerimenti per l’organizzazione del T-DoR sulla base delle esperienze condotte negli anni precedenti. Sul sito, inoltre, sono ricordati i nomi delle persone transessuali/transgender brutalmente uccise ogni anno.

Come in molti Paesi del mondo, anche in Italia il T-Dor viene celebrato nelle piazze delle principali città con veglie illuminate da candele, lettura di brani e poesie accompagnata da musiche, e altre iniziative di informazione e sensibilizzazione.

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Omofobia e transfobia: guida alla normativa e alla giurisprudenza http://www.portalenazionalelgbt.it/omofobia-e-transfobia-guida-alle-normative/ Fri, 18 Jul 2014 10:42:53 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2530 A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

Il termine omofobia fa la sua prima comparsa durante la seconda metà del secolo scorso nel linguaggio delle scienze psicologiche ma il suo utilizzo si estende presto all’ambito giuridico, quando, tanto a livello nazionale che europeo e internazionale, inizia a manifestarsi con forza l’esigenza di tutelare l’orientamento sessuale e l’identità di genere (Cfr. “Orientamento sessuale” e “Identità di genere”). Al fine di cogliere il significato di tale neologismo vale la pena prendere a prestito la definizione offerta dal Parlamento dell’Unione europea nella sua “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006 in cui, al considerando B, l’omofobia viene descritta come «una paura e un’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio ed analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». Ciò che più rileva al fine di comprendere la normativa e la giurisprudenza in materia è il fatto che tale peculiare paura si esplica attraverso comportamenti pregiudizievoli per la comunità omosessuale e transessuale. Riportando ancora le parole del Parlamento europeo utilizzate nella Risoluzione appena citata, nonché, con formulazioni quasi identiche, in altri documenti più recenti, quali la “Risoluzione sulla lotta all’omofobia in Europa” del 24 maggio 2012 e la “Risoluzione sulla tabella di marcia dell’UE contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere” del 4 febbraio 2014, essa «si manifesta nella sfera pubblica e in quella privata sotto forme diverse, come le dichiarazioni inneggianti all’odio e l’istigazione alla discriminazione, la ridicolizzazione, la violenza verbale, psicologica e fisica così come la persecuzione e l’omicidio, la discriminazione in violazione del principio di parità, nonché le limitazioni ingiustificate e irragionevoli dei diritti».1

Fermo appare dunque il rifiuto delle molteplici modalità di manifestazione dell’omofobia e della transfobia da parte dell’Unione europea, ma non solo: anche il Consiglio d’Europa, attraverso la Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri nel 2010 ha invitato gli Stati membri ad adottare misure idonee a prevenire e combattere gli episodi di omofobia e transfobia, così come, nell’ambito delle Nazioni Unite, la Risoluzione del Consiglio per i diritti umani del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” contiene un esplicito riferimento alla necessità di contrastare gli atti di violenza motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. L’obiettivo di reprimere i fenomeni legati all’omofobia e alla transfobia occupa quindi da qualche tempo un posto non irrilevante nell’agenda politica internazionale ed europea e, di conseguenza, in quella della maggior parte degli ordinamenti democratici del mondo: tutt’altro che agevole si sta però rivelando la decisione su quali siano le misure normative che il raggiungimento di tale obiettivo richiede di adottare.

Sono ormai diverse le legislazioni penali nazionali che, contemplando i c.d. crimini d’odio, prevedono che la motivazione omotransfobica alla base di un reato costituisca una circostanza aggravante nella determinazione della pena e che sanzionano i c.d. discorsi d’odio, ovvero quelle espressioni, in forma orale o scritta, che incitano, incoraggiano o giustificano la discriminazione e l’ostilità nei confronti della popolazione omosessuale o transessuale.
Il legislatore italiano non è ancora intervenuto in tal senso ma è attualmente in esame al Senato il Disegno di legge S-1052 (c.d. Disegno di legge Scalfarotto) recante “Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia” approvato dalla Camera dei Deputati il 19 settembre 2013 che, integrando la Legge n. 654 del 1975 (c.d. Legge Reale, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite nel 1966) e la Legge n. 205 del 1993 (c.d. Legge Mancino), punisce l’istigazione a commettere o la commissione di atti di discriminazione e di violenza motivati da omofobia o transfobia ed estende ai reati fondati sull’omofobia o transfobia l’aggravante della pena fino alla metà già prevista per i per i crimini commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’introduzione di una disciplina penalistica per contrastare gli episodi legati a omofobia e transfobia, peraltro già tentata a più riprese nel corso della XVI legislatura, ha suscitato e continua a suscitare un vivace dibattito non solo politico, ma anche giuridico, soprattutto in ragione della compressione del diritto fondamentale di manifestare il proprio pensiero che la sanzione del discorso d’odio andrebbe a determinare. La questione relativa al delicato bilanciamento tra libertà di espressione e diritto a non subire discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale è stata affrontata dalla Corte europea diritti umani che, con la decisione “Vejdeland e altri c. Svezia” del 2012, ritenendo non lesiva dell’art. 10 della CEDU la condanna penale dei ricorrenti, responsabili della distribuzione di volantini omofobi in una scuola, ha ammesso che l’esercizio della libertà di espressione può subire restrizioni volte alla tutela della reputazione e dei diritti della comunità omosessuale. Tuttavia, pare importante sottolineare che i giudici di Strasburgo non hanno sancito alcun obbligo in capo agli Stati membri del Consiglio d’Europa di vietare le dichiarazioni pubbliche omofobe o transfobe, anzi è ribadito il dovere dei singoli ordinamenti che adottano o mantengono normative volte a reprimere i discorsi d’odio di dimostrare che l’esigenza di limitare la libertà fondamentale di espressione è dettata da «bisogni sociali pressanti» (§ 51 della sentenza) e che le misure previste si rivelino «proporzionate» (§ 52 della sentenza) rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere. Inoltre, non può evincersi dalla pronuncia che sia conforme alla CEDU la repressione penale di qualunque espressione o condotta omofoba a prescindere dal contesto in cui si verifica: particolare attenzione viene, infatti, rivolta dai giudici di Strasburgo al fatto che i volantini censurati erano stati depositati negli armadietti personali degli alunni, avessero come destinatari individui «impossibilitati a rifiutarli» e che, in ragione della giovane età, erano da ritenersi fortemente «sensibili e impressionabili» (§ 56 della sentenza).

Merita infine segnalare come l’assenza di una normativa specifica volta al contrasto dell’omofobia non abbia impedito ad alcuni giudici italiani di attribuire rilevanza penale ad alcune manifestazioni di odio omofobico. Ad esempio, il Tribunale di Busto Arsizio ha di recente ritenuto sussistente l’esimente della provocazione ex art. 599 c.p. ove la condotta sia stata determinata dall’altrui fatto ingiusto consistente nell’affermazione per cui l’omosessualità è un’aberrazione genetica contro natura, mentre il Tribunale di Torino, in funzione di giudice d’appello, ha confermato la pronuncia del Giudice di Pace che ha condannato un uomo per lesioni personali e ingiurie ai danni di un collega perchè omosessuale, riconoscendo ed evidenziando il contenuto omofobico delle espressioni cui ripetutamente era stata esposta la vittima.
Anni prima, del resto, la Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 10248 del 2010, aveva già chiarito che l’utilizzo del termine ‘gay’ configura il reato di ingiuria qualora venga «riferito a precisi fatti ritenuti disdicevoli, focalizzati come tali con inequivoco intento denigratorio e che esprimono riprovazione per le tendenze omosessuali del soggetto a cui si rivolge l’offesa».

Note:
[1] Considerando B della “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006.

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