Salute e benessere – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 La depatologizzazione dell’omosessualità come presupposto per il benessere psicofisico delle persone gay o lesbiche http://www.portalenazionalelgbt.it/la-depatologizzazione-dellomosessualita-come-presupposto-per-il-benessere-psicofisico-delle-persone-gay-o-lesbiche/ Mon, 26 Jan 2015 11:58:11 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2404 A cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma;
Nicola Nardelli, Dottorando in Psicologia Dinamica e Clinica, La Sapienza Università di Roma.

Per la maggior parte del secolo scorso, l’orientamento omosessuale è stato oggetto di teorizzazioni infondate sul piano scientifico. Tali teorie erano piuttosto la conseguenza di pregiudizi e preconcetti, spesso rinforzati da elementi clinici ricavati dal trattamento di pazienti omosessuali a loro volta condizionati e segnati dall’ostilità sociale che avevano incontrato e, spesso, interiorizzato.
A partire da Sigmund Freud (Cfr. Lingiardi V., Luci M., “L’omosessualità in psicoanalisi”, in Rigliano e Graglia, 2006), che mostra tuttavia un atteggiamento duplice verso l’omosessualità (da una parte la ritiene una forma di immaturità psichica e di fissazione nello sviluppo psicosessuale, dall’altra afferma che «non può essere classificata come malattia» ma come «variante della funzione sessuale»), fino alla metà del XX secolo la possibilità di un orientamento omosessuale ‘normale’ non viene contemplata. In particolare, il tentativo di ‘spiegare’ l’omosessualità si basava su un errore interpretativo che portava a confondere e sovrapporre due dimensioni invece distinte: l’orientamento sessuale e l’identità di genere. In altre parole, un uomo omosessuale era considerato psicologicamente ‘come una donna’ (o una ‘donna mancata’) e una donna omosessuale era considerata psicologicamente ‘come un uomo’ (o un ‘uomo mancato’). Il che, tra l’altro, implicava la convinzione di conoscere e definire le caratteristiche psicologiche di un uomo e di una donna.

La situazione inizia a modificarsi attorno alla metà del XX secolo, quando gli studi di Alfred Kinsey (Kinsey et al., 1948; Kinsey et al., 1953) e di Evelyn Hooker (1957) inaugurano il cosiddetto processo di depatologizzazione dell’omosessualità. Kinsey rivoluziona la concezione della sessualità umana facendo emergere, tra l’altro, la molteplicità e le sfumature degli orientamenti sessuali. Hooker conduce un esperimento in cui somministra dei test psicologici a gruppi di soggetti etero e omosessuali. Dal confronto dei protocolli, valutati in cieco rispetto all’orientamento sessuale dei partecipanti, non emerge la possibilità di distinguere i due gruppi e quindi di rintracciare indicatori psicopatologici dell’omosessualità.
La prima svolta decisiva avviene negli anni Settanta, quando l’American Psychiatric Association (APA) elimina dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) la diagnosi di omosessualità (APA, 1973). Fino a quel momento, l’omosessualità era classificata, alla stregua della pedofilia, come una devianza sessuale. Nel Manuale, tuttavia, rimane la variante ‘egodistonica’ (cioè quando l’individuo non accetta la propria omosessualità), eliminata nell’edizione del 1987 (DSM-III-R), una volta riconosciuto il legame tra l’interiorizzazione dell’ostilità sociale e la non accettazione del proprio orientamento sessuale.

Attorno agli anni Ottanta, per la prima volta prendono la parola psichiatri e psicoanalisti dichiaratamente omosessuali (tra questi, Richard Isay, Ralph Roughton, Jack Drescher, Maggie Magee, Diana Miller, Ubaldo Leli), costretti, fino a quel momento, a vivere in una sorta di ‘clandestinità’ teorica e professionale (per approfondimenti, cfr. Bassi e Galli, 2000; Lingiardi e Luci, 2006). Contemporaneamente, psicoanalisti di fama come Roy Schafer, Joyce McDougall e Otto Kernberg rivedono le proprie teorie ‘patologizzanti’, ammettendo di essere stati influenzati dai pregiudizi dell’epoca e dal contesto socioculturale. «Lo studio scientifico dell’omosessualità – scrive Kernberg (2002, p. 10) – è senza dubbio un esempio dell’impatto deleterio che l’ideologia ha avuto sulla ricerca accademica. […] L’indagine psicoanalitica sull’omosessualità non può sfuggire ai pregiudizi sociali che colpiscono questo argomento e così infatti è successo che nessun ambito della psicoanalisi sia riuscito a sfuggire a tali contaminazioni e conflitti ideologici». Ma già nel 1978 lo psicoanalista Stephen Mitchell metteva in guardia dai rischi della ricerca delle ‘cause’ dell’omosessualità, perché inevitabilmente tale ricerca (ezio-genesi) si trasforma nella ricerca di ‘cause patologiche’ (ezio-pato-genesi).

