Movimenti e rappresentanze – Portale di Informazione Antidiscriminazioni LGBT http://www.portalenazionalelgbt.it identità, diritti, informazione Wed, 18 Jan 2017 11:43:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.2 Breve storia del movimento LGBT in Italia: una conversazione con Porpora Marcasciano http://www.portalenazionalelgbt.it/breve-storia-del-movimento-lgbt-in-italia-una-conversazione-con-porpora-marcasciano/ Thu, 07 May 2015 07:39:45 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=2917 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Porpora Marcasciano è presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale) e autrice – tra gli altri – di AntoloGaia – testo recentemente ripubblicato dalla casa editrice Alegre – in cui racconta i suoi anni Settanta e le battaglie del movimento gay, lesbico e trans. Con lei abbiamo cercato di ricostruire alcune tappe fondamentali delle lotte LGBT in Italia.

Quando è nato il movimento LGBT in Italia?

Io penso che, come per tutte le cose, c’è una ‘prima volta’. Per decidere ‘la prima volta’ del movimento omosessuale in Italia non ci si è mai seduti attorno ad un tavolo, ma c’è accordo generale nell’indicare la manifestazione del Fuori! nel 1972 a Sanremo in occasione di un convegno di sessuologi sull’omosessualità come malattia. Detto questo, prima di quella data non c’era il vuoto, ma esistevano delle esperienze. In tanti si muovevano, eppure non uscivano allo scoperto. Come nel caso dei moti di Stonewall, non è che non ci fosse fermento prima di quell’evento, al contrario. Tuttavia non era ancora scoccata la scintilla giusta per innescare l’esplosione che fa iniziare un percorso. Per l’Italia, quindi, io stabilirei quello come punto di partenza.

E poi da quella uscita pubblica come si sono articolare le cose?

Da lì in avanti, per tutti gli anni ’70 c’è stato un movimento. Il Fuori! era un’associazione vera e propria con dei legami forti con il partito Radicale – che era una spalla forte per tutta una serie di categorie sociali e di battaglie civili – ma non era l’unica esperienza. Tutto era in nascita e in crescita in quegli anni, c’era un potenziale da sviluppare che non si era ancora delineato in associazioni o in aree come oggi, era una sorta di brodo primordiale che raccoglieva varie e diverse sfaccettature.

Era un movimento politico e culturale più ampio del solo mondo LGBT: in quegli anni, nacquero moltissime altre esperienze – collettivi e gruppi informali – che avevano le loro finestre sul mondo e contribuivano al dibattito. C’era “Re Nudo” – un giornale di contro-cultura nato a Milano che organizzava ogni anno il festival al parco Lambro – su cui scrivevano Mario Mieli e Alfredo Coen. Sulle pagine di “Re Nudo” c’era un dibattito accesissimo su sessualità e omosessualità e un dialogo serrato tra le istanze del femminismo e il movimento di liberazione gay: per esempio proprio di recente mi è capitato sotto mano un numero in cui c’era un botta e risposta tra Mario Mieli e Lea Melandri su questi temi.
E basta dare uno sguardo alla pagina gay di Lotta Continua, che usciva il giovedì, per vedere quanti e diversi collettivi e gruppi c’erano all’epoca. Alla fine degli anni ’70 in tutta Italia era un fiorire di collettivi che si collocavano all’interno del movimento antagonista: a Roma fu l’avvio con il Circolo Narciso (poi diventato Mario Mieli). A Milano c’era l’esperienza delle case occupate di via Morigi dove nacquero i COM – Comitati Omosessuali Milanesi – mentre a Torino, oltre al Fuori!, c’era Lambda che pubblicava un foglio di cultura omosessuale. E poi a Trapani, a Bari, a Potenza, a Lecce, a Cremona, a Verona, ovunque, anche al sud e nelle città di provincia, nascevano esperienze testimoni di una ricchezza che oggi potrebbe sembrare impensabile.

Hai citato il movimento femminista e il movimento della sinistra extra-parlamentare di quegli anni, quali erano i rapporti con il movimento LGBT?

