La visibilità dell’amore tra uomini: per una biblioteca contro l’omofobia

A cura di Francesco Gnerre, insegnante e saggista.

Fin dall’Ottocento, quando ancora non era stato coniato il termine ‘omosessualità’, i primi teorici della liberazione omosessuale hanno cercato nei libri e nella cultura del passato, una prima legittimazione del proprio orientamento e dei propri comportamenti. Tra Ottocento e Novecento sono nate così le prime antologie sull’amore tra uomini che raccoglievano testi degli antichi Greci, i sonetti di Michelangelo o di Shakespeare, le poesie di Rimbaud e Swinburne, fino a Byron e Platen (Zanotti, 2006). Si trattava di iniziare a costruire una tradizione in cui riconoscersi, perché il confronto con la storia e con l’immaginario giocano un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità degli individui e gli omosessuali, nell’immaginario culturale dominante, trovavano solo la loro negazione. Non avere una storia e una cultura con cui confrontarsi è come non esistere, come guardarsi allo specchio e non vedere nulla.

Dalle prime antologie, dello svizzero Heinrich Hossli, del tedesco Magnus Hirschefeld, dell’inglese Edward Carpenter, si passa negli stessi anni ad una rappresentazione più concreta dell’amore che ancora ‘non osa dire il suo nome’. Tuttavia spesso i libri che trattavano di omosessualità, soprattutto se caratterizzati da una visione liberatoria, non venivano pubblicati e, anche quando non interveniva una censura esterna, erano gli autori stessi ad autocensurarsi. Oggi, nella prospettiva di costruire una tradizione e una storia degli omosessuali, appare sempre più importante dare voce a chi è stato costretto a tacere e far emergere dal silenzio del passato le numerose testimonianze che la storia ufficiale ha taciuto o nascosto.

Tra queste voci è esemplare quella di Luigi Settembrini. Luigi Settembrini (1813-1876), come tutti gli omosessuali vissuti in periodi di forte repressione, nascondeva i suoi reali interessi affettivi e sessuali, ma ha avuto il coraggio di lasciarci un importante libricino, “I Neoplatonici”, probabilmente confidando in tempi migliori. Il libro, scritto presumibilmente durante la prigionia di Santo Stefano tra il 1849 e il 1859, è rimasto però nascosto e sconosciuto per più di un secolo, fino alla sua pubblicazione nel 1977. Nel 1937, infatti, il professor Raffaele Cantarella – direttore dell’officina dei Papiri Ercolanensi presso la biblioteca Nazionale di Napoli – nel cercare un manoscritto greco finito fuori posto, trova un fascicoletto intitolato “I Neoplatonici per Aristeo di Megara – traduzione dal greco” che il professore identifica immediatamente come un falso. La ricerca del vero autore è semplice, accanto al manoscritto ce n’è un altro della stessa carta, ma molto più voluminoso, “Ricordanze della mia vita” di Luigi Settembrini. E poiché la grafia dei due manoscritti è senza dubbio identica, ne risulta che anche la ‘traduzione dal greco’ è opera di Settembrini. Imbarazzato per lo ‘strano’ contenuto del libro, il professor Cantarella lo ripone in un cassetto, ma, raccogliendo informazioni sul testo, viene a sapere che il manoscritto non è passato inosservato, che è conosciuto dai maggiori studiosi napoletani, da Benedetto Croce a Francesco Torraca, che hanno tuttavia deciso di comune accordo di non renderlo pubblico per non infangare la figura di Settembrini, ‘martire patriottico dei Borboni’ e tra i più esemplari padri della patria. Il breve romanzo, liquidato sommariamente dai suoi censori come un ‘errore letterario’, è in realtà uno spiraglio su una tragedia ed è una favola antica e moderna al tempo stesso, perché per la prima volta l’amore tra due uomini è rappresentato come una relazione di una vita ed è basato, oltre che sull’attrazione fisica, sulla stima e sul rispetto reciproco. Non è un caso che sia stato proprio questo aspetto a scandalizzare il professor Cantarella, il quale, di fronte all’ultima pagina del romanzo, concludeva, sconsolato, che «è difficile evitare l’impressione piuttosto disgustosa di questo senile ritrovarsi che non giustifica nemmeno l’innocenza fisica e psicologica della fanciullezza».