Col passare del tempo, e con i grandi mutamenti scientifici, politici e giuridici che accompagnano la fine del secolo scorso, la ricerca sull’omosessualità cede il passo alla ricerca sull’omofobia e sulla stigmatizzazione sessuale e di genere. L’American Psychiatric Association (APA) si pronuncia a favore dei diritti civili delle persone gay e lesbiche, non tanto da una prospettiva politico-sociale, quanto piuttosto nell’ottica di tutelare la loro salute mentale. Nel 1992 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) elimina la diagnosi di omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), ribadendo che l’orientamento omosessuale non dev’essere considerato, di per sé, un indicatore psicopatologico, bensì una variante normale della sessualità, proprio come l’orientamento eterosessuale.
Anche sul piano della pratica clinica avvengono cambiamenti sostanziali. Sono definitivamente abbandonati i modelli teorici che considerano l’omosessualità una ‘malattia da curare’ e vengono riconosciute le ripercussioni traumatiche della discriminazione sociale sullo sviluppo psicologico e sociale delle persone gay e lesbiche. In particolare, viene sottolineata l’importanza di riconoscere, affrontare e elaborare l’omofobia interiorizzata dalle persone omosessuali stesse (cioè l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi nei confronti della propria omosessualità) e, più in generale, il minority stress (l’insieme dei disagi psicologici dovuti all’appartenere a una minoranza discriminata).

Può essere interessante ricordare qui un esperimento condotto dallo psicoanalista Mark Blechner (2009), che ha chiesto a un gruppo di persone eterosessuali di non fare mai riferimento, al lavoro o nelle conversazioni con gli amici, al genere del proprio partner o della propria partner o a esperienze fatte in coppia, prestando attenzione a descrivere le esperienze condivise con il/la partner come se le avessero vissute da soli, dicendo sempre ‘io’ anche quando avrebbero voluto dire ‘noi’, oppure dicendo ‘una persona’ quando avrebbero voluto dire mio marito/mia moglie o il mio compagno/la mia compagna. In sintesi, si sarebbero dovuti comportare proprio come fanno molti gay e lesbiche quando non possono o non riescono a rivelare la propria omosessualità. Dopo un mese di questa vita di clandestinità e anonimato, chi ha partecipato all’esperimento si è dichiarato seriamente destabilizzato e in seria difficoltà. Blechner ci invita a riflettere su quanto debba esserlo per le persone omosessuali che la mettono in pratica non per un mese, ma a volte per una vita intera, in particolare quando l’ambiente attorno a loro sembra del tutto imprevedibile o si dimostra ostile.
L’impatto del minority stress sul benessere psicofisico delle persone gay o lesbiche viene descritto da molte ricerche sul campo che indicano il pregiudizio e la discriminazione come fattori rilevanti e misurabili di stress, e mostrano come lo sviluppo psicologico di molte persone omosessuali sia segnato da una dimensione di stress continuativo, conseguenza di ambienti ostili o indifferenti, episodi di stigmatizzazione, casi di violenza. L’esperienza di queste situazioni continuativamente traumatiche, quelle che lo psicologo Derald Wing Sue (2010) chiama “Microaggressions in everyday life”, è significativamente più alta in campioni di omosessuali rispetto a campioni di eterosessuali (vedi anche: Mays e Cochran, 2001; Meyer e Northridge, 2007; Rivers, 2011; Roberts et al., 2010). Gli studi condotti da Mark Hatzenbuehler e collaboratori (2009, 2010, 2012) evidenziano come l’incidenza di problemi e disturbi psichici, alcolismo e ideazione suicidaria (vedi anche Baiocco et al., 2010; King et al., 2008; Marshal et al., 2011; Plöderl et al., 2014) sia nettamente superiore tra le persone gay e lesbiche residenti in paesi dove non è consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso e/o non esistono leggi specifiche contro le violenze e le discriminazioni omofobiche e/o in contesti dove le organizzazioni religiose o i nuclei familiari (Ryan et al., 2009) sono meno accoglienti.

Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei genitori, la derisione dei compagni di scuola, diventa un compito davvero difficile. Fortunatamente a molti adolescenti o giovani adulti gay e lesbiche non mancano le capacità e le risorse per fronteggiare con successo le esperienze (micro o macro) traumatiche, riorganizzando positivamente la propria vita. Alcuni, però, si impegnano nella ricerca, spesso disperata, di interventi volti alla modifica del proprio orientamento sessuale: le cosiddette ‘terapie riparative’, dichiarate inefficaci e dannose e bandite da tutte le associazioni scientifiche e professionali per la salute mentale (su questo tema cfr. Lingiardi, 2007/2012; Rigliano, Ciliberto e Ferrari, 2012). Di fronte a simili richieste di modifica dell’orientamento sessuale, i terapeuti devono stare attenti a non colludere con il disagio ‘egodistonico’ del/della paziente, ma esplorare con lui/lei il significato personale e collettivo di tale disagio, al fine di comprendere da cosa è sostenuto il desiderio di diventare ‘eterosessuale’: quali paure, quali aspettative deluse, affrontando senza pregiudizi i molti temi che possono riguardare la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali e delle loro famiglie.

Eppure, ancora oggi, alcuni psicologi guardano all’omosessualità con preoccupazione e diffidenza. D’altra parte, i libri e i manuali su cui si sono formate intere generazioni di professionisti non hanno mai raccontato ‘le omosessualità’ dalla prospettiva di uno sviluppo psicologico ‘normale’, facilitando così la proliferazione di pregiudizi negativi nei confronti degli individui omosessuali e di pregiudizi positivi nei confronti di quelli eterosessuali. Si possono incontrare psicologi e psichiatri che esprimono convinzioni negative nei confronti dell’omosessualità, che si oppongono alla possibilità che gay e lesbiche possano avere relazioni stabili e riconosciute socialmente o che possano essere ‘buoni genitori’ (ignorando il consistente corpus di ricerche scientifiche che dimostra il contrario; per approfondimenti rimandiamo al numero monografico di Infanzia e Adolescenza curato da Anna Maria Speranza, 2013). Si possono incontrare psicologi e psichiatri che, con atteggiamenti che potremmo definire più ‘eterofili’ che ‘omofobi’, non veicolano ai loro pazienti atteggiamenti patologizzanti, ma indicano nell’eterosessualità una condizione comunque preferibile (e auspicabile). Sono questi, tra gli altri, i risultati che emergono da alcuni studi nazionali e internazionali (cfr. Bartlett, Smith e King, 2009; Lingiardi e Capozzi, 2004), tra cui una ricerca che abbiamo condotto in collaborazione con vari Ordini degli Psicologi nazionali (Lingiardi e Nardelli, 2011; Lingiardi, Nardelli e Tripodi, 2013; Lingiardi, Taurino, Tripodi, Laquale e Nardelli, 2013; Lingiardi, Tripodi e Nardelli, 2014; Nardelli, Rollè e Tripodi, 2011). Da queste ricerche emerge anche un dato importante: la consapevolezza della necessità di un aggiornamento scientifico e clinico, da cui deriva la richiesta di una maggiore formazione e informazione.