Come negli Stati Uniti il Gay Liberation Front era intrecciato con le Black Panthers e il movimento delle donne, la stessa cosa succedeva in Europa con sfumature diverse. C’era un confronto profondo – che talvolta diveniva scontro – tra il movimento della sinistra extraparlamentare, il movimento femminista e il movimento gay. Il femminismo, in particolare, credo sia stato un interlocutore molto importante per articolare il discorso e le lotte sulla sessualità e la liberazione.

Se del movimento degli anni ’70 ciò che ha avuto più visibilità è stata la componente marxista, l’operaismo e il movimento contro le ingiustizie globali, dentro di esso trovarono spazio movimenti e istanze su ‘ingiustizie specifiche’: quelle gay, lesbiche e trans, quelle femminili, ma anche quelle sulla salute mentale per esempio. Il filo conduttore era una forte spinta culturale per emanciparsi da un modello sociale oppressivo e costruire dei nuovi spazi di libertà per tutte e tutti.

Quali erano le istanze di questo movimento?

Per che cosa ci si batteva? Ci si batteva per la propria liberazione. Questo non aveva ancora i contorni definiti dei diritti come li intendiamo oggi. Si usciva da secoli di negazione, d’invisibilità e di ‘non vita’, mentre con questo movimento si cominciava ad essere visibili, a riprendersi la parola e la vita. Bisogna ripensare al contesto di quegli anni: l’ultimo processo per plagio è quello di Aldo Braibanti del 1969 che venne arrestato dopo una denuncia da parte della famiglia del suo giovane fidanzato di allora. Nel 1972 il convegno contestato dal Fuori! era un convegno di sessuologi che discuteva dell’omosessualità come di una malattia da curare. Consiglio vivamente di leggere il libro “Quando eravamo froci” di Andrea Pini che ricostruisce cosa succedeva in Italia prima degli anni ’70, i soprusi e le ingiustizie subite: il movimento aveva alle spalle quel tipo di storia e chiedeva prima di tutto visibilità e libertà.

E dopo gli anni ’70 quali sono state le tappe successive?

Negli anni ’80 succedono due cose fondamentali: da un lato il movimento e tutte le sue sfaccettature si stabilizzano in associazioni e organizzazioni e, dall’altro, si diffonde l’Aids.

Nel 1980 a Palermo muove i primi passi Arcigay per mano di Marco Bisceglie – un prete operaio scomunicato per aver sostenuto le cause del divorzio e dell’aborto e per aver dichiarato pubblicamente la propria omosessualità – che viene registrata come vera e propria associazione nel 1981. Nel 1982 a Bologna il Comune assegna una struttura pubblica ad un gruppo omosessuale ed è la prima volta che in Italia un’istituzione riconosce il portato sociale e politico del movimento e della cultura omosessuale. Da lì nasce l’ufficialità del movimento perché ha una sede – il Cassero a Bologna, ha una rappresentanza formale – Arcigay – e ha un dialogo con le istituzioni – il Comune di Bologna. Questo però non significa che non ci fossero altri gruppi o altre esperienze in giro per l’Italia che hanno seguito strade differenti.

E per quanto riguarda la diffusione dell’Aids di cui accennavi prima?

L’avvento dell’Aids è stato un passaggio fondamentale che ha segnato sia le persone dal punto di vista biografico e sia il movimento in senso politico e culturale. Ci colse impreparate perché non c’era scampo, si diffondeva a vista d’occhio e non c’erano gli strumenti per affrontare quello che stava succedendo: a mio avviso la diffusione dell’HIV ha segnato profondamente un ‘prima’ e un ‘dopo’. E su questo, credo, il movimento LGBT non ha riflettuto abbastanza, diversamente da quanto successo in altri paesi come gli Stati Uniti. Non ci siamo chiesti abbastanza qual è stato l’impatto di questo fenomeno sulle nostre vite e sul movimento. Da lì ci siamo detti «dobbiamo essere più seri» e abbiamo indirizzato le energie nel prenderci cura della nostra comunità e a richiedere diritti, forse perdendo di vista il senso della parola liberazione che aveva guidato le lotte nel corso degli anni ’70.

In tutto questo movimento, qual è stata la specificità trans?