Un altro caso di autocensura di grande interesse è quello del romanzo “Maurice”, scritto nei primi del Novecento, dello scrittore inglese Edward Morgan Forster. In questo caso non ci troviamo nel sogno dell’antica Grecia di Settembrini, ma nella più concreta Inghilterra vittoriana, dove l’omosessualità era un reato perseguito dalla legge.
“Maurice” racconta la storia della faticosa presa di coscienza della propria omosessualità da parte del protagonista e della decisione di vivere il proprio orientamento sessuale e affettivo, rifiutando ogni schema prefissato e sfidando la legge. In gioventù Maurice sperimenta i suoi primi turbamenti omoerotici, vive un amore tutto platonico con Clive, suo compagno di studi, che tuttavia decide di sposare una donna, come impongono le regole sociali, pur nella consapevolezza che vivrà una vita che non corrisponde ai suoi reali desideri. Maurice è deluso, prova in tutti i modi a ‘curarsi’ e a ‘guarire’ per seguire anch’egli le orme dell’amico, ma proprio quando va in visita da Clive, ormai sposato, e conosce il giovane guardiacaccia Alec, capisce che non ci si realizza negando se stessi e la sua vita diviene una sfida alla società e alle istituzioni che non riconoscono il suo amore. Maurice e Alec si amano e decidono di passare insieme la loro vita. Così «gli amanti la fanno franca e di conseguenza raccomandano il crimine», scrive Forster. «Il lieto fine s’imponeva perentoriamente – scrive ancora Forster in una nota introduttiva al romanzo – in caso contrario non mi sarei preso il disturbo di scrivere. Avevo stabilito che, almeno nella narrativa, a due uomini sia lecito innamorarsi e restar tali per quella durata perpetua che la narrativa consente, e in questo senso Maurice ed Alec vagano ancora oggi nella macchia.» (Forster 1972). Proprio questo sviluppo positivo della storia che non indugia nella vittimizzazione – come sostenne il suo stesso autore – è ciò che rese il libro non pubblicabile quando venne scritto. Scritto negli anni 1913-1914, infatti, “Maurice” sarà dato alle stampe nel 1971 dopo la morte dell’autore e reca sul frontespizio la dedica «A un anno più felice», ad un periodo cioè in cui le persone omosessuali sarebbero potute finalmente uscire dalla clandestinità e dall’anonimato.

Libri di narrativa o di poesia che hanno provato a rappresentare in vario modo l’amore tra uomini, cominciano comunque a circolare agli inizi del Novecento, dalle poesie di Walt Whitman a “I turbamenti del giovane Torless” (1906) di Robert Musil, da “La morte a Venezia” (1912) di Thomas Mann a “Corydon” ( 1924) di André Gide a “Il libro bianco” (1928) di Jean Cocteau, fino a libri più vicini a noi come “La stanza di Giovanni” (1956) di James Baldwin, “La statua di sale” (1948) di Gore Vidal, e l’elenco potrebbe continuare. Anche in Italia, dove più forti erano i problemi di censura e di autocensura, tracce di omosessualità possiamo trovarle nelle opere di Umberto Saba, di Aldo Palazzeschi, di Giovanni Comisso, di Carlo Coccioli e di molti autori del Novecento (Gnerre, 2000). Si tratta di opere di grande interesse per una storia del rapporto tra letteratura e omosessualità, ormai considerate dei ‘classici’ della cultura omosessuale, dove però, a parte rare eccezioni, il personaggio omosessuale è, se non il corruttore, il ‘malato’ che ha bisogno di comprensione e non un personaggio positivo e propositivo nei confronti della vita. Si tratta, inoltre, di testi isolati, al di fuori di una logica legata ad una nuova consapevolezza gay, di là da venire, i cui stessi autori, spesso, non riconoscono né l’esistenza né la necessità di una cultura e di una letteratura gay.
Il personaggio omosessuale di questa tipologia di libri è in genere una vittima predestinata, che sopporta tutte le ingiustizie e le discriminazioni, come se dovesse scontare chissà quali colpe. Così, per esempio, il narratore del romanzo “Gli occhiali d’oro” di Giorgio Bassani del 1957, perseguitato anche lui durante il regime fascista in quanto ebreo, che pure mostra comprensione per l’omosessuale dottor Fadigati, scrive ad un certo punto: «andavamo cercando su quel volto familiare le prove, i segni, starei per dire le macchie visibili del suo vizio, del suo peccato», e il dottor Fadigati «si accontentava di niente, in fondo, o almeno così sembrava. Più che restare lì, nel nostro scompartimento di terza classe, con l’aria del vecchio che si scalda in silenzio davanti a un bel fuoco, altro non pretendeva».
Quando la rappresentazione dell’omosessuale non si adeguava alla cultura dominante, non era la vittima predestinata e l’amore gay diventava nell’immaginario un amore possibile e magari felice, il libro in genere non veniva pubblicato, come si è visto nei ‘casi’ di Settembrini, di Forster e di altri, tra cui vale la pena citare ancora il ‘caso’ di “Ernesto” di Umberto Saba, un romanzo percorso da una forte carica liberatoria, scritto nel 1953, ma pubblicato solo molti anni dopo la morte del suo autore, nel 1975.