A livello internazionale, le più autorevoli associazioni di categoria hanno prodotto numerosi materiali per promuovere conoscenza e maggior chiarezza sui temi che caratterizzano le minoranze sessuali e di genere. Si tratta sia di documenti di carattere divulgativo, sia di vere e proprie “Linee guida” che si propongono di aiutare i professionisti della salute mentale ad assumere approcci adeguati nella pratica clinica con gli utenti e i pazienti non eterosessuali (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 2012; American Psychological Association, 2009, 2012; British Psychological Society, 2012). L’esigenza di aggiornamento e formazione sul piano scientifico e clinico è stata colta anche nel nostro paese, inizialmente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio che, sotto la presidenza di Marialori Zaccaria, ha deciso di promuovere l’elaborazione di “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali” (Lingiardi e Nardelli, 2013, 2014). La qualità di questo strumento di aggiornamento professionale è stata riconosciuta dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), che ha deciso di recepirle e di promuoverne la divulgazione. Un passo decisivo in un Paese in cui la cultura scientifica in tema di (omo)sessualità è stata a lungo caratterizzata da lacune e distorsioni.

Bibliografia

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Tra patologizzazione e de-patologizzazione: il ruolo della psichiatria nella definizione delle varianze di genere http://www.portalenazionalelgbt.it/tra-patologizzazione-e-de-patologizzazione-il-ruolo-della-psichiatria-nella-definizione-delle-varianze-di-genere/ Tue, 20 Jan 2015 09:44:30 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2322 A cura di Paolo Valerio, Dipartimento di Neuroscienze e Scienze Riproduttive ed Odontostomatologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Prima ancora che la medicina e la psichiatria abbiano iniziato ad occuparsi di casi di ‘cambiamento di sesso’, numerosi miti narrano esperienze di persone che assumono ruolo di genere diversi da quelli prestabiliti secondo l’ordine binario che sancisce la divisione tra l’essere maschile e l’essere femminile. Pensiamo, ad esempio, al mito di Tiresia, piuttosto che all’Androgino descritto da Platone, in cui si assiste a divinità che si incarnano di volta in volta in personaggi maschili e femminili; altri esempi sono la storia di Attis e Cibele, Ermafrodito, nonché il mito di Venere Castina e non ultima la leggenda del re trasformato in donna presente nel Mahâbhârata (Vitelli et al., 2013). Presso numerose realtà urbane, ancora ai nostri giorni, vi sono ampie e riconosciute comunità di persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. In India, ad esempio, troviamo gli Hijira, una vera e propria casta; nel nord America, tra i popoli originari, sono riportate esperienze di persone con una ‘doppia anima’, i ‘Two Spirits’, fino ad arrivare ai Muxè del Messico ed ai Kathoey in Tailandia. A Napoli, invece, i ‘Femminielli’ costituiscono una presenza forte e caratteristica (Zito & Valerio, 2010; 2013).
Per descrivere queste esperienze umane significative, la comunità scientifica utilizza oggi la definizione di varianza di genere. Con tale espressione ci si riferisce in modo piuttosto ampio a tutti coloro che sperimentano un qualche disagio a vivere secondo le regole culturali del genere assegnato alla nascita. Il significato di varianza di genere, dunque, raccoglie un insieme di condizioni tra cui il transessualismo, il transgenderismo, e tutte le situazioni in cui una persona vive in modo non conforme rispetto al genere assegnato alla nascita. Come vedremo, il termine transessualismo è molto collegato alla storia della psichiatria, derivando dalla necessità di definire coloro che richiedono trattamenti ormonali e chirurgici per modificare i propri caratteri sessuali primari e secondari. Il transgenderismo, invece, termine più vago, si riferisce a coloro i quali sperimentano un’identità non inquadrabile né nel maschile né nel femminile e che non desiderano procedere ad interventi medici e chirurgici.
Scopo di questo contributo è di descrivere le principali tappe teoriche che hanno consentito di giungere, oggi, alla definizione del concetto di varianza di genere. Partiremo dalla fine dell’800 quando la psichiatria ha iniziato a produrre documenti, osservazioni e riflessioni su tali condizioni. Procederemo, poi, parlando del ‘900, secolo in cui sono documentate le prime operazioni chirurgiche per la modificazione del sesso. Concluderemo, infine, con delle considerazioni sulle attuali prospettive in ambito diagnostico.