Negli anni ’70 non c’era una specificità trans evidente e manifesta. Era una minoranza nella minoranza, riguardava piccoli gruppi di transessuali MtF che stavano principalmente nei contesti metropolitani – a Torino, Milano, Genova, Roma – e che vivevano ai margini. La vita che facevano era automaticamente destinata alla marginalità, non c’era uno spazio di riconoscimento e di visibilità. Poi, piano piano, si è iniziato un percorso di visibilità per rivendicare la propria condizione trans. In quegli anni, però, la rivendicazione era molto focalizzata sul riconoscimento del cambio di sesso che molte avevano fatto all’estero, ma che in Italia non era riconosciuto e che anzi era perseguito. Il primo coming out trans in Italia per rivendicare questo diritto è la manifestazione all’idroscalo di Milano del 1979 dove un gruppo di trans si presentò a seno nudo dichiarando che, se per la legge erano identificati come maschi, allora si sarebbero comportati come tali indossando solo gli slip. Da lì anche il mondo trans ha iniziato a farsi spazio in quel contesto articolato di movimento di cui parlavamo prima, non senza conflitti, soprattutto con il movimento femminista. Non ci fu la capacità di capirsi da ambo le parti: le femministe non colsero la possibilità di decostruzione dei modelli di genere dominanti a cui apriva l’esperienza trans, mentre le trans faticarono a mettere in discussione quell’identità di donna in cui si riconoscevano.

E da allora come si sono modificate le cose?

La fase attuale è passata attraverso un riconoscimento politico di esperienze e di realtà da parte delle istituzioni. Le istituzioni, i partiti, i sindacati hanno cominciato a prendere in considerazione le istanze e le esigenze LGBT, da un lato perché con il movimento si era prodotto un cambiamento culturale; dall’altro perché i numeri crescevano e non era più possibile fare finta che le persone gay, lesbiche e trans non esistessero. Detto questo non si tratta di un rapporto sempre semplice con le istituzioni e la legittimità delle rivendicazioni LGBT deve essere ogni volta negoziata e ridefinita ancora oggi.

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Il movimento lesbico in Italia: una conversazione con Nerina Milletti http://www.portalenazionalelgbt.it/il-movimento-lesbico-in-italia-una-conversazione-con-nerina-milletti/ Thu, 07 May 2015 07:04:00 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=3174 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nerina Milletti, studiosa lesbica e femminista, ha attraversato il movimento lesbico italiano dal suo inizio ad oggi. Le abbiamo fatto alcune domande per comprendere meglio la storia e le specificità di questo movimento rispetto agli altri.

Quando è nato il movimento lesbico in Italia? Quali sono stati i passaggi significativi che ne hanno segnato la storia?

E’ difficile datare in modo preciso la nascita del movimento lesbico. Il motivo principale è che ha sempre avuto due anime: l’una più legata al femminismo, l’altra all’identità omosessuale. Ci sono stati cioè due percorsi inizialmente paralleli: quello in cui prima veniva l’essere donna, sia nel senso di appartenenza che come posizionamento politico; l’altro in cui invece l’omosessualità era prioritaria rispetto alla declinazione di genere.

Le due diverse prospettive, nel corso del tempo, talvolta si sono intrecciate e talvolta si sono scontrate. Per esempio le donne che facevano parte di gruppi omosessuali accusavano le lesbiche che stavano nel movimento delle donne di non rivendicare il loro lesbismo e di nascondersi dietro l’etichetta di femminista, mentre le lesbiche femministe rimproveravano alle altre il disinteresse per i diritti e le lotte delle donne e di non capire che alla base di qualsiasi oppressione, anche quella omosessuale, stanno il sessismo e il sistema patriarcale. Certo è che alle lesbiche, in entrambi i movimenti, fu richiesto uno sforzo maggiore in termini di riflessione e di analisi perché finché non si differenziarono – in un caso dalle donne eterosessuali, nell’altro, dai gay maschi – la loro specifica soggettività non poteva emergere.