In questo processo una linea di demarcazione importante fu alla fine degli anni Sessanta del Novecento la rivolta di Stonewall. Nel giugno del 1969, come è noto, per la prima volta nella storia, gay, lesbiche e travestiti rifiutarono il loro ruolo di vittime e di fronte all’ennesima irruzione provocatoria della polizia in un bar gay di New York, lo “Stonewall Inn” , reagirono dando vita a due giorni di vera e propria guerriglia urbana che spiazzò anche la polizia, abituata alla remissività degli omosessuali. La rivolta di Stonewall resta un punto di non ritorno. «E’ stata la nostra presa della Bastiglia», dirà un personaggio del noto romanzo di Edmund White “La bella stanza è vuota”.
Dal punto di vista letterario, secondo White, tra i maggiori scrittori gay contemporanei, prima di Stonewall non esistevano che due tipi di romanzo omosessuale maschile: uno che tendeva a scusare l’omosessualità, destinato essenzialmente a lettori eterosessuali, concepito per provare che gli omosessuali sono delle creature smarrite, sensibili, che di solito hanno il buon gusto di suicidarsi e non è perciò necessario perseguitarli; l’altro, destinato a un pubblico gay, di solito venduto sottobanco, di taglio pornografico, spesso firmato con uno pseudonimo.
Dopo Stonewall, dice White, nasce invece un nuovo fenomeno, la ‘letteratura gay’ vera e propria: una letteratura scritta da uomini gay, destinata essenzialmente a uomini gay, che rappresenta uomini esplicitamente omosessuali. Un momento importante di questa nuova realtà è proprio la pubblicazione nel 1971 di “Maurice”, il romanzo postumo di Edgar Morgan Forster. Il nuovo momento storico non è ancora «l’anno più felice» auspicato dall’autore di “Maurice”, ma la pubblicazione del romanzo di Forster è comunque un momento importante nel processo di affermazione di una letteratura gay. Anche altri libri, scritti negli anni o nei secoli precedenti, sono pubblicati proprio nel corso degli anni Settanta, quando la liberazione gay esplode in tutto l’Occidente e anche in Italia vedono la luce libri come “I Neoplatonici” di Settembrini e “Ernesto” di Umberto Saba.
Non si pubblicano solo libri precedentemente rimasti chiusi in un cassetto. Si esplora tutta una nuova realtà e gli scrittori, soprattutto negli Stati Uniti, e successivamente anche in Europa, iniziano a dare una nuova immagine dell’omosessuale, a raccontare una realtà nuova, dove l’omosessuale, liberato dai sensi di colpa interiorizzati, non è più la vittima predestinata e rassegnata, ma una persona che rivendica il suo modo di essere e il suo stile di vita.

Oggi finalmente una cultura gay esiste, però non sempre viene riconosciuta come tale. Anche in Italia gli autori che rappresentano la molteplicità di comportamenti omosessuali sono tanti. Si pensi, per fare solo qualche nome, ai libri di Pier Vittorio Tondelli, di Aldo Busi, di Matteo B. Bianchi, di Gianni Farinetti, di Walter Siti, di Alessandro Golinelli, di Gilberto Severini, di Mario Fortunato, di Ivan Cotroneo, di Fabio Bo e di molti altri. Nei romanzi di questi autori è scomparso ogni aspetto problematico relativo all’omosessualità e l’essere gay è, nella vasta gamma dei comportamenti affettivi e sessuali, solo una delle possibilità, fra le altre, che molti personaggi vivono con naturalezza o anche con spregiudicatezza, e se emergono problemi, questi non sono certo dovuti all’omosessualità dei personaggi, ma all’omofobia dell’ambiente sociale e culturale.
Una raccolta di racconti del 2007 di Fabio Bo è emblematicamente intitolata, dal nome di uno dei racconti, “Prendere o lasciare”. Si tratta di un titolo assertivo che suggerisce, pur nella varietà delle storie narrate, un filo conduttore comune: gli omosessuali sono cresciuti e si sono emancipati; la loro condizione non costituisce più un problema e non stanno più ad aspettare che siano gli altri a legittimare la loro esistenza; si sono autolegittimati e la loro vita la vivono, organizzata in coppia o da single, facendo i conti quotidianamente con le gioie e le delusioni, con l’esaltazione di un nuovo amore o con la nostalgia di una giovinezza sfiorita, con le cose belle o noiose della vita. Sono persone di settanta anni o ragazzi di sedici, hanno i loro riti elaborati in secoli di repressione, i loro luoghi di incontro, i loro modi di socializzare, e a guardarli davvero da vicino, forse non hanno niente di diverso dagli altri. Siamo così, sembra dire il narratore, e questa è la nostra realtà. Se non vi sta bene non è un problema nostro: prendere o lasciare.