Tra la metà e la fine del 1800 i fenomeni di varianza di genere non sono ancora riconosciuti nella loro particolarità ma risultano ancora confusi nell’universo dell’omosessualità. Per comprendere questa situazione basti pensare al lavoro di Karl Ulrichs, un avvocato di Hannover che tra il 1860 ed il 1879 scrive numerosi articoli in favore dei diritti delle persone omosessuali. In alcuni libri inizia a proporre la sua teoria di un’anima muliebris virili corpore inclusa, ovvero un’anima femminile intrappolata in un corpo maschile, espressione che viene utilizzata per descrivere sia persone omosessuali che persone con varianza di genere. Con i suoi lavori Ulrichs attira l’interesse della comunità scientifica su questi temi. Solo pochi anni dopo, Karl Westphal, uno psichiatra tedesco, descrive alcuni casi in cui «una donna è fisicamente una donna, ma psicologicamente un uomo, e, dall’altro lato, un uomo è fisicamente un uomo, ma psicologicamente una donna» e propone quale spiegazione l’esistenza di una sensibilità sessuale invertita (Westphal, 1869). Queste ricerche sovrappongono l’istinto sessuale, connesso all’orientamento sessuale, con l’identità di genere connessa, invece, alla percezione della propria personale identità. Di grande rilevanza è poi l’opera di Richard Krafft-Ebing che riceve numerose autobiografie da parte di persone che sognano di cambiare sesso e chiedono di sottoporsi ad interventi chirurgici nella speranza di modificare l’apparenza dei propri caratteri sessuali. Tra queste autobiografie ve ne sono alcune davvero molto toccanti. Krafft-Ebing però, proponendo la diagnosi di una metamorfosi sessuale paranoide (Krafft-Ebing, 1886) avvicina queste esperienze al campo della psicopatologia del delirio.
Dobbiamo attendere il lavoro di Magnus Hirschfeld dal titolo “Die Transvestiten” per osservare un parziale superamento del concetto di istinto sessuale invertito, diffuso in quel contesto scientifico. Hirschfeld sostiene che la nozione di istinto sia eccessivamente riduttiva ed afferma che il desiderio dei soggetti ‘transvestitisti’, come egli li definisce, non appartiene tanto alla sfera dell’istinto sessuale ma riguarda un intreccio di sentimenti ed emozioni che si traducono in preferenze per l’abbigliamento del genere desiderato (Hirschfeld, 1910). Hirschfeld riconosce che queste persone non desiderano solo utilizzare gli abiti del sesso opposto al loro quanto, piuttosto, diventare in tutto e per tutto come le persone del sesso a cui sentono di appartenere.
Il caso vuole che intorno agli anni ’20 del ‘900 alcuni ricercatori, tra cui Eugen Steinach, stiano effettivamente iniziando a sperimentare la chirurgia per il cambio di sesso sugli animali. Quindi, diversi elementi concorrono a preparare il terreno per quella che sarà una vera e propria rivoluzione nella storia umana: il cambiamento di sesso. L’opera di David Caldwell, “Psychopathia Transsexualis“, del 1949, introduce il termine transessualismo ed è di fatto il preludio a questo fondamentale cambiamento.
Una vera e propria rivoluzione ha luogo nel 1951. È in questo anno che in Danimarca viene realizzato il primo intervento documentato di riassegnazione chirurgica del sesso. L’operazione di cambiamento di sesso condotta su George Jorgensen è attestata dall’articolo di Christian Hamburger, Georg K. Stürup ed E. Dahl–Iversen del 1953. In realtà, non è tanto l’articolo scientifico a generare lo scalpore mediatico, quanto, piuttosto, la biografia di George, intanto divenuta Christine Jorgensen (1967), che diviene un best-seller mondiale. La notizia di questo cambiamento fa il giro del mondo portando tutti a conoscenza del fatto che finalmente esiste una soluzione per coloro che sperimentano questi vissuti.
Il fenomeno transessuale, così definito dal sessuologo ed endocrinologo statunitense, Harry Benjamin, allievo di Hirschfeld, inizia ad essere riconosciuto e differenziato dalla omosessualità. Sotto questo punto di vista è proprio Benjamin (1953) ad indicare un nuovo orizzonte di ricerca attraverso l’articolo “Transvestitism and Transsexualism” pubblicato sull’International Journal of Sexology sulla scia del sensazionale caso Jorgensen. Questo articolo prepara il terreno al più ampio volume dedicato a questo tema che viene pubblicato nel 1966 con il titolo “The Transsexual Phenomenon” tradotto in italiano con Il fenomeno transessuale. Secondo Benjamin la persona transessuale, sia maschio che femmina, è profondamente infelice di vivere secondo il suo sesso biologico. Se tale sofferenza può essere inizialmente alleviata indossando abiti del sesso opposto, il vero transessuale non si accontenta del travestimento poiché esso è solo un rimedio parziale e temporaneo. I ‘veri transessuali’, seguendo la terminologia utilizzata dallo stesso Benjamin, sentono una completa appartenenza al genere opposto al proprio, desiderano vivere ed operare come membri del sesso opposto al proprio e chiedono al chirurgo che li si aiuti a superare questo senso di disagio vissuto nei confronti del proprio stesso corpo.