La data che segna l’inizio del movimento omosessuale è, convenzionalmente, quella della contestazione del convegno che era stato indetto a Sanremo il 5-6 aprile 1972 dal cattolico Centro Italiano di Sessuologia con lo scopo di avallare una proposta di legge che avrebbe reso l’omosessualità un reato. A segnalarlo e a creare le condizioni per organizzare la manifestazione di protesta fu proprio una donna – Maria Silvia Spolato – che nel 1971 aveva già fondato il gruppo FLO (Fronte di Liberazione Omosessuale) e che poi militò nel Fuori!.

Alla fine degli anni Settanta nacquero i primi gruppi lesbici: le Brigate Saffo a Torino, il gruppo Realtà Lesbica a Firenze e molti altri. Ma di un vero e proprio movimento lesbico si può parlare solo dal 1981, anno denso di eventi significativi, tra questi il fatto avvenuto ad Agrigento: due ragazze viste baciarsi in un giardinetto furono arrestate e a Roma venne organizzata una manifestazione in loro difesa, l’unica finora fatta in Italia per istanze specificatamente lesbiche. Nello stesso anno, sempre a Roma, viene fondato il CLI (Collegamento Lesbiche Italiane) che cominciò a pubblicare un bollettino per diffondere le notizie sui vari appuntamenti, la cultura e la politica lesbica; ricordiamoci che le informazioni a quei tempi potevano circolare solo attraverso la carta stampata. Come ho detto, anche se il 1981 fu un anno di grande importanza per il lesbismo separatista, prima non c’era il vuoto: erano state aperte le librerie delle donne, fondate case editrici, occupati spazi per le sedi dei gruppi, gestiti luoghi di ritrovo, tradotti e messi in circolazione testi del lesbismo radicale, organizzati seminari e convegni per incontrarsi e discutere. Nel decennio che arriva fino ai primi anni ’90, il movimento lesbico separatista fu estremamente produttivo e vitale, in controtendenza rispetto al movimento delle donne (eterosessuali) che aveva iniziato la sua parabola discendente già da un bel po’ di anni.

Hai fatto riferimento al separatismo, quali sono state le pratiche specifiche del movimento lesbico?

Il separatismo, inteso come necessità di avere spazi autonomi, per i motivi che ho detto, fu una scelta obbligata ancor prima che politica, sia per coloro che si riconoscevano nel femminismo (il separatismo era una caratteristica dei collettivi femministi, anche di quelli etero), sia di quante crearono momenti o gruppi separati di donne all’interno del movimento gay. Va sottolineato, infatti, che il separatismo è appunto una pratica, una strategia, un metodo di lavoro, non un obiettivo o una condizione da raggiungere. Nei gruppi femministi lesbici, almeno in quelli che conosco io, non vi era la pratica dell’autocoscienza in senso stretto poiché le urgenze erano diverse e forse più immediate: il riconoscimento reciproco, l’accettazione di sé, la visibilità.
La visibilità era l’altro pilastro: una visibilità che era sia quella a livello personale (indispensabile punto di partenza per dare valore e riconoscimento alle nostre relazioni d’amore e quindi a noi stesse), sia la presa di parola pubblica di un soggetto politico; quindi non la partecipazione a eventi pubblici decisi da altre o da altri, ad esempio le sfilate del Pride, che per lungo tempo sono state percepite come estranee alla proprie esigenze e priorità, né tanto meno le apparizioni in tv.
Gli argomenti dei seminari, i criteri di scelta dei film proiettati ai festival del cinema, i temi dei convegni, tutto veniva lungamente discusso prima nelle riunioni dei gruppi a livello locale poi le riflessioni fatte venivano riportate negli incontri nazionali. Sul solco del femminismo, ciò avveniva fuori dal principio di delega o di rappresentanza: ognuna parte da sé, perciò nessuna può parlare a mio nome. Si sperimentava un metodo decisionale diverso, difficile da concepire per chi pensa la politica in termini di maggioranze, di voti e di numeri. Non c’erano presidenti, non c’erano tessere, non c’erano portavoce; anche solo costituirsi in associazione, al tempo, era percepito come un processo di istituzionalizzazione assolutamente da evitare. Dovevi metterti in gioco, essere fisicamente presente, partecipare a tutte le fasi; dato che le riunioni venivano indette in città diverse, le donne si spostavano molto. Lo scambio reciproco di ospitalità era di prassi e facendoci entrare nelle loro case e nelle vite stesse, era un ulteriore modo per vedere e capire la realtà delle altre lesbiche.