L’importanza che il tema ha assunto, in particolare proprio nella letteratura, non ha però trovato ancora una organica sistemazione né nella critica letteraria, né nelle storie della letteratura. Gli autori stessi, e le case editrici, tendono molto spesso a non mettere in evidenza il tema dell’omosessualità col timore che questi libri possano entrare a far parte di un circuito marginale e settoriale e non della letteratura con la ‘L’ maiuscola, ovvero di perdere quel carattere di universalità proprio della grande letteratura. L’assenza del tema o il suo occultamento, soprattutto nella critica e nelle storie letterarie, nasceva (e spesso ancora nasce) da forme, spesso inconsapevoli, di omofobia, dall’abitudine a censurare un argomento che per secoli è stato tabù. E’ come se esistesse ancora in qualche modo il pregiudizio secondo cui parlare di ciò che avviene tra un uomo e una donna appartenga alla ‘natura umana’ e ‘universale’, mentre parlare di ciò che succede a due uomini debba essere confinato nel ‘particolare’ e nello ‘speciale’.
Si pensi, per esempio, alla corposa tradizione di poesia gay italiana. La poesia, forse perché più elitaria, è stata spesso molto più libera e spregiudicata e situazioni gay attraversano, molto più che la narrativa, tutto il Novecento: da Saba a Penna, a Pasolini, a Bellezza, a Buffoni. Anche in questo caso però il tema è ignorato dalle antologie di poesia d’amore dove l’amore è sempre quello eterosessuale, e dai testi scolastici, dove pure si possono leggere alcune poesie di poeti gay, che però hanno per oggetto qualsiasi tema, ma non l’amore gay (Baldoni, 2012).
Per molti aspetti, insomma, il tema appare ancora problematico. Se prima non veniva esplicitato per evidenti problemi di censura e di autocensura, ora si dice spesso che non è necessario evidenziarlo perché non esiste più il problema e chi insiste a parlare di letteratura gay o di cultura gay rischia di apparire una persona legata ancora ad una fase di militanza che non avrebbe più motivo di esistere perché ormai nella cultura e nella società il tema gay sarebbe stato totalmente metabolizzato.
L’esperienza gay, in realtà, è ancora in larga parte clandestina e un ragazzo che scopre di essere gay, soprattutto se non vive in una grande città, non ha sufficienti punti di riferimento per vivere con una certa serenità il suo orientamento. Qualora ce ne fosse bisogno, i drammatici suicidi di giovani gay, convinti di essere gli unici al mondo, sono lì a dimostrare questa realtà di fatto. A questo si aggiunge che in Italia, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, l’esperienza LGBT non è ancora legittimata sul piano dei diritti.
Perché non promuovere allora una maggiore diffusione della cultura gay e non contemplare nelle biblioteche scolastiche, accanto a sezioni dedicate al razzismo e all’antisemitismo e in genere a tematiche relative all’inclusione e al rispetto di tutti, una sezione dedicata all’omofobia e alla letteratura di argomento omosessuale? Gli adolescenti gay si sentirebbero meno soli.
«Io penso – mi ha detto nel corso di un’intervista lo scrittore Colm Toibin (autore di importanti libri gay da “Il faro di Blackwater” a “The Master”) – che i libri di James Baldwin, di David Leavitt, di Edmund White, di Alan Hollinghurst sono importantissimi per i gay: è come incontrare qualcuno che condivide la tua vita, le tue emozioni. E questo è fondamentale perché ci sono immagini comuni, storie e situazioni da condividere e che non siano solo suicidi e disperazioni.» (Gnerre e Leonardi, 2007).
Questi libri, però, non sono importanti solo per i lettori gay. Ponendosi in modo problematico e/o liberatorio rispetto al comportamento omosessuale, destrutturando i modelli vigenti e gli stereotipi, questi libri aiutano tutti e tutte a confrontarsi con le molteplici forme relative alla sessualità e a combattere l’omofobia. Perché l’omofobia nasce dall’ignoranza e la letteratura, straordinario luogo simbolico di sperimentazione dell’utopia di un diverso futuro, aiuta a considerare praticabile e possibile ciò che non c’è fino a che non è stato scritto, fa emergere dal silenzio sentimenti ed emozioni che accompagnano gli amori tra persone dello stesso sesso, rende familiari comportamenti troppo spesso circondati ancora da un alone di peccaminoso e di proibito.

Bibliografia

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