Sebbene a cominciare dagli anni ’60, negli Stati Uniti, vengano aperte numerose cliniche per la riassegnazione chirurgica del sesso, bisogna aspettare ancora qualche anno prima che l’American Psychiatric Association (l’Associazione degli Psichiatri Statunitensi – APA) intervenga sull’argomento. Il transessualismo, infatti, viene introdotto solo nella terza edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, meglio noto come DSM, del 1980 e successivamente, con la revisione del 1987, il transessualismo viene differenziato dal ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’Adolescenza e dell’Età Adulta’, tipo non transessuale (‘GIDAANT’). Questa opposizione richiama la dicotomia proposta da Benjamin poiché la preoccupazione maggiore degli psichiatri è quella di definire, in modo più rigoroso possibile, i criteri diagnostici al fine di selezionare i soggetti idonei a sostenere l’intervento chirurgico. In questi anni, quindi, iniziano ad essere somministrati numerosi test di personalità dai quali emergono risultati contraddittori. Secondo alcuni autori questi test avrebbero messo in evidenza la presenza di sottostanti problematiche di personalità; secondo altri le problematiche psicologiche, pure talvolta emerse dall’impiego di questi test, non sarebbero state in connessione con elementi psicopatologici, piuttosto sarebbero derivate, secondariamente, come reazione alle discriminazioni sociali subite da queste persone.
In seguito, con il DSM-IV, pubblicato nel 1994, la diagnosi di transessualismo viene riformulata in ‘Disturbo dell’Identità di Genere’ o ‘DIG’. È questo il momento apicale di una visione psichiatrica che vede nelle varianze di genere una patologia mentale.

Accanto alla psichiatria ufficiale è da sottolineare la comparsa di molteplici movimenti di attivisti del mondo del transessualismo e delle varianze di genere che affrontano in prima linea una questione così delicata. Il desiderio degli attivisti è non solo quello di superare il pregiudizio che vede nella varianza di genere una patologia mentale, una visione che sta ‘bollando’ tutti coloro che non si conformano alle norme sociali connesse al genere assegnato alla nascita, ma quello di sostenere il riconoscimento della peculiare identità sviluppata dalle persone con una varianza di genere. Secondo tale prospettiva, la persona con varianza di genere costruisce una vera e propria nuova identità, maggiormente in linea con quelli che sono i propri gusti e le proprie preferenze, mettendo anche in discussione l’utilità, ed obbligo, di subire una operazione chirurgica ‘mutilante’ per vedere riconosciuta la propria identità. Per riferirsi a questi casi viene coniato da Virginia Prince, nel 1979, il termine transgender in opposizione al termine transessuale. Tale definizione consente di porre in luce i bisogni specifici della popolazione transgender, la quale rivendica la libertà di scivolare tra i generi sessuali senza dover ricorrere ad interventi medici e chirurgici.

Durante le fasi di preparazione per la quinta edizione del DSM (pubblicata nel 2013 negli USA, nel 2014 in Italia) si è animato un intenso dibattito con l’obiettivo di rivedere i criteri diagnostici del manuale. A tale processo di discussione hanno partecipato non solo gli psichiatri ma molteplici associazioni internazionali tra cui il WPATH, ovvero la World Professional Association for Transgender Health. Le posizioni teoriche emerse, e che hanno alimentato tale importante confronto, sono state sostanzialmente due. Da un lato vi è stata la tesi di coloro i quali hanno richiesto con forza la completa eliminazione di qualsiasi diagnosi connessa alla identità di genere. A sostegno di questa tesi è stato affermato che, generalmente, la diagnosi di malattia mentale produce un marchio, ovvero uno stigma, sulla persona che la riceve. Il permanere di una diagnosi nel DSM avrebbe comportato, pertanto, il perpetuarsi di una visione secondo cui coloro che richiedono il cambio di sesso sono ‘intrinsecamente patologici’. La posizione appena espressa può essere definita come quella della de-patologizzazione delle richieste di cambiamento di sesso. La seconda tesi che ha animato questo dibattito si è pronunciata, al contrario della precedente, in sfavore di una completa rimozione della categoria diagnostica dal DSM. Le ragioni, alla base di tale posizione, sono da rintracciarsi nel fatto che senza una diagnosi sarebbe divenuto impossibile, per i sistemi sanitari nazionali e le organizzazioni assicurative, coprire economicamente le cure mediche e chirurgiche. Secondo tale posizione, dunque, la completa rimozione della diagnosi avrebbe impedito l’accesso alle cure sanitarie gratuite, mettendo gravemente a rischio tutte le persone prive di una assicurazione personale o impossibilitate a sopperire economicamente alle ingenti spese mediche (Valerio & Fazzari, 2012).
Nella versione definitiva del DSM-5 la scelta della diagnosi di ‘Disforia di genere’ ha decretato, pertanto, la vittoria di una posizione intermedia tra le due appena citate. In effetti, sono state riconosciute sia l’esigenza di mantenere una diagnosi al fine di garantire l’accesso alle cure e sia, al contempo, la necessità di impiegare termini più neutrali, evitando accezioni stigmatizzanti.
Attualmente, in modo simile con quanto avvenuto per il DSM, è in atto il processo di revisione in vista dell’undicesima versione dell’ “International Classification of Disease” (ICD), la cui pubblicazione è prevista per il 2017. Analogamente alla American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, autrice di questo manuale, sta ipotizzando criteri diagnostici capaci di ridurre lo stigma associato alla diagnosi ed allo stesso tempo garantire l’accesso alle cure mediche. Stando all’attuale materiale pubblicato da alcuni membri del gruppo internazionale, la diagnosi proposta è quella di ‘Incongruenza di genere’.