Il riferimento al femminismo mi sembra molto significativo, qual è stato il rapporto tra questi due movimenti?

Bisogna fare una distinzione tra ‘femminismi’ (le diverse teorie che articolano un pensiero alla cui base sta la constatazione dell’ineguale trattamento di uomini e donne nella società) e il ‘movimento delle donne’, l’insieme che al suo interno contiene le tante, e spesso molto diverse, correnti. Quella che va sotto il nome di ‘pensiero della differenza sessuale’, per esempio, ha sempre marginalizzato l’esperienza lesbica, considerandola inessenziale a fronte dell’appartenenza di sesso, interpretandola come una riproposizione dell’ordine simbolico maschile o un puro comportamento sessuale, tanto che hanno sempre preferito connotare il legame tra due donne con la parola omosessualità. Per le lesbiche femministe come noi, la parola lesbica invece aveva (e ha) un valore politico che va oltre l’attrazione fisica per una persona del medesimo sesso e significa una donna che sceglie di dare prioritariamente le proprie energie emotive, sessuali, materiali ad altre donne. Con quella parte di femminismo c’è stata quindi una profonda distanza: c’era la sottovalutazione del valore esperienziale e cognitivo delle relazioni erotiche tra donne; dentro la categoria di Donna elaborata nel loro pensiero tutte le altre differenze sparivano, compresa quella di classe.
Rispetto ai rapporti con le altre femministe eterosessuali non si può generalizzare, c’erano molte differenze territoriali e probabilmente esistevano contesti e situazioni dove la reciproca attenzione e collaborazione non erano sempre possibili. Ma questa non è stata la mia esperienza personale: a Firenze ci riunivamo alla Libreria delle Donne che, sebbene fosse gestita principalmente da donne etero, ci riconosceva come soggetti politici e rispettava le nostre scelte, anche grazie alla presenza tra di loro di alcune donne lesbiche come Liana Borghi. Più in generale il femminismo (in particolare quello radicale) legittimò il lesbismo, rese possibile il suo impianto teorico e fornì occasioni che, come i grandi convegni di Pinarella o Paestum, furono importanti non solo per far emergere e discutere la specificità lesbica ma, per molte, anche per viverla.

E la relazione con il movimento gay e l’esperienza trans come si è articolata?

Come dicevo, alcune donne che facevano parte del movimento misto riconobbero la necessità di spazi separati a causa della misoginia e del sessismo che dimostravano taluni omosessuali maschi. Della sottovalutazione delle donne ne abbiamo prova guardando ad esempio le ricostruzioni storiche di quegli anni fatte da studiosi gay che hanno in un qualche modo rimosso o minimizzato il contributo femminile. Nella storia del Fuori!, ad esempio, Maria Silvia Sposato – che ho citato prima – fu una figura chiave di cui non si riconosce l’effettiva importanza; lo stesso vale per moltissime altre occasioni del movimento: se si guardano le foto, vediamo che le donne c’erano ma nessuno ne ricorda i nomi e nemmeno la presenza.
A parte alcune felici sinergie a livello locale, possiamo dire che in generale il movimento delle lesbiche, tra l’altro molto meno dotato di mezzi e risorse, ha avuto difficoltà a trovare un terreno comune con il movimento degli omosessuali per l’incomprensione che l’altra parte mostrava rispetto alle istanze e alle modalità politiche delle donne. La diffidenza nei confronti dei ‘fratelli’ gay non impedì però la collaborazione tra i due movimenti nel momento in cui l’epidemia di AIDS costringerà alla messa in campo di tutte le energie disponibili per fronteggiarne gli effetti; un’esperienza che porterà, se non sempre a modificare i rapporti di potere esistenti, a riformulare nuove alleanze tra lesbiche e gay e a mettere a punto obiettivi comuni per cui lottare insieme.

Anche per quanto riguarda le persone trans la relazione ebbe luci e ombre. Ci furono alcuni spiacevoli episodi legati alla pratica del separatismo quando alcune trans chiesero di entrare nella Casa delle donne a Roma o alla settimana lesbica a Bologna, così come di essere iscritte ad una mailing list lesbica, tutti luoghi dichiaratamente chiusi a chi non fosse di sesso femminile. Il rifiuto delle lesbiche, che rivendicavano il pieno diritto a decidere chi dovesse partecipare ad una loro iniziativa e pretendevano il rispetto per scelte che, giuste o sbagliate che fossero, erano loro, innescò una serie di polemiche e di reciproche incomprensioni che dalle singole persone coinvolte, che avevano agito a livello individuale senza prima cercare un confronto politico, si trasmise a più ampio raggio. A mio parere, incomprensioni dovute essenzialmente al fatto che trans e lesbiche fino ad allora si erano reciprocamente ignorate e non si erano mai dette il significato che rispettivamente attribuivano a concetti fondamentali quali sesso, genere, corpo, sessualità. Oggi le cose sono molto cambiate, dentro e fuori i movimenti LGBT; a maggior ragione l’esigenza di riflettere insieme sulle diverse esperienze identitarie, di incontrarci per sapere cosa oggi voglia dire essere lesbica, gay o trans e capire le possibili contraddizioni, limiti e possibilità che le tre diverse identità offrono, mi sembra sia ancora presente.

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Di cosa parliamo quando parliamo di Queer? Una conversazione con Cristian Lo Iacono http://www.portalenazionalelgbt.it/queer-un-termine-fluttuante-ma-non-troppo/ Wed, 06 May 2015 09:02:38 +0000 http://www.portalenazionalelgbt.it/?p=3116 A cura di Giulia Selmi, sociologa, Gruppo di redazione.

Nel dibattito scientifico, così come nell’attivismo, negli ultimi anni si è sempre più diffuso il termine ‘Queer’ quale ulteriore prospettiva per rendere conto della molteplicità degli orientamenti e delle identità sessuali. Per comprendere al meglio la genealogia di questo termine e i suoi molteplici significati ne abbiamo discusso con Cristian Lo Iacono, filosofo e curatore, insieme ad Elisa Arfini, di Canone Inverso – Antologia di teoria queer, edito da ETS.

Dal punto di vista etimologico, qual è l’origine ed il significato del termine queer?

Queer è un termine della lingua inglese per designare le persone omosessuali, in particolare ‘i maschi omosessuali effeminati’. Per lungo tempo si è trattato di un dispregiativo, di un insulto: ‘deviato, checca’. Dal punto di vista etimologico, in inglese il termine è attestato intorno al 1500 e significa ‘strano, particolare, eccentrico’. Molto probabilmente l’origine più remota è germanica. Infatti, in tedesco troviamo l’aggettivo quer, che ha il significato di ‘obliquo, perverso’. Anche il verbo to queer, in origine, ha un senso prettamente negativo che significa andar male, andare in rovina.

Dunque, prima ancora che avere un significato prettamente connesso con la sessualità deviante, il termine ha a che fare con la deviazione, e con la devianza in quanto tale. Solo successivamente, intorno agli anni venti, l’aggettivo si applica agli ‘omosessuali maschi effeminati’: il termine fu impiegato con questo significato nel 1925 dalla rivista teatrale americana “Variety”. Del resto, se il termine gergale per indicare l’uomo o la donna eterosessuale è, in inglese, straight, che vuol dire ‘diritto’, ‘giusto’, ‘convenzionale’, per opposizione l’omosessuale, e in generale chi devia dalla norma eterosessuale, deve essere ‘queer’. Ciò che è interessante notare è che il dualismo tra norma e devianza, da un lato, non è una semplice contrapposizione, ma è fondato su un giudizio di valore (positivo contro negativo, buono contro cattivo, ecc). Dall’altro, è interessante notare che questo dualismo ha un duplice aspetto: da un lato oppone eterosessualità (corretta) a omosessualità (scorretta), dall’altro, oppone maschilità (corretta) a femminilità (scorretta).

Negli ultimi vent’anni, però, il termine queer ha assunto un significato differente e, per esempio, ad oggi la teoria queer è riconosciuta come vero e proprio campo di studi. Quando è iniziato questo processo? E, quali sono i principali aspetti di questo approccio teorico?