In conclusione si può ricordare la legge n. 164 promulgata in Italia nel 1982, legge che consente l’operazione chirurgica di riassegnazione anagrafica del sesso. Questa legge, sebbene per l’epoca fosse all’avanguardia nell’intero panorama europeo, mostra oggi tutta una serie di limiti. Essa, infatti, obbliga le persone che desiderano modificare la propria identità anagrafica ad intervenire sul proprio corpo per modificare i caratteri sessuali. Tali manovre chirurgiche, il cui risultato è irreversibile, implicano la completa sterilizzazione della persona dal momento che vengono completamente asportati gli organi genitali. È evidente che in tale situazione non siano rispettati i diritti basilari della persona. A sostegno della necessità di un radicale ripensamento di tale apparato legislativo possiamo sottolineare anche la perdita di diritti sperimentata dalle persone transessuali quando, al momento del cambiamento anagrafico, vedono sciogliersi l’eventuale matrimonio precedentemente contratto. Tale situazione legislativa, quindi, appare ancora piuttosto lontana da quanto proposto da Thomas Hammarberg, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, che, nel 2009, ha indicato al Consiglio stesso una serie di raccomandazioni. Tra queste vi è l’invito a implementare una politica di tutela dei diritti per le persone con varianza di genere, contribuire a ridurre le discriminazioni che costantemente subiscono le persone transessuali/transgender in termini di crimini di odio e di transfobia e, naturalmente, sollecitare il legislatore ad abolire l’obbligo di sottoporsi ad interventi chirurgici che provocano la completa sterilizzazione, oggi ancora necessari per vedersi riconosciuta l’identità anagrafica che si sente propria.
Resta ancora moltissimo da fare. Ci auspichiamo che la comunità scientifica possa continuare a creare occasioni di scambio per meglio comprendere i bisogni di questa particolare popolazione che presenta varianza di genere poiché è solo attraverso l’impegno di tutte le istituzioni che è possibile superare i pregiudizi e riconoscere la particolarità e la specialità di queste esperienze umane significative. Ed in questo senso, l’auspicio non può che essere che l’intera società possa diventare maggiormente inclusiva, capace di riconoscere e valorizzare l’infinito apporto che ci viene offerto da ciascuna forma di diversità.

Nota:
Parti di questo contributo sono tratte da Valerio et al. (2001) “Il transessualismo. Saggi psicoanalitici” (FrancoAngeli). Valerio P. Fazzari P. (2012) “Alcune note sul ‘fenomeno transessuale’ oggi: un disturbo da depatologizzare?” (Mimesis). Vitelli R., Fazzari P., Valerio P. (2013) “Le varianti di genere e la loro iscrizione nell’orizzonte del sapere medico-scientifico: la varianza di genere è un disturbo mentale? Ma cos’è, poi, un disturbo mentale?” (FrancoAngeli).

Bibliografia

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Omosessualità & Disabilità: doppia discriminazione o doppia risorsa? http://www.portalenazionalelgbt.it/omosessualita-disabilita-doppia-discriminazione-o-doppia-risorsa/ Mon, 19 Jan 2015 12:06:43 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2317 A cura di Priscilla Berardi, medico e psicoterapeuta sistemico-relazionale, sessuologa.

A partire dagli anni ’70 si è assistito ad un radicale cambiamento nel modo di concepire la disabilità, che è passata dall’essere malattia, spesso ostracizzata dalla società, all’essere una condizione frutto dell’incontro-scontro tra fattori biologici, psicologici e sociali, elementi intrinseci ed estrinseci alla persona.
La disabilità, in base a questo modello, può riguardare qualunque individuo, che diviene disabile qualora non gli vengano forniti gli strumenti personali e ambientali utili al manifestarsi delle proprie potenzialità e risorse.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha siglato il cambio di prospettiva nel 2001 con la “Classificazione Internazionale del Funzionamento e della Salute”. In Italia, parimenti, la chiusura dei manicomi, la nascita di Leggi che garantissero la tutela sul lavoro e l’integrazione scolastica e sociale, l’introduzione dell’insegnante di sostegno per gli/le alunni/e con disabilità, ha portato ad un graduale mutamento nella percezione della disabilità da parte della società, nella direzione di una maggiore accoglienza e inserimento della persona disabile in seno alla comunità di appartenenza.
Gli ultimi cinquant’anni non cancellano però secoli di storia in cui la persona con disabilità è vissuta ai margini, denigrata, sottovalutata, inascoltata, quando non eliminata. Ancora oggi abbiamo difficoltà a riconoscere alla persona disabile tutte le caratteristiche dell’essere Umani, prima fra tutte la sessualità. La cultura moderna occidentale amplifica poi questa difficoltà pretendendo un’omologazione che appiattisce tutti gli individui in schemi rigidi e indiscutibili, che non ammettono differenze e in cui la diversità è vissuta come una colpa: quella dell’uscire dalle regole, del non sottomettersi ai criteri di giudizio e ai canoni estetici e di comportamento imperanti. Gli outsider delle gerarchie, insomma.
Eppure l’identità sessuale segue per tutti/e, disabili e non, gli stessi percorsi di sviluppo, risultando in una sessualità unica, universale, fatta per tutti/e delle stesse componenti, una sessualità che per i/le disabili non è speciale nei contenuti o nella forma, ma nel suo riconoscimento e nella possibilità di essere vissuta. Così, poiché lo sviluppo psichico – cognitivo ed emotivo – passa attraverso l’esperienza corporea, avere avuto la possibilità di sperimentare, fin dall’infanzia, la propria fisicità attraverso esperienze corporee piacevoli, attraverso un buon contatto con l’altro, avere imparato che cosa il proprio corpo può dare e ricevere, i suoi limiti e le sue risorse, al di là delle manipolazioni terapeutiche e degli esami diagnostici e strumentali, in rapporti fatti di accoglienza e rispetto reciproco, permette di maturare una buona percezione di sé, una buona immagine da proporre con sicurezza agli altri, un’integrazione tra la mente e il corpo.
Purtroppo, spesso, quel contatto piacevole viene negato alla persona disabile, che finisce per conoscere meglio i propri deficit che le proprie potenzialità e si identifica più con le proprie inadeguatezze che con le proprie capacità. Spesso l’autonomia viene limitata più di quanto non lo sia già, vengono bloccate quelle sperimentazioni e quelle prove che consentirebbero il rispetto delle varie fasi di crescita del soggetto fino ad un’entrata consapevole nel mondo adulto, che non è fatto solo di lavoro, barriere architettoniche, assistenza, cibo e bisogni fisiologici, ma anche di contatti interumani e costruzione di relazioni. Come quello di chiunque altro/a. In questa rimozione della dimensione amorosa e sessuale, si assiste ad una sorta di angelizzazione e infantilizzazione della persona disabile, che viene ‘tenuta piccola’, priva di iniziativa e così socialmente innocua. La privacy e l’intimità non vengono rispettate, non solo per esigenze pratiche di accudimento ma anche e soprattutto per una miopia dei bisogni di un proprio spazio e di raccoglimento, stupendosi poi se si verificano sfacciati episodi di esibizionismo o corteggiamenti pressanti. Di fronte all’espressione del desiderio, la risposta più frequente è il controllo, la regolamentazione, la repressione degli impulsi. Spesso, le uniche alternative che si pensa di poter percorrere sono la masturbazione e la prostituzione per i maschi e la sublimazione di ogni pulsione per le femmine. Che la disabilità sia fisica o sensoriale o psichica, vengono guardate con imbarazzo e sospetto tutte quelle affermazioni e quelle fantasie che proiettano il/la disabile nel futuro e in un legame con un’altra persona, ancor più se si tratta di genitorialità e procreazione. Ancor prima del/della disabile, ad essere impreparati a riconoscere il percorso maturativo sessuale della persona con disabilità sono le famiglie e gli operatori / le operatrici, già in difficoltà con i propri insoluti e con i propri vissuti sessuali, inconsapevoli prigionieri dei loro stessi stereotipi culturali e pregiudizi, inabili a gestire quelle emozioni che il rispecchiamento nelle frustrazioni dell’altro/a sollecita. Il risultato è che la sessualità alle persone disabili sembra essere concessa, calata dall’alto, come un diritto legislativo e non come un’essenziale e naturale componente già insita nella persona.

Che accade, dunque, se la persona disabile è omosessuale o bisessuale o transessuale?
L’inimmaginabile e l’indicibile si moltiplicano. Negli interrogativi di alcuni curiosi, «Sei diventato/a gay o lesbica a seguito dell’incidente?», «Sei gay o lesbica a causa della tua malattia?», «Scommetto che è omosessuale perché nelle sue condizioni non poteva ambire a niente di meglio» [l’eterosessualità], sono già racchiusi ed esplicitati tutto il pregiudizio e tutta l’ignoranza sulla disabilità e sull’omosessualità. Nell’ultimo decennio si sono occupate dell’argomento, per la prima volta in Italia, due indagini psicosociali su scala nazionale e un film documentario.
Nel 2007 sono stati pubblicati online i risultati di “Abili di cuore”, una ricerca di Berardi, Lelleri, Chiari, condotta da Arcigay in collaborazione con CDH Bologna e Centro Bolognese di Terapia Familiare. L’indagine aveva raccolto le testimonianze dirette di 25 persone disabili gay e lesbiche in tutta Italia, tra i 24 e i 60 anni di età, ed esplorava i quattro contesti principali di vita significativi per gli/le intervistati/e: socio-sanitario; familiare e sociale, relativi allo svelamento dell’omosessualità e al proprio vissuto in merito alla disabilità; associativo e comunitario, in riferimento sia all’ambito LGBT, che a quello handicap; affettivo/sessuale e di coppia.
Dalle interviste raccolte, è emerso come disabilità e omosessualità siano due cornici identitarie molto forti il cui amalgama può risultare in una varietà di distinte combinazioni. La persona disabile omosessuale può sentirsi doppiamente discriminata e vivere un elevato livello di disagio psicologico in una sorta di sommatoria delle problematiche, ma può anche raggiungere una piena consapevolezza e sicurezza di sé come disabile e libertà nell’esprimere il proprio orientamento sessuale. A volte, avere accettato convintamente una delle due componenti identitarie permette, per estensione, l’accettazione dell’altra, come se l’immersione nell’esperienza di ‘sentirsi diversi’ per un motivo e l’acquisizione degli strumenti necessari a far fronte allo stress della situazione insegnassero ad accogliere se stessi/e in ogni forma del proprio essere. Talvolta, invece, una delle due cornici prevale sull’altra, perché percepita più problematica o perché fonte di maggiore orgoglio, e la persona può descriversi come più disabile o più omosessuale.
La percezione delle difficoltà legate alla disabilità non è comunque direttamente proporzionale alla gravità della patologia riportata: alcune persone con disabilità oggettivamente meno invalidanti riferiscono una sofferenza soggettiva ed una compromissione del funzionamento socio-relazionale maggiore di persone con disabilità più inabilitanti. Il coming out più difficile dell’omosessualità è quello intrafamiliare, per la preoccupazione di accrescere il dolore già arrecato con la disabilità o il timore di perdere le cure necessarie, mentre fuori dalla famiglia può rendersi faticoso il coming out di una disabilità non evidente.
Per la persona con disabilità fisica importante, l’assenza di autonomia riduce la possibilità di frequentare luoghi di ritrovo LGBT dal momento che sarebbe necessario dichiarare il proprio orientamento ad un/a eventuale accompagnatore o accompagnatrice. Questo impone un’eventuale rottura della privacy o riduce drasticamente le occasioni di incontro e frequentazione di eventuali partners affettivi e/o sessuali. Complicato risulta anche il rapporto con le associazioni per disabilità, accusate di non tenere in debita considerazione la sessualità dei/delle disabili e di stigmatizzare l’omosessualità, e con le associazioni LGBT, per le quali la disabilità sembra un pianeta lontano e non esiste lotta alle barriere architettoniche. I disabili gay e lesbiche finiscono dunque per interrogarsi sui propri punti di riferimento e sull’appartenenza a questi due mondi.
Elevata drammaticità assume spesso il rifiuto da parte di potenziali partner affettivi e sessuali. E se per non vedenti e non udenti le cose sembrano più semplici perché non si è sottoposti a limitazioni motorie e l’accesso ai locali è meno problematico, le difficoltà nell’approccio e nell’incontro non si esauriscono qui, ma iniziano nella comunicazione con persone abituate a udire, che non conoscono la lingua dei segni, nell’inquinamento acustico dei locali che riduce la possibilità dei/delle non vedenti di sentire e nella poca illuminazione che limita la lettura del labiale per i/le non udenti. Eppure, quando l’incontro è fortunato ed è fatto di maturità, complicità e sensibilità, una volta superati gli ostacoli pratici, organizzativi, comunicativi e soprattutto mentali, una volta che la persona disabile omosessuale raggiunge un’immagine di sé positiva, le coppie che riescono a formarsi escono da un’idea di performance e di standardizzazione del rapporto sessuale e ricercano e scoprono pratiche sessuali alternative ugualmente appaganti per la coppia. La disabilità è ritenuta irrilevante o arricchente nella relazione duratura e nella condivisione quotidiana di affetto ed esperienze. Sono specialmente le donne lesbiche a parlare di un maggior grado di accoglienza della propria disabilità da parte del mondo omosessuale femminile.