Sì, ad oggi il termine queer identifica un campo di studi ampio ed interdisciplinare sulle questioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere, ma anche alla loro intersezione con gli altri possibili posizionamenti identitari come la classe sociale, la provenienza geografica, la disabilità, eccetera.

Per la sua ‘data di nascita’ abbiamo una data certa, ovvero il 1991, anno in cui fu pubblicato un numero speciale della rivista accademica americana “Differences”, curato da Teresa de Lauretis. Nell’introduzione al fascicolo, de Lauretis parla esplicitamente di queer theory come di un campo di studi sulle sessualità lesbiche e gay, ma anche di impegno teorico-pratico in cui le esperienze e i saperi di gay e lesbiche possano finalmente incontrarsi dopo anni di sviluppo quasi parallelo e di vita poco condivisa tra le due soggettività. Successivamente è stata la filosofa statunitense Judith Butler a consolidare il campo della teoria queer, conducendo la riflessione sulle complesse connessioni tra genere, corpo e orientamento sessuale e invitandoci ad abbandonare definitivamente una visione essenzialista delle identità e delle sessualità – ovvero una visione che fa ricorso alla ‘natura’ o ‘all’essenza’ degli individui per spiegarne comportamenti, emozioni, pratiche e posizioni sociali differenziati.

Un’ulteriore prospettiva teorica queer viene dal mondo gay maschile e si è focalizzata sulla messa in discussione della cosiddetta ‘omonormatività’ che, riprendendo il ben più noto termine eteronormatività, definisce l’aspetto normativo (e, di conseguenza, escludente) della cultura omosessuale dominante. Se, dunque, negli ultimi quarant’anni la norma (etero)sessuale ha avuto uno spostamento, non è stata decostruita: semplicemente ha incluso una parte dei comportamenti e degli stili di vita una volta considerati non degni di riconoscimento (come quelli di alcune specifiche modalità di essere gay o lesbica) escludendone altri, escludendo cioè quei soggetti che per modo di essere, condizioni culturali o economiche, non arrivano a quello standard o lo rifiutano.

Per quanto riguarda l’attivismo ed i movimenti LGBT quando si diffonde una prospettiva queer?

Sul piano dell’attivismo politico, il termine queer, viene adottato consapevolmente negli stessi anni a cavallo tra la fine degli anni ottanta e i primissimi anni novanta. Potremmo dire che designa la messa in pratica di quelle aspirazioni a cui de Lauretis e altri accennavano: fronte comune tra gay e lesbiche e attenzione alle differenze interne. Nasce la strategia che verrà detta della ‘intersezionalità’ delle lotte, che consiste nella rinuncia alla rappresentazione dei soggetti, gay, lesbiche e trans, come soggetti unitari e monodimensionali. Le persone LGBT non sono tutte uguali e sono diversamente posizionate all’interno della società in base a diverse ‘appartenenze’, spesso in conflitto tra loro. Per fare un esempio: cosa è il lesbismo per una donna nera? Oppure, cosa significa essere gay per un disoccupato che non riesce a stare al passo con il modello consumistico della ‘comunità’ gay, fatta di locali e di mercificazione del look? Concretamente, a partire dagli Stati Uniti, queste nuove alleanze si sono formate in un contesto di forte recrudescenza dell’omofobia conseguente all’esplosione dell’epidemia dell’AIDS. Il primo attivismo queer, infatti, è nato attorno alle ‘azioni dirette’ dei gruppi di gay, lesbiche e trans per rivendicare dignità e per costruire delle reti di protezione per le persone (in maggioranza gay) che stavano morendo una dopo l’altra.

In sintesi, oggi cosa designa il termine queer?

In un certo senso queer è venuto a sostituire il termine ‘omosessuale’, ma anche ‘gay’, ‘lesbica’, ‘transessuale’, ‘transgender’, quando si vuole usare un termine per designare la rottura con la norma eterosessuale. All’interno del contesto delle diversità sessuali ha assunto uno specifico significato che vuole mettere in discussione la distinzione tra sesso, orientamento sessuale e genere e che ci ricorda quanto articolati e complessi sono i differenti aspetti che compongono le identità.

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