Parte di questi risultati è stata riconfermata dall’indagine “Identità ad ostacoli” di Berardi, Guarnieri, Lelleri col sostegno di Arcigay Cassero LGBT center di Bologna, presentata al Convegno “Per una disabilità sostenibile” (Napoli, 5-6 giugno 2013). La ricerca, condotta su un campione autoselezionato, su tutto il territorio nazionale, esplora il rapporto tra operatori/operatrici e pazienti/assistiti/e LGB con disabilità. Le opinioni raccolte sono quelle di 20 pazienti LGB e 43 operatori/operatrici del settore sanitario, educativo e assistenziale. Le richieste rivolte alle associazioni e le mancanze sottolineate in esse sono immutate rispetto al 2007. Il timore delle persone LGB con disabilità a dichiararsi omosessuali all’interno dei Servizi e con gli/le operatori/operatrici riguarda la possibilità di ricevere un trattamento di serie B o un cambio di atteggiamento in negativo dell’operatore o dell’operatrice. Chi si è reso/a visibile come omo-bisessuale con almeno uno/a dei propri operatori/delle proprie operatrici ha però sperimentato accoglienza ed empatia. La professionalità è conservata. Anche gli operatori e le operatrici dichiarano di sentire un atteggiamento positivo verso i/le pazienti disabili LGB, potenziali o realmente conosciuti/e. La scarsa conoscenza sulle tematiche LGBT e sul binomio sessualità-disabilità è ammessa con umiltà, accanto al desiderio di ricevere formazione su di esse e all’idea che, comunque, le proprie conoscenze e caratteristiche personali siano più importanti delle abilità e competenze professionali nell’approccio a un/a paziente disabile LGBT. Un elemento preoccupante è nuovamente quello della violazione della privacy, ‘a fin di bene’, che mostra come la persona disabile sia immaginata come destinata a condividere tutto di sé con i propri familiari, nell’ottica di una tutela e di una desessualizzazione e infantilizzazione dell’individuo.

In questo panorama, appaiono totalmente dimenticate le persone transgender/transessuali con disabilità. In Italia, al momento, non esistono conoscenze né sono stati intrapresi studi che facciano luce su come queste persone vivano la loro identità sessuale e di disabile e che approfondiscano lo stretto rapporto col proprio corpo e con la propria immagine di sé.

L’ultima fotografia che ci rimane di questo tema è quella scattata dal documentario del 2013 “Sesso, Amore & Disabilità” di Silanus, Berardi, Lelleri, Alpi, Mastellari. Del folto gruppo di persone etero ed omosessuali intervistate, colpisce l’assenza di donne lesbiche disabili disponibili a raccontarsi pubblicamente – le cui motivazioni sarebbe interessante approfondire – mentre gli uomini gay disabili forniscono un racconto stimolante, aperto, equilibrato e rassicurante della loro storia relazionale. Chi ha più probabilità di avere successo nelle relazioni sembrano essere le persone che si mettono più in gioco, quelle disposte a rischiare e a ricevere rifiuti che le faranno soffrire ma pronte a rialzarsi e ricominciare. Sono le persone che hanno raggiunto una buona consapevolezza di sé e sono riuscite ad integrare tra loro tutte le parti della propria identità e ad affermare con convinzione i propri bisogni impegnandosi con chi era in grado di comprenderli, ascoltarli e condividerli. E’ cosa comune a chiunque nel mondo, ma nella disabilità questo dato viene evidenziato e accentuato.
Senz’altro ancora molta strada va comunque fatta perché le persone disabili LGBT possano sentirsi riconosciute come persone complete e non debbano più lottare per dimostrare l’ovvio.

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